Midterm elections: i numeri finali del trionfo repubblicano alla Camera

di Aldo Paparo

Lo scorso sabato 6 dicembre si sono svolti i ballottaggi in Louisiana per l’assegnazione dei due seggi della Camera e del seggio senatorio non assegnati al primo turno il 4 novembre per via del particolare sistema elettorale in vigore in tale Stato. Alla luce di questi risultati, abbiamo adesso il quadro completo del prossimo Congresso, il 114°, che si insedierà in gennaio[1]. Iniziamo col dire che Mary Landrieu, l’incumbent democratica in Senato per lo Stato di New Orleans, è stata sconfitta al ballottaggio dallo sfidante repubblicano Cassidy, con un margine superiore ai 10 punti percentuali. Ciò significa che la maggioranza del GOP nel prossimo Senato sarà formata da 54 membri sui 100 totali.

I democratici si ritrovano quindi, all’indomani del midterm 2014, senza alcun rappresentante eletto a livello statale in tutto il profondo Sud. Nessun mandato, infatti, sui 15 disponibili fra Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e Carolina del Sud è di un democratico. E diventano addirittura zero su trenta se allarghiamo un poco lo sguardo e includiamo Texas, Arkansas, Oklahoma, Tennessee e Carolina del Nord. I repubblicani esprimono ogni Senatore, ogni Governatore, e la maggioranza in tutte le assemblee legislative statali dalle pianure del Texas alle coste atlantiche della Carolina: una cintura blu di 10 Stati davvero impressionante.

Venendo in particolare al risultato elettorale alla Camera, i repubblicani hanno conquistato 246 seggi contro i 188 del Partito Democratico. Candidati del GOP hanno strappato 15 seggi precedentemente detenuti da democratici; in 3 occasioni sono stati i candidati democratici a conquistare seggi che erano repubblicani nel 113° Congresso. In due di queste occasioni hanno sconfitto gli uscenti repubblicani, mentre nel trentunesimo distretto della California Pete Aguilar ha conquistato un open seat. Esattamente identica la composizione dei nuovi seggi repubblicani fra seggi con e senza l’incumebent democratico in campo. Dei 15 totali, infatti, 10 sono stati vinti contro l’uscente, 5 invece erano corse aperte.

Ricapitolando, l’avanzata netta dei repubblicani è pari a 12 seggi, che li porta ad avere la più ampia maggioranza alla Camera del dopoguerra, eguagliando il risultato del 1946 [2]. Guardando nel complesso al controllo del Congresso, sommando quindi le percentuali dei seggi detenuti nei suoi due rami, di nuovo il risultato dei repubblicani appare senza precedenti nel dopoguerra. Come ulteriore riprova del carattere storico dei risultati osservati in queste elezioni 2014, possiamo citare il nuovo record ogni epoca del numero di seggi persi da candidati del partito del Presidente nell’arco dei suoi due mandati. Sotto Obama sono stati ben 75, superando quindi i 74 dell’era Truman.

Agli 11 incumbent sconfitti nelle elezioni generali dagli sfidanti del partito rivale, vanno aggiunti i 4 sconfitti nelle primarie di partito. Tre di questi erano repubblicani. Completa il quadro il quinto distretto della Louisiana, dove l’incumbent repubblicano McAllister è stato sconfitto nelle “primarie non partitiche” dello scorso 4 novembre, ovvero al primo turno. Questi non è infatti riuscito a qualificarsi per il ballottaggio, giungendo addirittura quarto con poco più del 10% dei voti. In tutti e 5 i questi casi, i seggi sono poi stati mantenuti dal partito che li aveva nel 113° Congresso, facendo quindi registrare un cambiamento solo nella persona del rappresentante, non nella sua affiliazione politica.

Considerando poi che 41 deputati in tutto non hanno corso per la rielezione nel 2014, il tasso di riconferma degli incumbent in questa tornata legislativa è straordinariamente alto: addirittura superiore al 95%. Se però guardiamo a questo dato disaggregato per partito, rileviamo una certa disparità. Infatti, meno del 3% dei deputati repubblicani che avrebbero voluto un nuovo mandato non lo hanno ottenuto, mentre ciò è accaduto in oltre il 6% dei casi per i democratici.

Un ulteriore dato merita di essere sottolineato preliminarmente, per inquadrare al meglio il risultato elettorale che andremo fra poco ad analizzare in maggiore dettaglio geografico. Il voto popolare complessivo. In totale i candidati repubblicani hanno raccolto quasi 40 milioni di voti, contro i 35,4 milioni dei candidati democratici. Anche questo elemento testimonia lo straordinario successo del GOP (o insuccesso dei democratici – o di Obama -, a seconda delle prospettive). Si tratta infatti di un margine che sfiora i sei punti percentuali sul totale dei voti espressi in queste elezioni legislative. Due anni fa, in occasione del precedente rinnovo della Camera, i repubblicani avevano vinto la maggioranza dei seggi (234, comunque 12 in meno di oggi), ma i candidati democratici avevano, in totale, raccolto la maggioranza dei voti. La vittoria repubblicana nasceva quindi soprattutto del ritaglio del collegi e della maggiore concentrazione dei voti dei rivali democratici[3]. Ecco, questo non è più un argomento spendibile nell’analisi del risultato del 2014: i repubblicani vincono perché hanno più voti; è del tutto connaturato con la natura disproporzionale del collegio che un successo di 6 punti nei totali di voto si trasformi in un margine circa doppio nel numero di seggi vinti.

Veniamo adesso ad analizzare il risultato elettorale dal punto di vista geografico. La figura 1 mostra la mappa degli Stati Uniti in cui ciascun distretto è colorato di rosso o di blu a seconda del partito di appartenenza del candidato vincitore del relativo seggio nel 2014. Tale figura contiene anche l’informazione circa il passaggio di mano o meno dei diversi seggi fra le elezioni del 2012 e quelle del 2014.

Osservando la figura possiamo avanzare una serie di considerazioni interessanti. A cominciare dalla grande continuità che emerge con il 2012: le aree colorate di scuro (rosso o blu) sono largamente maggioritarie, ad indicare come la stragrande maggioranza dei collegi abbia mantenuto invariato il proprio colore politico. In questo senso, il quadro geografico che emerge ne 2014 non può che apparire assai simile a quello di due anni fa. Successi GOP più o meno ovunque, tranne che in alcune roccaforti democratiche ben individuabili: il Nordest, il Pacifico e il Midwest fra Minnesota, Wisconsin e Illinois. E in effetti la figura conferma tale scenario.

Possiamo poi evidenziare come l’avanzata repubblicana appaia, per quanto sempre limitata ad una sparuta minoranza dei collegi, piuttosto trasversale e non concentrata geograficamente. Macchie rosso chiaro si registrano, infatti, nel Nordest, al Sud, nel Midwest e anche nel West. Facendo bene i conti, infatti, si osserva che il GOP appare in crescita in ciascuna delle macroaree del paese. Guadagna un seggio nel West, passando da 39 a 40 rappresentanti su 102. L’avanzata è leggermente più marcata al Sud (4 seggi netti su 161) e nel Midwest (2 seggi in più sui 94): poco sopra ai due punti percentuali. La crescita più rilevante si registra nella roccaforte democratica, il Nordest: qui il GOP guadagna 5 seggi, passando da 25 a 30 sui 78 complessivi. Con una crescita, quindi, superiore ai 6 punti percentuali. Si trova qui anche lo Stato con il maggior numero di seggi netti di crescita per uno dei due partiti: a New York i repubblicani avanzano di 3 seggi, dai 6 del 2012 ai 9 del 2014.

Naturalmente la diseguale composizione di partenza delle rappresentanze partitiche delle quattro macroaree può influenzare questo risultato. Se misuriamo le avanzate nette repubblicane, che comunque si sono registrate in tutte e quattro le aree, come percentuale sui seggi precedentemente in mano ai democratici, ovvero come percentuale dei seggi che i repubblicani sono riusciti a strappare fra quelli che era loro possibile strappare, ci accorgiamo come, comunque, il quadro appaia sostanzialmente immutato. Nel Nordest i repubblicani vanno a segno nel 9% abbondante dei seggi democratici del 113° Congresso. Nel Sud questa percentuale è pari all’8%, nel Midwest sfiora il 6%, mentre nel West è inferiore al 2%.

Da notare come la crescita del numero dei rappresentanti repubblicani non è più una costante se guardiamo alle varie zone che compongono le quattro macroaree. Sono sei sulle nove totali quelle in cui il GOP è in crescita rispetto al 2012. Nel nordovest centrale e nel sudest centrale il risultato aggregato è identico a quello del 2012. Nella regione del Pacifico sono i democratici ad essere in crescita, grazie al +1 fatto registrare in California.

I tre nuovi collegi conquistati da candidati democratici appaiono anch’essi piuttosto sparsi geograficamente: uno in California, uno in Florida e uno in Nebraska. Uno a testa, quindi, per il West, il Sud e il Midwest. Nessuno nel Nordest. In questo caso, vista l’esiguità del numero assoluto, più che di fenomeno omogeneo geograficamente appare opportuno parlare di casi sporadici. Comunque interessante rilevare come questi si siano verificati in Stati in cui i democratici si sono, in generale, difesi meglio che altrove.

Fig. 1 – Mappa del risultato elettorale alla Camera

Per comprendere al meglio il risultato elettorale, nella tabella 1 riportiamo il dettaglio dei seggi vinti da candidati dei due partiti nei diversi Stati. Come possiamo osservare, in totale vi sono 32 Stati con una rappresentanza in maggioranza repubblicana, contro i 14 che hanno eletto più democratici. In attesa di conoscere chi conquisterà il decisivo nono seggio in Arizona, possiamo comunque già affermare che 3 Stati avranno una rappresentanza perfettamente divisa fra i due schieramenti.

Curiosamente si tratta di tre Stati del Nordest: New Hampshire e Maine nel New England con i propri due seggi ciascuno, il New Jersey (12 seggi) nel Medio Atlantico. Questo denota la maggiore competitività dei candidati repubblicani in questa regione del paese. In ogni caso, anche nel 2014 il Nordest si conferma in maggioranza democratico: oltre il 60% dei deputati eletti, infatti, appartengono al partito dell’asinello. Dei nove Stati che formano questa regione, solo la Pennsylvania ha una maggioranza di rappresentanti del GOP, contro i 5 in maggioranza democratici (erano 7 due anni fa). Da notare, inoltre, come il Medio Atlantico sia ormai equamente diviso fra i due partiti, mentre solo il New England rimane a dominio democratico (19 deputati contro i 2 repubblicani). E peraltro, anche in questo caso si registra una avanzata repubblicana, dal momento che due anni fa era finita 21 a 0.

L’altra regione che si conferma a maggioranza democratica è il West. Seppur in calo, i democratici mantengono il 60% circa dei seggi della regione. Da notare come, però, negli Stati occidentali non bagnati dall’oceano la maggioranza dei deputati sia repubblicana. Lo era già due anni or sono, ma oggi ci sono due repubblicani per ogni democratico eletto. Il che però è più che bilanciato dal 70% abbondante di rappresentanti democratici dei 5 Stati della zona Pacifica. A conferma della divisione interna al West, basta guardare la delegazioni dei vari Stati. Ci accorgiamo così che la maggioranza è formata dagli Stati che hanno eletto a Washington più candidati repubblicani: 7 contro i 5 con una maggioranza di deputati democratici. Anche una vittoria nell’ultimo collegio ancora in palio in Arizona non cambierà questa evidenza.

Le rimanenti due regioni del paese sono a maggioranza repubblicana. Nel Midwest il GOP esprimerà i due terzi dei Representatives del prossimo Congresso. Risultato abbastanza omogeneo fra le porzioni occidentale e orientale della regione. Si segnala ancora – come già nel 2012 – una certa maggiore rilevanza della componente repubblicana nel Nordovest centrale. Tuttavia si registra anche come la crescita complessiva del GOP nel Midwest provenga interamente dal Nordest centrale, che quindi appare nel 2014 più simile alla zona occidentale della regione in quanto a composizione partitica dei propri deputati. Anche guardando agli Stati in maggioranza democratici o repubblicani, il quadro non cambia. Solo il Minnesota nel Nordovest centrale e l’Illinois nel Nordest centrale hanno eletto più democratici, gli altri 10 Stati del Midwest sono tutti in maggioranza repubblicani.

Come abbiamo avuto già modo di accennare, nella geografia elettorale degli Stati Uniti contemporanei la porzione meno competitiva del paese è il Sud a favore dei repubblicani – e non più il Nordest per i democratici. Questo è confermato anche dal risultato delle legislative 2014 alla Camera. Al Sud, infatti, oltre il 70% dei deputati eletti per il 114° Congresso è repubblicano. Gli unici Stati del Sud con una rappresentanza alla Camera in maggioranza democratica sono il Delaware e il Maryland, ovvero l’estrema periferia nordorientale della regione, ai confini con la capitale federale e il Nordest. Se li escludiamo, e guardiamo ai rimanenti 14 Stati meridionali con una rappresentanza in prevalenza GOP, scopriamo che oltre i tre quarti dei collegi sono stati vinti da candidati repubblicani. E questo uniformemente fra le tre zone in cui è possibile dividere analiticamente il Sud del paese.

Tab. 1- Riassunto dei seggi conquistati dai candidati democratici e repubblicani, dettaglio per Stato

Naturalmente bisogna essere molto cauti nell’interpretare questi risultati in chiave nazionale, e specialmente nell’ottica delle elezioni 2016. La tentazione di leggervi un chiaro segnale di una vittoria annunciata per i repubblicani nelle prossime elezioni presidenziali è molto forte, vista la roboante proporzione del successo del GOP. Ci sono però alcuni di elementi che sconsigliano una simile interpretazione di questo risultato.

Innanzitutto si è votato per eleggere rappresentanti “locali” in 435 collegi uninominali. Nel 90% circa dei casi, come abbiamo visto, gli elettori dovevano scegliere se confermare o meno il rappresentante eletto nel 2012. Naturalmente il risultato aggregato osservato dipende dal combinato disposto di questa moltitudine di contese, in cui – certamente – hanno un ruolo rilevante specifici fattori locali. D’altro canto, appare innegabile che, specialmente in questa circostanza, il risultato sia anche il frutto di un voto “nazionale” contro Obama. Che però non sarà in campo nel 2016. E, per assurdo, sulla capacità di distanziarsi dalla sua eredità si giocherà molta della credibilità della sfida democratica alla Casa Bianca nel 2016.

In ogni caso, non essere tenuto in considerazione il fattore collegi. I risultati del 2014 ci dicono che possiamo con assoluta tranquillità prevedere che i repubblicani avranno ancora la maggioranza alla Camera dopo le elezioni del 2016, che si disputeranno negli stessi collegi uninominali. Non così, però, si svolgono le elezioni presidenziali, nelle quali per conquistare i grandi elettori occorre vincere a livello statale. Quindi il vantaggio repubblicano, derivante dalla loro capacità di ottimizzare la distribuzione dei propri voti nei collegi, viene meno.

Bisogna poi valutare lo straordinario calo dell’affluenza alle urne: anche se mancano ancora i dati definitivi degli elettori registrati su cui poi calcolare la relativa proporzione, appare quasi certo che si attesterà attorno al 40%, probabilmente leggermente al di sotto di tale soglia simbolica. Sarà comunque la più bassa di sempre, con un calo di circa 2 punti rispetto al 2010 – le precedenti legislative senza concomitanza con le presidenziali-. Per la nostra interpretazione del risultato questo elemento è assai rilevante, dal momento che significa, con tutta probabilità, che i repubblicani hanno vinto più per l’incapacità dei democratici di mobilitare i propri elettori in queste elezioni, che non perché hanno sfondato nell’elettorato altrui. Tra due anni, con un nuovo candidato scelto attraverso la mobilitazione delle primarie, i democratici potrebbero essere nuovamente in corsa.

Inoltre bisogna considerare come, nel sistema bipartitico statunitense, i repubblicani abbiano potuto oggi capitalizzare al massimo l’insoddisfazione dell’elettorato nei confronti dell’amministrazione Obama, e più in generale della stagnazione economica. Hanno adesso, però, il compito di dimostrarsi capaci di migliorare le cose, altrimenti fra due anni potrebbe toccare a loro essere travolti dall’ondata di malcontento. A favore, magari, di qualche volto nuovo del Partito Democratico che possa presentarsi come un’alternativa allo status quo pur appartenendo al partito che ha guidato il paese dalla Casa Bianca nei precedenti otto anni.


[1] In realtà manca ancora l’attribuzione ufficiale del seggio del secondo distretto dell’Arizona. L’incumbent democratico Ron Barber ha ricevuto meno voti della sfidante repubblicana Martha McSally stando ai risultati pubblicati dal dipartimento di stato di Tucson. Il margine è però talmente esiguo che si sta provvedendo alle operazioni di riconteggio in ottemperanza ad una legge statale che lo impone in casi in cui lo scarto sia inferiore ai 200 voti. Si tratta peraltro della prima occasione in cui tale legge viene applicata. Il risultato definitivo sarà proclamato non prima del prossimo 15 dicembre. In questo articolo non consideriamo questo seggio e ci comportiamo come se la House fosse composta di 434 Representatives.

[2]Se poi dovesse essere confermata la vittoria della McSally nel secondo distretto in Arizona, sarebbe necessario tornare indietro a prima della Grande Depressione per trovare un’analoga maggioranza GOP alla Camera (1928).

[3] Da notare che le elezioni del 2012 erano le prime svoltesi dopo il ridisegno dei collegi avvenuto a seguito del censimento del 2010. Dopo le elezioni di midterm del 2010, i repubblicani controllavano già la maggioranza delle assemblee legislative statali – che sono gli organi predisposti ad effettuare il ridisegno dei collegi – e avevano potuto sfruttare tale posizione per avvantaggiarsi attraverso il gerrymandering. Pratica del tutto accettata come legittima nel gioco politico, purché all’interno dei confini (piuttosto permissivi ai nostri occhi) dettati da una serie di sentenze delle Corti Supreme statali e federale. Peraltro, per comprendere completamente le ragioni del vantaggio competitivo dei repubblicani nei collegi uninominali bisognerebbe anche considerare la questione dei minority-majority districts, i quali garantiscono alla minoranza afroamericana di avere rappresentanti affini ma, data la straordinaria prevalenza degli elettori democratici in tale settore della popolazione, penalizza il partito dell’asinello nel quadro generale. In ogni caso, è dal 1942 che i democratici non conquistano la maggioranza dei seggi alla Camera senza avere anche la maggioranza dei voti a livello nazionale.

Aldo Paparo è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Firenze. È stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche alla LUISS Guido Carli. Dopo il conseguimento del dottorato è stato W. Glenn Campbell and Rita Ricardo-Campbell National Fellow presso la Hoover Institution alla Stanford University, dove ha condotto una ricerca sulla identificazione di partito in chiave comparata. Ha conseguito con lode il dottorato di ricerca in Scienza della Politica presso la Scuola Normale Superiore (ex SUM) di Firenze, con una tesi sugli effetti del ciclo politico nazionale sui risultati delle elezioni locali in Europa occidentale. Ha conseguito con lode la laurea magistrale presso Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi sulle elezioni comunali nell’Italia meridionale. Le sue principali aree di interesse sono i sistemi elettorali, i sistemi politici e il comportamento elettorale, con particolare riferimento al livello locale. Ha co-curato numerosi volumi della serie dei Dossier CISE; e ha pubblicato articoli scientifici su South European Society and Politics, Italian Political Science, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, Contemporary Italian Politics e su Monkey Cage. È stato inoltre co-autore di un capitolo in Terremoto elettorale (Il Mulino 2014). È membro dell’APSA, della MPSA, della ESPA, della ECPR, della SISP e della SISE. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.