Governo e Parlamento, quanto pesa l’incognita della legge elettorale

di Roberto D’Alimonte

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 Novembre 2016

Per il presidente del consiglio riforma elettorale e riforma costituzionale sono due cose separate. Da un certo punto di vista è così. Se la riforma costituzionale verrà approvata il 4 Dicembre le innovazioni introdotte potranno funzionare indipendentemente   dal metodo di elezione dei deputati. Il bicameralismo differenziato può coesistere sia con un sistema di voto proporzionale che con uno maggioritario. Questo vale a maggior ragione per gli altri elementi della riforma costituzionale: dal nuovo sistema di relazioni tra stato e regioni al rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta. Se vincerà il SI tutto questo sarà acquisito sia che l’Italicum resti come è, sia che si passi a altro sistema elettorale.

Tutto questo è vero. Ma è anche vero che gli effetti della riforma costituzionale sul funzionamento del parlamento e sull’efficacia della azione di governo saranno significativamente diversi a seconda che i futuri governi siano più o meno stabili, più o meno coesi. E questo non dipende dalla riforma costituzionale, ma da quella elettorale. Il che non vuol dire che sono i sistemi elettorali a fare tutta la differenza. Cultura politica, forza dei partiti, qualità della classe politica, regolamenti parlamentari sono solo alcuni degli altri fattori che contano in termini di governabilità. Ma il sistema elettorale è la chiave.

Italicum e riforma costituzionale sono stati pensati per completare un percorso iniziato nel 1993. Nel pieno della crisi della Prima Repubblica il parlamento approvò una legge che introdusse un nuovo modello di governo nei comuni (e nelle province). Gli elementi centrali erano, e sono, l’elezione diretta del sindaco insieme ad un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza e ballottaggio che, salvo casi eccezionali, garantiscono al vincente la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio. Inoltre è prevista la clausola per cui il sindaco può essere sfiduciato dal consiglio comunale, nel qual caso si torna a votare. Lo stesso modello più tardi fu introdotto, senza il ballottaggio, a livello regionale.

Questo modello del tutto originale ha garantito la stabilità dei governi sub-nazionali in un contesto difficile, caratterizzato da elevata frammentazione, bassissima fiducia e grande debolezza dei partiti. Oggi comuni e regioni hanno governi che, salvo poche eccezioni, durano cinque anni. Ai tempi della Prima Repubblica duravano meno di uno. Ed è un modello che agli italiani piace senza ombra di dubbio. A questo proposito nell’ultimo sondaggio Cise-Sole24Ore pubblicato su queste pagine qualche settimana fa c’era questa domanda: ‘il sistema elettorale dovrebbe permettere agli elettori di scegliere direttamente il presidente del consiglio come avviene per i sindaci’.  Ebbene, l’81% degli intervistati si è dichiarato d’accordo. E dentro questo 81% il 46% ha risposto addirittura di essere molto d’accordo.  C’è qualcuno sano di mente che pensa che si possa tornare al passato? Che si possa rinunciare di questi tempi alla stabilità degli organi di governo comunali e regionali in nome di una maggiore rappresentatività?

Se Renzi avesse potuto, avrebbe introdotto il modello del sindaco anche a livello nazionale, completando così il percorso iniziato nel 1993.  Glielo ha impedito la resistenza diffusa all’idea della elezione diretta del presidente del consiglio. Così, l’Italicum è diventato lo strumento con cui si è adattato il modello del sindaco al governo nazionale. E Il ballottaggio è il meccanismo con cui si è introdotta l’elezione ‘diretta’ del premier senza modificare la forma di governo che resta parlamentare. Checchè ne dicano Zagrebelski e altri proporzionalisti incalliti. Con il ballottaggio si dà ai cittadini – con un secondo voto-la responsabilità di scegliere il governo del paese. Un governo scelto dalla maggioranza assoluta dei votanti.

L’Italicum è un tassello. L’altro è la riforma costituzionale. Uno dei suoi obiettivi è quello di dare a chi è stato scelto dai cittadini per guidare il paese qualche strumento in più per governare meglio, assumendosene in modo chiaro la responsabilità. Governi più stabili, più efficienti e più responsabili. E un parlamento comunque rappresentativo. In sintesi, più accountability e meno alibi.  La costituzione del 1947 ha frammentato il potere per paura di un governo forte. La revisione costituzionale del 2016 tende a concentrarlo un pochino di più senza cambiare formalmente le prerogative del premier, ma rafforzando il potere degli elettori. E senza toccare minimamente tutti i contrappesi presenti attualmente nella costituzione. Dalla assoluta indipendenza della magistratura, ai poteri della Consulta e del presidente della repubblica.

Tutto ciò però fa paura. Un governo eletto ‘direttamente’ dai cittadini grazie al ballottaggio, una sola camera che approva la maggior parte delle leggi, una corsia preferenziale per deliberare in 70 giorni sui disegni di legge prioritari del governo rappresentano quel temutissimo ‘combinato disposto’ considerato una grave minaccia alla democrazia. Sono tutte cose che esistono in molte altre democrazie europee, ma da noi sono visti come i tasselli di una deriva autoritaria che per qualcuno ci riporterà addirittura indietro al fascismo. Siamo arrivati a sentir affermare che un governo stabile rappresenta una minaccia. Che il governo debole è sinonimo di democrazia. Che le elezioni non servono a scegliere un governo ma solo a fotografare le preferenze degli elettori. Che la democrazia è rappresentanza. Punto. Gran Bretagna, Francia- paesi i cui governi vengono eletti regolarmente da minoranze di elettori- sarebbero sistemi poco democratici. La Gran Bretagna!

A questo punto siamo arrivati. In realtà si dovrebbe dire che non ci siamo mai spostati da una concezione kelseniana della democrazia per cui l’unica forma legittima di governo parlamentare è quella proporzionale. Una concezione che alligna soprattutto nel mondo dei nostri giuristi. In ogni caso i critici del ‘combinato disposto’ possono stare tranquilli. Che vinca il SI o che vinca il NO il sistema elettorale è destinato a cambiare. Se vincerà il NO sarà una necessità. Se vincerà il SI sarà una scelta. O forse no. Potrebbe infatti decidere la Consulta e il ballottaggio potrebbe essere la sua prossima vittima. E’ ormai un fatto che le leggi elettorali in Italia non le fa il parlamento, ma le fanno i giudici. Si vedrà a Gennaio.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.