Verso le midterm elections: una introduzione preliminare

di Aldo Paparo

Tra una quindicina di giorni, il prossimo martedì 4 novembre, negli Stati Uniti si svolgerà l’election day. Per quanto riguarda il livello federale, avranno luogo le elezioni legislative. Tutti gli elettori saranno chiamati a rinnovare il proprio rappresentante alla Camera: tutti i 435 seggi che la compongono sono infatti in palio. Nella grande maggioranza degli stati, si terranno anche le elezioni per il Senato: ci sono 36 seggi da assegnare nei 34 Stati chiamati al voto. Naturalmente, la presidenza Obama si concluderà nel 2016, quindi il Presidente non è direttamente interessato da questa tornata elettorale[1].

Si tratta in ogni caso di un momento fondamentale anche per l’inquilino della Casa Bianca, che avrà inevitabili ripercussioni sulla sua capacità di essere efficace nell’azione di governo nei due anni rimanenti del suo mandato. Il sistema istituzionale americano è l’archetipo della separazione dei poteri alla Montesquieu. Il vertice dell’esecutivo è eletto ogni quattro anni in via (semi-)diretta: ha una sua propria investitura e legittimità, e non dipende dalla fiducia parlamentare. Ad ogni modo, il Congresso mantiene il potere legislativo: ecco perché risulta cruciale avere la maggioranza nei suoi due rami.

Come accennavamo, il Parlamento statunitense è formato da due Camere: il Senato, composto da 100 membri, 2 per ciascuno dei 50 Stati, indipendentemente dalla relativa popolosità; e la Camera dei Rappresentanti, costituita da 435 rappresentati. L’intero Stato costituisce un’unica circoscrizione elettorale per le elezioni senatoriali; per la Camera, l’intero territorio nazionale è diviso in 435 collegi aventi grossomodo lo stesso numero di elettori. Alla Camera, quindi, il peso dei diversi Stati in termini di seggi è proporzionale alla loro popolosità[2]. Il sistema elettorale è il medesimo per le due assemblee: il plurality, ovvero l’uninominale di collegio in turno unico[3].

Il caso statunitense è forse il bicameralismo più simile a quello italiano: entrambe le Camere devono approvare nella medesima redazione qualunque legge perché questa venga sottoposta al Presidente per la ratifica[4]. Naturalmente un simile impianto istituzionale può avere senso per un enorme paese federale, in cui una camera rappresenta il popolo americano e l’altra gli Stati che compongono, ciascuno con pari titolo, la federazione. In ogni caso, anche negli Stati Uniti il bicameralismo paritario crea notevoli problemi ad un’efficace azione di governo. Per potere approvare una norma ci vuole la maggioranza dei voti delle due Camere e il consenso del Presidente. Quando le tre istituzioni non esprimono lo stesso colore politiche le cose diventano assai complicate: il sistema politico appare in stallo e incapace di fornire risposte agli elettori. Dobbiamo inoltre considerare che tali istituzioni siano elette in momenti diversi e, come abbiamo visto, per rappresentare componenti diverse della nazione. Solo la metà delle volte la Camera è eletta insieme al Presidente, e, anche quando ci sono le presidenziali, solo un terzo dei seggi del Senato viene rinnovato. In buona sostanza, l’ordinamento statunitense è imperniato sulla protezione della minoranza dalla tirannia della maggioranza, il che però comporta serie difficoltà nel cambiare lo status quo: solo quando la maggioranza degli Stati e dell’elettorato vanno nella stessa direzione del Presidente, l’azione di governo può essere spedita. A questo si aggiunga che occorrono 60 Senatori per controllare efficacemente il Senato, ovvero per poter far scattare la ghigliottina (cloture) che conclude il dibattito e impone un voto immediato ponendo fine alle tattiche ostruzioniste -altrimenti piuttosto efficaci -.

In riferimento al procedimento legislativo, l’unico potere del Presidente sta nella sua facoltà di veto: può rinviare un testo al Congresso, che deve riapprovarlo con maggioranze dei due terzi in entrambi i suoi rami. Nessun partito ha mai avuto tali maggioranze contemporaneamente nelle due camere negli ultimi 50 anni: quindi è corretto dire che il Presidente è effettivamente in grado di impedire l’approvazione di legislazione a lui sgradita. Il punto è che, però, l’uomo più potente del mondo non ha alcun reale potere per ottenere l’approvazione di legislazione gradita. Non può neppure presentare un disegno di legge a nome suo o del governo. Ecco perché le midterm elections sono così importanti. E queste in particolar modo, dal momento che – come vedremo – la maggioranza democratica al Senato è in bilico.

Il corpo elettorale per le due Assemblee è il medesimo, a differenza di quanto avviene nel nostro paese[5]. Il mandato dura due anni alla Camera e sei al Senato. Ogni due anni si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato. In quest’ultimo caso, le elezioni dei 100 seggi complessivi sono sfalsate, in modo da avere il rinnovo parziale di un terzo dell’assemblea ogni due anni e totale ogni sei[6].

Le elezioni del 2012, contestuali alla vittoria di Obama per il suo secondo mandato, hanno riconsegnato il medesimo quadro del 2010: un Parlamento diviso. I repubblicani controllano largamente la Camera, con 234 rappresentanti, mentre i democratici hanno mantenuto la maggioranza al Senato (53 seggi[7]). Se osserviamo (fig. 1) le elezioni dell’era Obama, notiamo infatti come solo nei primi due anni del suo primo mandato, il Presidente democratico abbia potuto contare su di una maggioranza dello stesso colore politico sia alla Camera che al Senato. A partire dalle elezioni del 2010, il controllo della Camera è invece passato in mano repubblicana. Sono ormai, quindi, quattro anni che la Presidenza Obama fronteggia la necessità di ottenere il sostegno per lo meno di una porzione non marginale dei rappresentanti repubblicani per vedere approvata qualunque sua iniziativa legislativa.

Fig. 1 – Colore politico delle principali istituzioni elettive degli Stati Uniti durante la presidenza Obama

Se allarghiamo ulteriormente il nostro orizzonte, e guardiamo all’evoluzione del controllo istituzionale nell’intero dopoguerra (fig. 2), due cose meritano di essere sottolineate. Innanzitutto quanto avvenuto nel 2010, la perdita del maggioranza parlamentare nelle elezioni di midterm da parte del partito che esprime il presidente, appare alquanto comune nei più recenti decenni. In effetti è accaduto ad entrambi gli ultimi due Presidenti, a Clinton nel primo mandato e a Bush nel secondo.

In secondo luogo, inquadrando questa instabilità nella recente storia politica degli Stati Uniti in un contesto più ampio, possiamo certamente dire che si tratti di un fenomeno nuovo. Dalla figura 2 si ha chiaramente l’impressione di come gli ultimi due decenni rappresentino una chiara discontinuità rispetto al periodo precedente. Se guardiamo alla Camera, ci accorgiamo come per quaranta anni consecutivi (1954-1994) i democratici abbiano sempre avuto la maggioranza, fino a che non l’hanno persa a midterm del primo mandato di Clinton, come accennavamo sopra.

Da allora, l’assemblea elettiva più stabile fra tutte le democrazie occidentali nel corso della guerra fredda è divenuta assai più competitiva, avendo registrato due ulteriori cambiamenti di maggioranza (nel 2006 a favore dei democratici e nel 2010 a favore dei repubblicani).

Al Senato la discontinuità rappresentata dagli ultimi venti anni è meno lampante perché già negli anni Ottanta, ai tempi della presidenza Reagan, i repubblicani erano riusciti a conquistare la temporaneamente la maggioranza. Comunque sia, anche al Senato  si sono registrati più cambi i maggioranza negli ultimi venti anni che nei precedenti quaranta.

Fig. 2 – Colore politico delle principali istituzioni elettive degli Stati Uniti dal 1946 ad oggi

Per comprendere la stabilità dei successi democratici nelle elezioni legislative nello stesso periodo in cui i non sono mai stati alla Casa Bianca per più di otto anni consecutivamente, sarebbe necessario un livello di dettaglio eccessivo per gli scopi di questa introduzione. Ci limitiamo ad accennare alcune fra le principali componenti del vantaggio competitivo detenuto dai democratici nel corso della guerra fredda: a cominciare dalla New Deal Coalition. Con questa espressione si intende un blocco sociale ed elettorale (costituito da lavoratori sindacalizzati, minoranze religiose – quali cattolici ed ebrei-, bianchi del Sud e indigenti) che si è coagulato attorno ai democratici al momento delle politiche roosveltiane ed ha poi continuato a votare democratico per decenni. Il peso di questo fattore si affievolisce verso la fine degli anni Sessanta, quando però la svolta sui diritti civili di Johnson consegna ai democratici il consenso largamente maggioritario degli elettori afroamericani, a costo del voto bianco del Sud, in quello che è l’ultimo grande stravolgimento della geografia elettorale statunitense.

L’ultimo fattore cruciale che non possiamo non citare in merito al predominio democratico nelle legislative è l’incumbency factor. Questo elemento è davvero cruciale per analizzare le elezioni statunitensi, specialmente quelle per la Camera. Viene infatti stimato che un candidato uscente abbia fra gli otto e i dieci punti percentuali di vantaggio rispetto ad un candidato identico che però sia uno sfidante. Negli ultimi 50 anni gli incumbent sono stati rieletti con tassi mai inferiori all’85% e con una media superiore al 90%[8] Anche qui, molti sono i fattori che andrebbero citati per spiegare questo fenomeno. Per limitarci ai principali, ricordiamo la maggiore facilità di ottenere finanziamenti stando a Washington ed essendo un membro del Congresso, in un momento in cui i candidati dipendono sempre più dalle proprie risorse per finanziare le campagne elettorali, venendo affievolendosi il ruolo dei partiti. Inoltre, ulteriori vantaggi derivanti dal fatto di essere il Representative eletto sono la maggiore visibilità, nonché la possibilità di ottenere risultati tangibili per il distretto su cui poi fare la campagna. Alla luce dei tassi di rielezione citati sopra, è più facile comprendere come, una volta ottenuta una solida maggioranza di seggi, possa essere non poi così difficile mantenerla per lungo tempo.

Come detto, le elezioni legislative sono assai più competitive da un paio di decenni a questa parte. Al punto che fra il 2004 e il 2010, si sono susseguite quattro configurazioni diverse nel controllo delle tre principali istituzioni della democrazia a stelle e strisce. Si tratta di un qualcosa mai verificatosi in tutto il dopoguerra. Bisogna tornare indietro addirittura fino alla fine del XIX secolo per ritrovare una simile instabilità istituzionale[9]. Nel 2012 questo straordinario fenomeno si è interrotto, ma siamo ancora chiaramente al centro di una turbolenza. Non possiamo sapere se questa competitività delle elezioni legislative perdurerà in futuro, o se invece stiamo per assistere ad un riallineamento elettorale che fornirà ad uno dei due partiti un vantaggio competitivo simile a quello che i democratici hanno avuto lungo tutto il corso delle guerra fredda: ma al momento questa incertezza è un dato di fatto. Il che rende le midterm elections ancora più interessanti.

Concludendo questo nostra breve presentazione delle prossime elezioni legislative statunitensi, speriamo di avere chiarito quale sia la posta in palio e quali siano i possibili esiti. Dei quattro scenari potenziali (vittorie repubblicane o democratiche in entrambe le camere o Parlamento diviso nelle due versioni cromatiche) al momento solo due appaiono realistici. I repubblicani manterranno la maggioranza alla Camera, mentre solo al Senato i giochi sono ancora aperti. Pertanto potremmo avere un Congresso con due maggioranze repubblicane, o altri due anni con lo stesso schema che abbiamo sperimentato negli ultimi quattro.

Aldilà degli aspetti istituzionali, certamente assai rilevanti, non bisogna tralasciare il valore simbolico di queste elezioni. Certo, Obama – la cui popolarità appare di nuovo ai minimi storici di tre anni or sono – non è direttamente in campo. Ma il suo capitale politico è comunque in gioco. Potrebbe risultare ulteriormente ridotto, ad esempio, in caso di vittoria repubblicana nel voto complessivo alla Camera. E, soprattutto, in caso di passaggio di mano del Senato. Ciò potrebbe comportare conseguenze davvero nefaste per i suoi margini di azione politica. D’altro canto, se i democratici dovessero riuscire a mantenere la maggioranza dei seggi al Senato, gli ultimi due anni dell’amministrazione Obama inizierebbero con una rinvigorente ventata di aria fresca che potrebbe spolverare un po’ l’immagine del Presidente – al momento non certo scintillante – e aumentarne il potere contrattuale nel processo legislativo.

Non resta ormai che aspettare un paio di settimane per scoprire quali contorni potranno avere gli ultimi due anni da Presidente del primo afroamericano mai eletto alla Casa Bianca.


[1] L’election day coinvolge inoltre una variegata serie di ulteriori consultazioni nei vari Stati. A partire dalle 36 competizioni per la carica di Governatore, proseguendo con i rinnovi – parziali o totali –  che interessano 87 delle 99 assemblee legislative statali, fino ad arrivare ad elezioni di giudici e procuratori, o specifici referendum  locali.

[2] E’ la Costituzione stessa a dettare la procedura per l’assegnazione in base alla popolazione dell’ultimo censimento dei seggi agli Stati, le cui assemblee legislative ritagliano poi il disegno del numero assegnato di collegi.

[3] Vi sono comunque alcune eccezioni. Sono infatti gli organi legislativi degli Stati – e non il Congresso federale – ad avere la competenza relativamente alla normativa elettorale anche per quanto concerne il livello federale. Come vedremo, una eccezione piuttosto rilevante in queste elezioni 2014 è rappresentata dalla Louisiana.

[4] Il Senato ha alcune prerogative speciali, quali l’approvazione delle nomine presidenziali – ad esempio giudici della Corte Suprema o i membri del governo – o la ratifica dei trattati internazionali.

[5] Vi sono, invece, delle differenze per quanto concerne l’elettorato passivo, analogamente a quanto avviene in Italia, ma con cifre assai inferiore. Per essere eletti alla Camera occorrono 25 anni compiuti, per il Senato ne servono 30.

[6] I 100 seggi sono divisi in tre classi, ciascuna delle quali vota ogni sei anni. Nessuno stato ha i suoi due seggi nella stessa classe, quindi in ciascuno di essi gli elettori votano per il Senato due volte ogni tre elezioni. Nel 2014, in aggiunta alle 33 competizioni ordinarie per il rinnovo dei mandati della seconda classe, iniziati nel 2008, si vota anche per tre seggi delle terza classe divenuti vacanti nel corso dell’attuale legislatura (2012-2014).Questi ultimi tre mandati non saranno di sei anni, dal momento che scadranno comunque nel 2016, insieme agli altri della terza classe.

[7] In realtà la maggioranza democratica al Senato può essere considerata di 55 seggi, dal momento che i due Senatori indipendenti sono entrambi iscritti nel gruppo democratico, mentre quello repubblicano conta 45 iscritti.

[8] Potrebbe sembrare tautologico: i democratici mantengono la maggioranza perché i propri incumbent traggono vantaggio da tale condizione. Cosa ci dice che non sono gli incumbent che vengono rieletti in quanto si avvantaggiano del fatto di essere democratici? Innanzitutto, il fatto che i tassi di riconferma riportati siano calcolati comprendendo anche con gli uscenti repubblicani, che – seppur in minoranza – hanno sempre rappresentato una quota assai rilevante del totale. Inoltre, l’incumbency factor ha continuato a manifestarsi anche dopo la fine dell’egemonia democratica alla Camera, quindi non poteva essere causato da questa. Come ulteriore riprova, si pensi che il tasso medio di rielezione degli incumbent negli ultimi venti anni è addirittura superiore ai precedenti trenta.

[9] Fra il 1886 e il 1894 sono state addirittura quattro le elezioni consecutive in cui almeno una delle tre istituzioni ha cambiato casacca, con quindi cinque pattern diversi consecutivi.


Aldo Paparo è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Firenze. È stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche alla LUISS Guido Carli. Dopo il conseguimento del dottorato è stato W. Glenn Campbell and Rita Ricardo-Campbell National Fellow presso la Hoover Institution alla Stanford University, dove ha condotto una ricerca sulla identificazione di partito in chiave comparata. Ha conseguito con lode il dottorato di ricerca in Scienza della Politica presso la Scuola Normale Superiore (ex SUM) di Firenze, con una tesi sugli effetti del ciclo politico nazionale sui risultati delle elezioni locali in Europa occidentale. Ha conseguito con lode la laurea magistrale presso Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi sulle elezioni comunali nell’Italia meridionale. Le sue principali aree di interesse sono i sistemi elettorali, i sistemi politici e il comportamento elettorale, con particolare riferimento al livello locale. Ha co-curato numerosi volumi della serie dei Dossier CISE; e ha pubblicato articoli scientifici su South European Society and Politics, Italian Political Science, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, Contemporary Italian Politics e su Monkey Cage. È stato inoltre co-autore di un capitolo in Terremoto elettorale (Il Mulino 2014). È membro dell’APSA, della MPSA, della ESPA, della ECPR, della SISP e della SISE. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.