Allargamento e successo elettorale: la strategia vincente del PPE

di Vincenzo Emanuele

 Con la presentazione dei simboli e delle liste, la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento Europeo (PE) è ormai cominciata. Ci sembra quindi opportuno dedicarci all’analisi dei protagonisti della politica europea, gli europartiti. Sebbene infatti, come rileva Bardi [2002, 252] utilizzando la celebre classificazione di Katz e Mair [1993] sulle tre “facce” dei partiti” (partito sul territorio, partito come organizzazione e partito nelle cariche pubbliche), una faccia  predomini nettamente sulle altre, quella del partito sul territorio, rappresentata dai partiti nazionali, gli europartiti si sono molto rafforzati negli ultimi decenni, acquisendo uno status e un prestigio maggiori grazie soprattutto al rafforzamento del ruolo del PE all’interno del processo decisionale dell’UE. In questo e nei successivi articoli ci dedicheremo quindi all’analisi della storia elettorale e della composizione dei principali gruppi politici[1] all’interno del PE.

Il Partito Popolare Europeo (European People’s Party, PPE) è, sin dal 1999, il partito di maggioranza relativa all’interno del PE. Nelle ultime elezioni europee ha conquistato 265 seggi, corrispondenti al 36% del PE, distanziando nettamente i rivali del PSE (200 seggi corrispondenti al 25% del PE). Il PPE rappresenta, insieme a socialisti e liberali, uno dei tre gruppi storici all’interno del PE. Già prima dell’elezione diretta del PE (1979), i rappresentanti dei partiti di ispirazione democratico-cristiana dell’Europa dei 6 paesi fondatori (la DC italiana, la CDU-CSU tedesca e i partiti cristiano-sociali e cristiano-democratici del Benelux) avevano cominciato a sviluppare delle forme di coordinamento internazionale. Il partito vero e proprio fu creato nel luglio 1976 e fu inizialmente guidato dall’allora Primo Ministro belga Leo Tindemans. Vi entrarono i partiti democristiani dell’ex Europa dei 6, più il Fine Gael, partito dell’Irlanda, entrata nel 1973 nella Comunità. Eppure, questa iniziale composizione, sebbene capace di fare del PPE un gruppo ideologicamente coerente e politicamente coeso[2], lo rendeva debole nei confronti dei rivali del PSE, tanto da fargli perdere sia le elezioni del 1979 che quelle del 1984 (vedi Figura 1).

Già dall’inizio degli anni ’80 all’interno del PPE si aprì un acceso dibattito interno. La componente tedesca aveva infatti intuito che con l’ingresso di Gran Bretagna e Danimarca nella Comunità e in vista di nuovi allargamenti ad altri paesi che, come questi ultimi, erano privi di una forte tradizione democristiana, il PPE si sarebbe di molto indebolito nei confronti del PSE [Delwit 2001]. Era quindi necessario aprire il partito all’ingresso di forze conservatrici e liberali, che pur non provenendo dalla tradizione democratico-cristiana, ma che fossero comunque alternative alla sinistra nei rispettivi paesi. L’idea, rivoluzionaria, non piaceva ai partiti del Benelux né alla DC, abituata a stringere spesso alleanze di governo con i partiti della sinistra moderata ma a rifiutare pregiudizialmente di guardare verso destra.

Nonostante le resistenze interne, la strategia di apertura “a destra” del PPE, perseguita dalla CDU-CSU, fu riconosciuta come necessaria anche per reagire alla progressiva erosione del consenso delle forze democristiane tradizionali. La politica di apertura del PPE cominciò nel 1981 con l’ingresso  dei conservatori greci di Nea Demokratia per proseguire poi, alla fine degli anni ’80, con l’ingresso dei conservatori portoghesi e dei popolari spagnoli, eredi del regime franchista. Nonostante queste annessioni le fortune elettorali dell’europartito non migliorarono: nel 1989 il PPE raggiunse il punto più basso della sua storia, ottenendo appena il 23,4% dei seggi contro il 34,7% del PSE.

 Fig. 1 Andamento elettorale del PPE. Percentuale di seggi nel PE, 1979-2009.

 

L’inizio degli anni ’90 è segnato da un ulteriore rafforzamento della politica di allargamento: nel 1992 i Conservatori britannici e danesi, partiti dichiaratamente euroscettici, sono ammessi nel gruppo parlamentare del PPE. Grazie a questi ingressi cambia definitivamente la natura del partito e i suoi rapporti di forza interni dal momento che, anche per la fine della DC, i partiti d’ispirazione democristiana vengono messi in minoranza[3] dai partiti “right-located” (Hix 2002). Dal punto di vista elettorale, le europee del 1994 segnano un’inversione di tendenza, con la crescita elettorale del PPE che sale al 27,7% dei seggi, sebbene ancora molto distante dal PSE, forte del suo 34,9%. Nel corso della legislatura 1994-1999 avviene il passo decisivo per colmare il gap storico di consenso nei confronti dei rivali del PSE: la delegazione italiana, priva ormai della componente democristiana, si rimpolpa grazie all’ingresso di Forza Italia, e contemporaneamente raggiungono il gruppo anche i principali partiti di centro-destra di Portogallo e Francia, vale a dire il partito socialdemocratico portoghese e il partito gollista francese (RPR, poi UMP). I nuovi ingressi di Austria, Svezia e Finlandia, poi, permettono l’inclusone, oltre che dei popolari austriaci dell’ ÖVP, anche dei conservatori svedesi (Moderata) e finlandesi (KOK).

 Tab. 1 Risultati elettorali del PPE nei paesi membri, 1979-2009.

 

Forte di questa poderosa strategia inclusiva il PPE riesce a vincere le elezioni del 1999, conquistando 233 seggi contro i 180 del PSE e raggiungendo il massimo storico (37,2%). La vittoria è resa possibile dalla straordinaria crescita elettorale del gruppo in alcuni stati chiave (vedi Tabella 1), come l’Italia, in cui i partiti aderenti al PPE passano dal 13,9% al 38,1% dei voti, la Francia (dal 12,8% al 22,1%), il Regno Unito (dal 27 al 35,8%) e la Germania (dal 38,8% al 48,7%), crescita favorita anche dal generale arretramento delle forze di governo in questi stessi paesi, tutti a guida socialista, coerentemente con gli assunti della teoria delle “second order elections” [Reif and Schmitt 1980]. La vittoria avviene però al prezzo di paradossali contraddizioni ideologiche, emblematizzate dal caso italiano che vede l’adesione al PPE di partiti schierati su fronti opposti in politica nazionale, come Forza Italia e il PPI.

Dal 1999 ad oggi il PPE ha perseguito una politica tesa a consolidare la leadership all’interno del PE, proseguendo sulla strada dell’inclusione di forze conservatrici e di destra e prediligendo il successo elettorale a scapito della coerenza interna del gruppo[4]. Con il maxi-allargamento a est della Comunità (2004) entrano nel gruppo parlamentare del PPE al PE partiti provenienti da tutti gli Stati della nuova Europa a 25, ansiosi di entrare a far parte del PPE per la potente legittimazione democratica che ne deriva a livello internazionale. In particolare, si aggiungono alle forze politiche già presenti i partiti conservatori o liberali di Ungheria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, e i partiti cristiano-democratici di Slovacchia e Slovenia. Forte di queste annessioni e sfruttando la sostanziale assenza di una tradizione socialdemocratica nei paesi dell’Est Europa, il PPE stravince le elezioni del PE ottenendo 268 seggi (il 36,6%) contro i 200 dei socialisti. Con l’eccezione delle piccole Estonia e Malta, i popolari surclassano i socialisti in tutti i nuovi paesi membri, ottenendo quasi il 53% dei voti in Ungheria e percentuali pari o superiori al 40% in Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia.

Nel 2009, infine, l’ingresso delle delegazioni rumena e bulgara compensa la perdita dei seggi del Regno Unito, dovuta alla fuoriuscita dei Conservatori inglesi, incompatibili con il gruppo per il loro crescente euroscetticismo[5]. Il PPE si mantiene sostanzialmente stabile al 36% dei seggi (265),  allarga ulteriormente la forbice rispetto al PSE (25%) e riconferma Barroso alla Presidenza della Commissione.

Alla vigilia delle prossime elezioni del 22-25 maggio, il PPE può contare su 52 partiti appartenenti a 27 paesi membri, in 10 dei quali è al potere un Primo Ministro o un Presidente aderente al PPE (Tabella 2). L’eccezione è rappresentata dal Regno Unito, unico stato privo di rappresentanza nel PPE, mentre anche la neo-entrata Croazia può contare su due partiti nel gruppo dei popolari (HDZ e HSS).

Le elezioni del 2014 si presentano cariche di rischi per i popolari, che presentano il lussemburghese Jean-Claude Juncker come candidato alla Presidenza della Commissione. Il PPE riuscirà a mantenere la maggioranza relativa nel PE come avviene ormai da 15 anni? Da un lato, il successo netto ottenuto nelle ultime due elezioni nell’Europa Centro-Orientale e la contemporanea debolezza del PSE nei nuovi paesi membri lascerebbero pensare ad un vantaggio divenuto ormai strutturale e difficilmente scalfibile. Dall’altra parte non si può sottovalutare il fatto che il PPE è ormai percepito più d’ogni altra forza politica come il partito di governo dell’UE, nonché come la forza politica che – grazie all’egemonia esercitata dalla CDU della Cancelliera Merkel sul resto del gruppo – è responsabile della politica di rigore dei conti pubblici e di austerità perseguita in questi anni dall’UE. L’essere percepiti come incumbent in un tempo di aspra crisi economica potrebbe avere conseguenze nefaste per i risultati elettorali del PPE, minacciati alla propria destra dalla crescita del gruppo dei partiti anti-europeisti capeggiato dal Front National di Marine Le Pen.

 Tab. 2 Elenco dei partiti membri del PPE alla vigilia delle elezioni europee del 2014.



[1] La sovrapposizione tra gruppo e partito non è totale. Alcuni partiti nazionali fanno parte di un gruppo parlamentare nel PE pur non essendo membri dell’europartito. In questa sede ci dedichiamo all’analisi dei gruppi politici.

[2] Sul punto si veda l’analisi di Hix [2002] sul comportamento di voto dei gruppi politici all’interno del PE.

[3] Per la verità il “sorpasso” avviene solo nel corso della legislatura con l’ingresso dei deputati di Forza Italia nel 1998, come riportato da Van Hecke [2003].

[4] Sulla trasformazione della piattaforma programmatica del PPE vedi Hanley [2002]; sulla diminuita coesione del gruppo parlamentare vedi Bardi [2002] e Hix [2002].

[5] A partire dal 2009, i Conservatori inglesi hanno formato il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR).

Vincenzo Emanuele è professore associato in Scienza Politica presso la LUISS Guido Carli di Roma. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienza della Politica presso la Scuola Normale Superiore (ex SUM) di Firenze con una tesi sul processo di nazionalizzazione del voto in Europa occidentale e le sue possibili determinanti. La sua tesi ha vinto il Premio 'Enrico Melchionda' conferita alle tesi di dottorato in Scienze Politiche discusse nel triennio 2012-2014 e il Premio 'Celso Ghini' come miglior tesi di dottorato in materia elettorale del biennio 2013-2014. È membro del CISE, di ITANES (Italian National Election Studies) e del Research Network in Political Parties, Party Systems and Elections del CES (Council of European Studies). I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle elezioni e i sistemi di partito in prospettiva comparata, con particolare riferimento ai cleavages e ai processi di nazionalizzazione e istituzionalizzazione. Ha pubblicato articoli su European Journal of Political research, Comparative Political Studies, Party Politics, South European Society and Politics, Government and Opposition, Regional and Federal Studies, Journal of Contemporary European Research, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. La sua prima monografia Cleavages, institutions, and competition. Understanding vote nationalization in Western Europe (1965-2015) è edita da Rowman and Littlefield/ECPR Press (2018), mentre la seconda The deinstitutionalization of Western European party systems è edita da Palgrave Macmillan. Sulle elezioni italiane del 2018, ha curato la Special Issue di Italian Political Science ‘Who’s the winner? An analysis of the 2018 Italian general election’. Clicca qui per accedere sito internet personale. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.