Verso un terremoto elettorale nelle midterm elections?

Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su Real Clear Politics.
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David W. Brady detiene la cattedra Bowen H. e Janice Arthur McCoy di Scienze Politiche presso la Graduate School of Business (GSB) della Stanford University ed è il Davies Family Senior Fellow presso l’Hoover Institution. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.

Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University e assistente di ricerca presso la Hoover Institution.

Se definiamo le ‘elezioni terremoto’ (‘wave elections’) a midterm  quelle in cui si registri una perdita di almeno 30 seggi per il partito politico del presidente in carica, dal 1932 ci sono state nove elezioni di questo tipo, su un totale di 21 – anche se in cinque di esse il controllo del Congresso non è cambiato. Tuttavia i democratici quest’anno, per conquistare la maggioranza alla Camera, non hanno bisogno di avanzare di 30 seggi. Gliene bastano 24 – rispetto a quelli conquistati due anni or sono, 23 se guardiamo ai seggi democratici oggi, alla vigilia del voto, compreso quindi il 18° distretto della Pennsylvania (conquistato in elezioni suppletive nel marzo di quest’anno).

I democratici hanno controllato la Camera per 60 dei 64 anni tra il 1930 e il 1994. Nell’era post-1994, caratterizzata invece dalla competitività fra i due partiti, ci sono state tre elezioni terremoto, due a vantaggio dei repubblicani (1994, 2010) e una per i democratici (2006). In tutti e tre, la Camera ha cambiato colore politico.

Nelle due elezioni terremoto a favore del GOP, gli elettori repubblicani di tutte i tipi – fortemente identificati con il partito, debolmente identificati e indipendenti tendenti verso il partito[1] – si sono recati alle urne a livelli più alti rispetto ai simmetrici tipi democratici, il che mitigava il vantaggio del Partito Democratico nel numero di elettori registrati come propri partisan.

La Tabella 1 mostra i risultati dell’affluenza nelle elezioni terremoto di midterm a partire dal 1994. I numeri indicano la percentuale di elettori che si dichiaravano fortemente o debolmente identificati con il partito o indipendenti tendenti verso quel partito, che hanno votato. Sebbene sia 1994 che nel 2010, i repubblicani di tutte le categorie siano andati alle urne in numero maggiore rispetto ai democratici, ciò era particolarmente vero nel 2010. L’affluenza più alta è risultata cruciale per i repubblicani, poiché in entrambe le elezioni dovevano superare il vantaggio numerico dei democratici – nel 1994 il 46% di elettori registrati contro il 42%, nel 2010 il 46% contro il 39%). Nell’elezione terremoto a favore dei democratici del 2006, la percentuale di partecipazione elettorale democratica e repubblicana era quasi pari, ma c’erano ancora una volta più democratici registrati rispetto ai repubblicani (47% contro il 41%), che diedero il vantaggio ai democratici.

Tab. 1 – Partecipazione elettorale alle elezioni terremoto di midterm  dopo il 1994 per identificazione di partito, valori percentualiUS18_1_1Un altro fattore che aiuta il GOP nel cercare di compensare i suoi numeri più bassi rispetto ai democratici è che, in media, i repubblicani tendono a votare candidati del loro partito più spesso di quanto non facciano i democratici. Nel 1994, circa il 30% dei democratici identificati debolmente o indipendenti tendenti al partito ha votato repubblicano, mentre solo poco più del 20% degli analoghi gruppi repubblicani ha votato democratico. Nel 2010, il 20% dei democratici debolmente identificati ha votato repubblicano, come il 10% degli indipendenti tendenti democratico – il doppio rispetto agli analoghi gruppi repubblicani che hanno votato democratico. Nel terremoto pro-democratici del 2006, i repubblicani debolmente identificati e gli indipendenti tendenti repubblicano hanno votato candidati democratici a livelli del 25% e del 16%, rispettivamente; mentre i democratici debolmente identificati e gli indipendenti tendenti democratico erano più fedeli ai candidati del loro partito, accrescendo così l’iniziale vantaggio numerico dei democratici.

Inoltre, in quell’elezione del 2006, c’era poco o nessun vantaggio nella partecipazione alle urne per il GOP. Così i democratici poterono avvantaggiarsi grazie ai numeri favorevoli circa gli elettori registrati, e al fatto che i propri identificati abbiano votato fedelmente al partito più di quanto non abbiano fatto i repubblicani.

Questa analisi lascia fuori gli indipendenti puri, che risultano in numero inferiore rispetto agli identificati, ma sono ancora in numero sufficiente per decidere un’elezione. Nel 1994, l’affluenza degli indipendenti puri è stata del 34% e hanno diviso il proprio voto 50/50. Nel 2010, la loro affluenza è scesa leggermente (al 33%), ma tra quelli che hanno votato, poco più del 60% ha votato repubblicano.

Alle elezioni di midterm del 2006 si è registrato un valore molto alto per l’affluenza degli indipendenti puri: il 44%. E il 62% di questi ha votato democratico. Insomma, nelle elezioni terremoto il partito che sale può contare su una partecipazione elettorale più alta dei propri elettori – e quelli che votano lo fanno fedelmente al partito; mentre gli indipendenti non influenzano il risultato (1994) o si aggiungono all’ondata in favore di quel partito.

I democratici hanno preso parte a tutte le elezioni post-1992 post-anno con un vantaggio numerico in termini di elettori registrati, che i repubblicani devono mitigare aumentando l’affluenza alle urne e attraverso un voto più fedele dei propri identificati. I democratici, d’altra parte, devono solo approssimare l’affluenza repubblicana e i loro livelli di fedeltà partitica nel voto per vincere le elezioni. Gli indipendenti possono rinforzare la scossa di terremoto, come hanno fatto nel 2006 e nel 2010, seguendo quindi sia un terremoto blu che uno rosso, oppure possono dividere il loro voto come fecero nel 1994.

A settembre di ognuna di queste elezioni terremoto, il grado di approvazione del presidente era inferiore al 50% e, nel caso di George W. Bush, inferiore al 40%. Inoltre, in due dei tre (2006 e 2010), l’economia era in recessione.

Dati questi scenari, che aspetto ha il 2018 per i democratici, dal momento che nessuno (a parte Newt Gingrich) pensa che il 2018 sarà un’elezione terremoto a vantaggio dei repubblicani? Al momento della stesura di questo documento, il presidente Trump ha ottenuto un voto medio di approvazione del sondaggio RealClearPolitics del 44,2%, che lo colloca al di sotto di Bill Clinton nel 1994 e Barack Obama nel 2010 ma al di sopra di Bush nel 2006. Uno sguardo ai sondaggi settimanali YouGov mostra che i democratici sono più numerosi dei repubblicani (tra i 5 e i 6 punti percentuali), e dal 1° agosto i democratici hanno mantenuto un vantaggio sui repubblicani nell’intenzione di partecipare al voto con circa il 45% contro il ​​40% – e con l’attuale ripartizione per livellodi identificazione con in partito indicata nella Tabella 2.

In tutte le categorie di intensità dell’identificazione di partito, i democratici stanno segnalando che voteranno fedelmente al partito per il Congresso a tassi più alti rispetto ai repubblicani. I numeri per i democratici sono sostanzialmente uguali a quelli del 2006, mentre i numeri per i repubblicani sono al di sotto dei loro nelle elezioni del 2010 e del 1994. Il vantaggio democratico sia nel numero di elettori registrati che nelle intenzioni di voto sono buoni segnali per il partito.

Tab. 2 – Intenzione di voto per il proprio partito alle elezioni di midterm per identificazione di partito, valori percentualiUS18_1_2Il tempo e gli eventi di qui al 6 novembre potrebbero cambiare questi indicatori. Tuttavia, le probabilità che il voto o l’identificazione del partito passino ai repubblicani tra oggi e il giorno delle elezioni non sono buone. Un gruppo che potrebbe influenzare questi risultati è quello degli indipendenti puri, che votano meno degli identificati con un partito e decidono come votare durante la campagna elettorale. Nell’ultimo sondaggio, questi si dichiarano per il 28% intenzionati a votare democratico, contro il 26% percento per i repubblicani, e con il 29% che afferma di non essere sicuro. Se queste percentuali rimarranno fino all’election day, il vantaggio numerico dei democratici prevarrà.

Guardando al 2018 a una settimana dalle elezioni, i democratici sono in vantaggio in termini numerici, in vantaggio nell’intenzione di voto degli identificati e in (lieve) vantaggio tra gli indipendenti puri, tutti punti che suggeriscono un’acquisizione democratica della Camera dei rappresentanti. La variabile mancante è, ovviamente, l’affluenza.

Se più repubblicani voteranno in numeri superiori al previsto, i vantaggi dei democratici saranno ridotti. Nei nostri sondaggi, abbiamo fatto due domande che tentano di discernere i probabili livelli di affluenza. La prima chiede agli intervistati se, rispetto alle precedenti elezioni del Congresso, sono più o meno entusiasti; la seconda chiede chiaramente se hanno in programma di votare nelle elezioni di quest’anno. Finora, i repubblicani hanno ottenuto un punteggio un po’ più alto nell’entusiasmo, mentre più democratici dicono che voteranno sicuramente nel 2018.

Un evento che potrebbe influire sul risultato è la polemica nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, in particolare per quanto riguarda le percentuali di affluenza alle donne. Trump ha problemi con gli indipendenti e le donne, come abbiamo notato in un pezzo del RealClearPolitics del 22 marzo 2018. In un recente sondaggio YouGov, fra le donne istruite c’è un vantaggio per i democratici nel voto di poco più di 30 punti percentuali, da 57,3% a 27,2%, e oltre i tre quarti sono intenzionate a votare. In breve, anche se le indagini dell’FBI su Kavanaugh non ne hanno bloccato la conferma alla Corte Suprema, le donne e gli indipendenti hanno già dei dubbi su Trump e i candidati repubblicani. Vedremo tra una settimana quali saranno i numeri finali…

Riferimenti bibliografici

Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.

Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.

Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.


[1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).

Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 1). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.

Fig. 1 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)scala_7_PID_ITA

David W. Brady detiene la Bowen H. e Janice Arthur McCoy cattedra di Scienze Politiche presso la Stanford Graduate School of Business (GSB) della Stanford Univeristy ed è il Davies Family Senior Fellow presso l'Hoover Institution. Ha pubblicato sette libri e più di un centinaio fra articoli su riviste scientifiche internazionali di primo livello e capitoli in libri. Il Professor Brady è in continua nomina presso la Stanford University dal 1986, dove ha ricoperto il ruolo di preside associato per gli affari accademici presso la Graduate School of Business (GSB) e di vicepresidente per l'apprendimento a distanza. È stato due volte borsista presso il Center for Advanced Study in Behavioral Sciences e vice direttore della Hoover Institution dal 2004 al 2014. È stato eletto all'American Academy of Arts and Sciences nel 1987. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali, tra cui l'identificazione di partito, le conseguenze elettorali della globalizzazione, il populismo, le evoluzioni della competizione partitica.
Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University. Inoltre, è assistente di ricerca presso la Hoover Institution. Ha pubblicato proprie ricerche, tra gli altri, su Real Clear Politics. I suoi interessi di studio abbracciano, prevalentemente, la politica americana e la metodologia di ricerca.