Verso le midterm elections: la situazione di partenza al Senato

di Aldo Paparo

Dopo avere presentato le prossime elezioni legislative per la House of Reprentatives, in questo articolo ci concentriamo sulle competizioni per il Senato. Queste segneranno il centenario dell’elezione diretta dei Senatori. Fino al 1914, infatti, erano selezionati attraverso la procedura prevista originariamente della Costituzione, ovvero venivano eletti indirettamente dagli organi legislativi degli Stati.

Dopo le elezioni di due anni fa, i democratici hanno mantenuto la maggioranza segnando una avanzata marginale rispetto al 2010: due seggi netti in più, per un totale di 53, cui si devono aggiungere i due indipendenti iscritti nel loro gruppo. I Repubblicani si sono invece fermati a 45 Senatori, contro i 47 della precedente legislatura.

La figura 1 presenta il quadro della composizione attuale del Senato disarticolata per Stato. Possiamo osservare come in due Stati la delegazione senatoriale comprenda un Senatore indipendente, presentatosi alle elezioni senza il sostegno di alcun simbolo di partito: ciò avviene in Maine e Vermont. Come abbiamo già detto, entrambi questi Senatori sono iscritti al gruppo dei democratici. Se li contiamo fra i democratici, abbiamo 19 Stati con due Senatori democratici, 14 Stati con due Senatori repubblicani e 17 Stati con una delegazione mista.

Gli Stati blu sono concentrati nell’estremità occidentale del paese – incluse le Hawaii -, e nel nordest allargato. A nord della Carolina, infatti, i repubblicani esprimono al momento solo 3 Senatori su 22: uno in Maine, uno in New Hampshire e uno in Pennsylvania. Delegazioni tutte democratiche arrivano anche dalla regione dei laghi (Michigan e Minnesota) e lungo la verticale che dal New Mexico porta al Montana, passando per il Colorado ma con l’eccezione del Wyoming.

Le delegazioni interamente repubblicane sono concentrate nel cuore del Sud. A sudovest della Virginia, i democratici hanno oggi appena 4 Senatori su 24 nel Sud, uno a testa per Florida, Nord Carolina, Arkansas e Louisiana. Stati rossi si trovano poi nel Midwest più occidentale e in buona parte del West, con la rilevante eccezione degli Stati pacifici.

Fig. 1 – Composizione partitica delle attuali delegazioni in Senato dei 50 Stati

Come possiamo osservare nella figura 2, in questo 2014 al Senato sono in tutto in palio 36 seggi in 34 Stati[1]. Di questi, 21 sono attualmente in mano a democratici, 15 ai repubblicani. Fra i Senatori uscenti appena 4 su 36 (il 9%) sono donne, di cui tre nelle file democratiche[2].

I rimanenti 64 seggi sono 32 per i democratici, 30 per i repubblicani e 2 di indipendenti iscritti nel gruppo dei democratici. Ciò significa che i repubblicani, per controllare effettivamente il Senato devono conquistare 21 dei 36 seggi in palio, avanzando quindi di  6 seggi netti[3]. Dall’altra parte i democratici devono quindi vincere almeno 16 seggi per mantenere il controllo dell’assemblea: possono quindi permettersi di subire un arretramento, purché sia contenuto entro i 5 seggi netti persi.

Scendendo in dettaglio, nelle 33 competizioni ordinarie per i mandati di sei anni della seconda classe, ci sono 26 incumbent ai nastri di partenza (ovvero il 79%). Di questi 15 sono democratici (il 75% degli uscenti di tale partito), mentre 11 sono repubblicani (l’85%).  Tutte e quattro le Senatrici della seconda classe sono in corsa per un nuovo mandato.

L’anzianità di servizio media di questi 26 Senatori è appena superiore ai 12 anni, ovvero 2 mandati pieni. Quasi la metà di loro (12) cerca in questo 2014 il proprio secondo mandato. Nove dei dieci Freshman dell’ultima elezione della seconda classe, nel 2008, sono di nuovo in campo. Solo Johanns in Nebraska lascia dopo un solo mandato.

Per arrivare ai 12 Senatori in cerca della prima rielezione, dobbiamo includere anche i tre particolarmente freschi di nomina, che non sono entrati in Senato insieme agli altri sei anni or sono. Vediamo come. Nel Delaware sei anni fa il seggio fu vinto per la settima volta da Biden, che nelle stesse elezioni era anche candidato alla vicepresidenza e non poté quindi esercitare il mandato. Dopo una supplenza biennale di un collaboratore di Biden (Ted Kaufman), nell’election day 2010 il democratico Chris Coons è stato eletto per completare il mandato: è quindi in carica da soli 4 anni. Ancor più junior gli altri due Senatori eletti dopo il 2008: entrambi sono entrati a far parte dell’assemblea nel corso del 2013, a seguito di elezioni speciali: in Massachusetts per sostituire Kerry, nominato Segretario di Stato da Obama nel Cabinet del suo secondo mandato; in New Jersey per rimpiazzare il defunto Lautenberg.

Tutti e tre questi Senatori con un’anzianità di servizio inferiore al mandato completo sono democratici. Dall’altra parte, i repubblicani contano tutti e tre i Senatori nuovamente candidati con più di tre mandati alle spalle. I democratici vedono infatti ritirarsi i tre Senatori in carica da più tempo del proprio gruppo. Sarà anche per questo che l’anzianità di servizio media dei Senatori democratici che si ricandidano è meno della metà di quella dei repubblicani: esattamente 8 anni contro i 18 abbondanti dei colleghi. Curiosamente è l’opposto di quanto si osserva per gli incumbent della Camera: lì i democratici sono mediamente in carica da più tempo.

Completano il quadro dei 33 seggi della seconda classe regolarmente al voto i sette open seats, un quinto abbondante del totale (21%): cinque di questi erano precedentemente in mano a democratici, mentre solo in Georgia e Nebraska Senatori repubblicani non si ricandidano.

Le tre elezioni suppletive rimpiazzano due repubblicani e un democratico. In un solo caso il seggio è davvero open: in Oklahoma, dove le dimissioni di Cuborn (R) diventano operative alla fine dell’anno. Alle Hawaii e in Sud Carolina, i supplenti nominati dai Governatori al posto del defunto Inouye (D) e del dimissionario DeMint (R) – ormai in carica da quasi due anni, anche se non sono mai stati eletti in Senato[4]– sono entrambi in corsa per venire eletti e completare i rimanenti due anni dei mandati della terza classe.

Fig. 2 – Mappa delle 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: partito di appartenenza e ricandidatura o meno del Senatore uscente 

La tabella 1 riporta l’elenco delle 36 elezioni senatoriali cui stiamo per assistere. Mostra come nei due terzi delle contese elettorali i giochi sembrino ormai decisi. Possiamo infatti considerare assegnati 14 seggi a candidati repubblicani e 10 a candidati democratici. Di questi 24 seggi, 22 confermano il precedente colore politico. Solo in West Virginia e Montana appare assodato il cambio di colore da blu a rosso. E sono entrambi open seats. Ciò significa quindi che nessun Senatore uscente appare già sconfitto, e che tutti gli incumbent in questi 24 elezioni sono “certi” della rielezione. Questi sono 18, cui vanno sommati i due supplenti in Sud Carolina e Hawaii. Sono quindi quattro i Freshmen già sicuri di entrare in Senato, che andranno tutti ad occupare un open seat. Sono tutti repubblicani e tre li loro servono attualmente come deputati per uno dei distretti dello Stato che si apprestano a rappresentare.

Veniamo per un momento ai due probabili cambi di colore cui accennavamo poc’anzi. In West Virginia si ritira dopo cinque mandati Jay Rockfeller. Entrambi i seggi senatoriali dello Stato appartengono ai democratici dai tempi di Eisenhower, ma il clima politico sembra ormai maturo per lo storico cambio di colore. Lo Stato si  è infatti lentamente spostato verso il GOP, tanto che nel 2012 Romney ha sconfitto Obama in tutte le sue contee. La repubblicana Shelley Moore Capito dovrebbe quindi aumentare l’esigua rappresentanza femminile in Senato.

In Montana Max Baucus ha lasciato vacante il suo seggio dopo 35 anni in febbraio, quando è stato nominato da Obama ambasciatore in Cina. Il suo sostituto, John Walsh ha dovuto ritirare la propria candidatura dopo avere vinto le primarie a seguito di uno scandalo, e la candidata scelta dal partito all’ultimo minuto (la deputata statale Amanda Curtis) appare nettamente in ritardo nei sondaggi.

Fra questi 24 seggi “già assegnati”, le donne sono appena 2 (l’8%): oltre alla Moore Capito, solo la Collins nel Maine può dirsi sicura della rielezione.

Nei rimanenti dodici Stati si decideranno le sorti di queste elezioni. Nove esprimono al momento Senatori democratici, tre sono invece i repubblicani. Se accettiamo le previsioni sulle altre 24 contese, il GOP ha bisogno di sette vittorie fra questi dodici seggi competitivi per strappare la maggioranza ai democratici. Per il partito del Presidente è invece sufficiente pareggiare in questo insieme ristretto per mantenere il controllo del Senato. Vediamo nel dettaglio queste cruciali competizioni.

Otto di esse vedono in campo il Senatore uscente per la rielezione, in sei istanze questi è un democratico. Sono quattro invece gli open seats nella nostra selezione di casi competitivi; fra questi, tre vedono ritirarsi un Senatore democratico.

Concentrandosi su questi ultimi, i democratici dovrebbero riuscire a tenere il seggio del Michigan, mentre appare assai probabile il cambio di colore a favore dei repubblicani in Sud Dakota. In Georgia e Iowa le sfide sembrano più aperte, ma i candidati del GOP appaiono in entrambi i casi in leggero vantaggio. In quest’ultimo caso sarebbe una donna ad entrare in Senato e strappare il seggio ai democratici: Joni Ernst. Lo stesso accadrebbe – una nuova donna in Senato – se i democratici, con Michelle Nunn, dovessero alla fine strappare ai repubblicani il seggio della Georgia; o se viceversa i repubblicani dovessero vincere in Michigan con Terri Lynn Land.

I due incumbent repubblicani nei 12 seggi competitivi non sembrerebbero dovere avere particolari insidie ad ottenere un rinnovo dei propri, già più volte confermati, mandati in stati profondamente rossi, e in quest’elezione che si preannuncia favorevole al proprio schieramento. Così non è: cerchiamo di capire come mai. In Kentucky McConnell insegue la sua quinta rielezione. E’ quindi in sella da 30 anni ed è il capogruppo repubblicano in Senato da dopo le elezioni 2006. E’ un uomo di 72 anni che ne avrà 78 quando scadrà il mandato di cui va in cerca. I tempi sembrano maturi per un avvicendamento. Già nel 2008 ha fatto registrare un risultato elettorale piuttosto magro, se comparato con i propri migliori. Ancor più preoccupante è il 60% con cui ha riconquistato la nomination repubblicana alle primarie: si tratta del risultato più basso in Kentucky per un incumbent dal 1938, a prescindere dal partito. A sfidarlo è la trentacinquenne segretario di Stato del Kentucky Alison Lundergan Grimes. In ogni caso, la rielezione dell’anziano incumbent repubblicano appare più probabile della sua sconfitta[5].

Completamente incerto è invece il destino del collega di partito del Kansas, il settantottenne Pat Roberts. Questi cerca in novembre il suo quarto mandato, e sei anni or sono ha vinto con quasi 25 punti di scarto sullo sfidante democratico. Il punto è che stavolta la concorrenza non viene dal tradizionale competitor. Ad insidiare il suo seggio è un candidato indipendente, per far posto al quale i democratici hanno ritirato la propria candidatura. Il candidato in questione si chiama Greg Orman ed i sondaggi lo danno alla pari di Roberts. Questi è divenuto uno dei protagonisti di queste elezioni. Si tratta di un quarantacinquenne nativo del Montana, laureato in economia a Princeton, ed imprenditore di notevole successo. E’ stato registrato come elettore repubblicano all’inizio della sua età adulta, in seguito si è registrato come democratico, ed è registrato senza affiliazione partitica dal 2010. Sostiene di avere votato Obama nel 2008 e Romney nel 2012. Ha lavorato per la campagna presidenziale di Bush nel 1988 ma ha votato il suo assassino elettorale del 1992 – e kingmaker di Clinton –, Ross Perot. Insomma, un vero e proprio enigma. Ha fondato la Coalizione per il Buonsenso e si propone come un “centro ragionevole”. Il grande dilemma è rappresentato dal partito nel cui gruppo si iscriverà se dovesse essere eletto. A precisa domanda ha risposto che si iscriverà con il partito che avrà la maggioranza, perché ciò è nel massimo interesse del Kansas. E se la sua scelta dovesse essere decisiva per attribuire all’uno o all’altro la maggioranza, chiederà a entrambi i partiti di impegnarsi sulle riforme che più gli stanno a cuore (immigrazione e fisco in primis) e si iscriverà con chi accetterà di portarle avanti. Ha anche dichiarato che non avrebbe timore di cambiare affiliazione nel corso della legislatura, rovesciando quindi la maggioranza, se si dovesse accorgere che il partito cui si è iscritto fa la “vecchia politica”.

I sei incumbent democratici nei nostri 12 collegi competitivi affrontano sfide dai coefficienti di difficoltà variabili. In Alaska e soprattutto in Arkansas la situazione appare quasi disperata per Begich e Pryor. Le colleghe Jeanne Shaheen e Kay Hagan dovrebbero invece riuscire a mantenere I propri seggi in New Hamsphire e Nord Carolina, conquistandosi un secondo mandato. Anche Mark Udall in Colorado è in corsa per un secondo mandato: al momento non si può definirlo front-runner, ma appare pienamente in corsa in una delle sfide più difficili da pronosticare, che lo vede opposto al repubblicano Cory Gardner.

L’ultima sfida, del tutto sui generis, si svolge il Louisiana. La particolarità sta nel sistema elettorale. Qui infatti non si hanno primarie di partito: tutti i candidati si presentano direttamente alle elezioni. Se nessuno ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi, si procede al ballottaggio fra i due candidati più votati. L’incumbent democratica, Mary Landrieu, è alla ricerca del suo quarto mandato. Solo nel 2008 ce l’ha fatta al primo turno, nelle due precedenti circostanze ha dovuto ricorrere al ballottaggio. Al momento appare improbabile che possa conquistare il seggio il prossimo 4 novembre: i sondaggi la accreditano in testa, ma attorno al 40%. Al contempo, appare del tutto incerto come potrebbe finire il quasi sicuro ballottaggio.

Tab. 1 – Le 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: anzianità di servizio dei Senatori uscenti, principali candidati e possibile esito

Tirando le somme, fra i dodici seggi competitivi che abbiamo segnalato, ne abbiamo 3 con i democratici in testa, 4 con i repubblicani avanti e 5 con i due candidati principali più o meno appaiati. Queste sono le partite chiave di questa tornata elettorale: Colorado, Georgia, Iowa, Kansas e Louisiana. Se accettiamo che quest’ultimo Stato andrà al ballottaggio, consideriamo che i candidati leggermente in vantaggio porteranno a casa gli altri 7 seggi competitivi, e ipotizziamo che i repubblicani vincano due delle rimanenti quattro sfide chiave – e altrettante se le aggiudichino candidati democratici -, la sera delle elezioni ci troveremmo di fronte al seguente scenario: i repubblicani hanno 50 seggi, i democratici – includendo i 2 indipendenti – 49. Tutto sarebbe deciso il 6 Dicembre nel ballottaggio della Louisiana fra la Landrieu e il più votato dei suoi sfidanti repubblicani, che al momento sembra poter essere il Congressman del sesto distretto Bill Cassidy. Un mese di fuoco sotto i riflettori nazionali attenderebbe il piccolo Stato del Sud[6], con tutti gli occhi della nazione ad osservarne la campagna elettorale per il ballottaggio.

E non abbiamo inserito in questa equazione la variabile Orman. Se dovesse essere eletto, la maggioranza del Senato potrebbe restare in bilico fino alla convocazione del 114° Congresso nel prossimo gennaio. E, chissà, essere messa in discussione nel corso della legislatura.

Un ulteriore fattore potrebbe poi stravolgere tutti i calcoli: abbiamo detto come al momento in Senato vi siano due indipendenti iscritti fra i democratici. Il rappresentante del Vermont, Bernie Sanders, è un autodichiarato socialista che propugna un sistema di welfare scandinavo. E’ probabilmente il Senatore più di sinistra di tutta l’aula e non si iscriverebbe mai al gruppo dei repubblicani. Lo stesso non può dirsi per Angus King del Maine. Questi è entrato in Senato due anni or sono, sconfiggendo sia un democratico che un repubblicano, e per tutta la campagna elettorale ha rifiutato di dichiarare in che gruppo si sarebbe iscritto se avesse vinto il seggio. Una volta eletto si è iscritto fra i democratici dicendo che non poteva non iscriversi ad un gruppo per via delle assegnazioni alle Commissioni, e che iscriversi col partito di maggioranza aveva molto più senso. Naturalmente potrebbe non essere più così dopo queste elezioni e quindi potrebbe cambiare la propria affiliazione nel 114° Congresso.

Come avrete ormai avuto modo di comprendere, i molteplici possibili incastri dei vari pezzi del puzzle senatorio che abbiamo delineato ci portano in complicati scenari fantapolitici, dai quali potremmo non riemergere più se ci dovessimo addentrare troppo. Quel che è certo è che il controllo del Senato balla sul filo di lana. E con esso anche i margini di iniziativa politica di Obama per i prossimi due anni.


[1] Abbiamo già spiegato come i 100 seggi del Senato siano divisi in tre classi, una delle quali vota ogni due anni e ciascuna delle quali ogni sei. Nel 2014 è chiamata al voto la seconda classe, costituita da 33 seggi. A questi si aggiungono tre elezioni suppletive per tre seggi della terza classe, i cui vincitori vedranno scadere il proprio mandato nel 2016. Alle Hawaii, in Oklahoma e in Sud Carolina i Senatori eletti nel 2010 non concludono il relativo mandato: nel primo caso per via del decesso, negli altri due a seguito di dimissioni volontarie. Ecco perché accade che due stati – Oklahoma e Sud Carolina – votino contemporaneamente per entrambi i seggi al Senato, nonostante ciascuno Stato abbia i suoi due seggi divisi in due classi distinte. Fatto quest’ultimo che consente di avere sempre un Senatore più anziano e uno più giovane fra i due dello Stato.

[2] La seconda classe è quella con la più bassa rappresentanza femminile. Nel 113° Congresso le donne il Senato sono 20, e si tratta del massimo numero nella storia. Ben 11 provengono dalla prima classe (un terzo esatto del totale), rinnovata più recentemente nel 2012, quando 5 nuove donne hanno conquistato un seggio. Cinque sono le Senatrici nella terza classe (il 15%), e solo, appunto, quattro provengono dalla seconda classe (ovvero il 12%). Se poi guardiamo ai due diversi schieramenti, i democratici esprimono 16 Senatrici (il 30% del proprio gruppo, se escludiamo gli indipendenti), i repubblicani 4 (l’8%).

[3] Infatti, in caso di parità in una votazione, con 50 Senatori a favore e 50 Senatori contrari, il Vicepresidente Biden, che formalmente presiede l’assemblea, avrebbe la possibilità di sciogliere l’impasse, esprimendo in via eccezionale il proprio  voto (cfr. Costituzione, 1.3.4).

[4] Ancora una volta possiamo intuire una delle specificità statali relativamente agli organi legislativi federali. In alcuni Stati, come ad esempio alle Hawaii, la legge statale delega al Governatore la nomina dei supplenti, che restano in carica come tali fino al successivo election day nel primo martedì di novembre del successivo anno pari. In altri Stati, fra cui il New Jersey, l’interim è assai più breve e serve a coprire i tempi dei svolgimento delle primarie e dell’elezione suppletiva.

[5] Decisivo potrebbe essere il ruolo del candidato del Partito Libertario, l’ufficiale di polizia David Patterson. Questi è accreditato dai sondaggi di una percentuale di intenzioni di voto significativa per quanto marginale (fra il 3 e il 5%). In una competizione uninominale così serrata quale si preannuncia quella fra la Grimes e McConnell, i suoi voti potrebbero risultare decisivi. Già trenta anni fa, in occasione della sua prima elezione in Senato di McConnell, un candidato minore ebbe un ruolo chiave. L’attuale Senatore repubblicano vinse infatti di circa 5.000 voti sull’allora incumbent democratico Huddleston, mentre il candidato del Partito Socialista dei Lavoratori ne raccolse circa 7.500.

[6] Vi risiede, infatti, meno dell’1,5% del totale della popolazione statunitense: una dimensione analoga a quella dell’Umbria in Italia.

Aldo Paparo è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Firenze. È stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche alla LUISS Guido Carli. Dopo il conseguimento del dottorato è stato W. Glenn Campbell and Rita Ricardo-Campbell National Fellow presso la Hoover Institution alla Stanford University, dove ha condotto una ricerca sulla identificazione di partito in chiave comparata. Ha conseguito con lode il dottorato di ricerca in Scienza della Politica presso la Scuola Normale Superiore (ex SUM) di Firenze, con una tesi sugli effetti del ciclo politico nazionale sui risultati delle elezioni locali in Europa occidentale. Ha conseguito con lode la laurea magistrale presso Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi sulle elezioni comunali nell’Italia meridionale. Le sue principali aree di interesse sono i sistemi elettorali, i sistemi politici e il comportamento elettorale, con particolare riferimento al livello locale. Ha co-curato numerosi volumi della serie dei Dossier CISE; e ha pubblicato articoli scientifici su South European Society and Politics, Italian Political Science, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, Contemporary Italian Politics e su Monkey Cage. È stato inoltre co-autore di un capitolo in Terremoto elettorale (Il Mulino 2014). È membro dell’APSA, della MPSA, della ESPA, della ECPR, della SISP e della SISE. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.