Per battere Trump nel 2020 non basterà un candidato democratico qualsiasi

Ripubblichiamo qui l’intervista al Prof. Roberto D’Alimonte apparsa su Luiss Open il 16 Luglio 2019

Innanzitutto, da dove arriva il fenomeno Donald Trump?

Alle radici della rivolta anti establishment, negli Stati Uniti e non solo, c’è un profondo e diffuso senso di sfiducia verso le istituzioni e verso le élites. All’indomani dell’elezione di Donald Trump, nel 2016, solo un cittadino americano su dieci riteneva che “il sistema” funzionasse; il 57% degli americani definiva il sistema “fallimentare”, il 33% era incerto (fonte: 2017 Edelman Trust Barometer). La fiducia dell’opinione pubblica nei confronti del governo federale di Washington, tra l’altro, era ai minimi storici alla vigilia delle scorse elezioni presidenziali.

La situazione economica, per come percepita dalla maggior parte della classe media, contribuisce e rafforza i sentimenti anti establishment. Nel grafico qui sotto, sono raffigurati l’andamento della produttività e quello del reddito mediano reale di una famiglia negli Stati Uniti. Fino agli anni novanta produttività e reddito sono saliti di pari passo. Poi la produttività è continuata ad aumentare rapidamente, e il reddito reale invece no. Dietro questa divaricazione si nasconde la fortissima crescita della disuguaglianza che ha caratterizzato la società americana, e non solo, negli ultimi venti anni. Qui dentro ci sono i vincenti della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione e ci sono i perdenti. È soltanto uno degli indicatori dell’indebolimento della classe media e medio-bassa.

Per usare le parole di due analisti statunitensi, Dan McGinn e Peter D. Hart, all’indomani del voto del 2016: “Un ampio settore della nostra società è profondamente, visceralmente arrabbiato. Questa elezione ha costituito il segnale più evidente, per ogni istituzione statunitense, che la persona media si attende – e chiede – un posto a tavola. Quelli che hanno guidato questa rivoluzione sono persone comuni , si sentono ‘estranei’  al mondo di Washington, Los Angeles e New York. Non vanno da Starbucks, non accompagnano i propri figli a visitare i campus universitari, non guardano la televisione pubblica. Fanno shopping da Wal-Mart, mangiano da McDonald’s, e sono più interessati alle competizioni sportive del liceo dei loro pargoli che allo sport professionistico. Il loro reddito è in calo e non hanno risparmi su cui contare per andare in pensione.  Ritengono che i loro genitori e i loro nonni abbiano costruito questo Paese. E martedì notte hanno urlato: vogliamo riprenderci il  nostro Paese”.

Quali sono i fattori che potrebbero far presagire una sconfitta di Donald Trump alle elezioni del 2020?

Innanzitutto occorre ricordare che Trump deve la propria elezione a tre Stati in cui ha vinto in maniera relativamente inaspettata – Michigan, Wisconsin e Pennsylvania – e che complessivamente in questi tre Stati sono stati decisivi appena 77.000 voti. Parliamo di 77.000 voti su quasi 130 milioni di voti espressi in tutto il Paese. Non solo: in questi stessi tre Stati, i voti ottenuti da candidati “terzi” rispetto a Repubblicani e Democratici sono stati molti di più di 77.000. Sarebbe bastata una diversa distribuzione di questi voti per cambiare l’esito di quelle elezioni.

Ricordato ciò, aggiungo che l’indice di gradimento di Trump, fin da subito dopo la sua elezione, è stato il più basso tra i Presidenti che si sono succeduti a partire da Eisenhower. Ecco una comparazione coi suoi predecessori.

Né l’indice di gradimento verso di lui è aumentato di molto nel tempo. A ormai tre anni dalla sua elezione, il 50% sembra distante nella maggior parte dei sondaggi.

Altro fattore che milita contro la rielezione di Trump è che il suo essere un politico polarizzante e divisivo spinge sempre più cittadini ad andare alle urne, come si è visto alle elezioni di metà mandato dello scorso anno, a partire  da alcune minoranze come gli afroamericani e dai giovani. Le consultazioni del 2018, negli Stati Uniti, hanno registrato una affluenza elettorale record in generale, come dimostra il grafico qui sotto, e soprattutto tra i giovani. Se questo fenomeno si ripeterà anche a Novembre 2020, ed è probabile, per Trump sarà dura

Infatti, la maggiore affluenza ha spostato gli equilibri a favore dei Democratici in molti Stati. E’ successo in quelli in cui la candidata democratica del 2016, Hillary Clinton, era stata “competitiva”, cioè in grado di vincere e vincente, (Colorado, Maine, Minnesota, New Hampshire, Nevada, New Mexico e Virginia). Ma anche in quelli in cui Trump ha vinto per il rotto della cuffia (Arizona, Florida, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin).  Come si vede nelle tabelle di seguito, sia negli uni che negli altri Stati i Democratici hanno strappato ai Repubblicani sia seggi al Congresso che Governatorati.  E’ così che il partito di Trump ha perso il controllo della Camera dei Rappresentanti.

A ciò si aggiunga che Trump sembra aver perso un po’ della propria presa tra due constituency che si rivelarono decisive per la sua elezione, e cioè gli elettori indipendenti (tra i quali il suo indice di gradimento si ferma al 33%, secondo un sondaggio Gallup dello scorso maggio) e le donne bianche.

Per i Democratici, quindi, la strada verso la Casa Bianca è spianata?

Ad oggi per gli elettori e i politici di tendenza democratica, ma anche per noi analisti terzi, la domanda fondamentale è questa : “Può un qualsiasi candidato democratico sconfiggere Trump a Novembre del prossimo anno?”. Anticipo subito la mia di risposta: no, non basta un qualsiasi candidato del Partito democratico per battere Trump nel 2020. Aggiungo che proprio la diffusa convinzione che chiunque possa battere il Presidente in carica spiega l’elevato numero di candidati in corsa per le primarie del Partito Democratico e spiega pure la significativa presenza di candidati che sono espressione della sinistra più liberal e radicale. Questa è una convinzione pericolosa per i democratici perché potrebbe spingerli a fare una scelta sbagliata. Infatti  le rilevazioni di YouGov dimostrano che, per molti elettori, non basta un candidato qualsiasi per sconfiggere Trump. Il 40% degli elettori (il 38% negli Stati più contesi del Midwest) ritiene infatti che la scelta di votare Trump o uno sfidante democratico “dipende” dal candidato democratico che si troveranno davanti. Soltanto il 33% pensa che voterà “un candidato democratico qualsiasi” (mentre il 27% degli elettori afferma che voterà Trump “in ogni caso”).  Sono percentuali molto simili a quelle corrispondenti alle identificazioni di partito, cioè a chi si dichiara democratico, repubblicano o indipendente.

Sarà dunque decisiva la scelta del candidato democratico. Se tra i militanti prevarrà la tesi che qualsiasi candidato può battere Trump, e quindi che questa sia la volta buona per cambiare radicalmente le cose, il rischio è che la scelta cada su un candidato troppo spostato a sinistra. Probabilmente già il prossimo 3 marzo sapremo chi sarà il vincitore delle primarie del Partito Democratico, visto tra l’altro che le primarie in California sono state anticipate a tale data e considerato l’alto numero di delegati assegnato in quello Stato.

Quali sono i punti a favore di una rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca?

Come ho detto, innanzitutto molto dipenderà da chi sarà il candidato del Partito Democratico. Un candidato ideologicamente spostato troppo a sinistra potrebbe fare la fortuna dell’attuale Presidente, spingendo una parte degli elettori indipendenti a votare per la continuità. Ciò si spiega anche con l’andamento positivo dell’economia. La percentuale di persone che ritengono “eccellente” o “buona” la propria situazione economica e finanziaria è infatti in crescita in tutta la popolazione (51%), con picchi tra i simpatizzanti Repubblicani (62%) e con un dato in aumento anche tra i simpatizzanti Democratici (44%). Quindi, perchè rischiare un cambiamento radicale quando le cose vanno bene?

Oltre all’incertezza sulla scelta dello sfidante democratico e alla solidità dei risultati economici dell’attuale Amministrazione, Trump ha dalla sua parte un altro atout. Col passare del tempo, infatti, ha ampliato e fidelizzato il livello di consenso nella base repubblicana. Ha conquistato il proprio Partito, all’interno del quale all’inizio non mancava qualche scetticismo, come dimostra l’incremento della percentuale di Repubblicani che “approvano convintamente” il suo operato. Ha trasformato gli scettici in degli entusiasti, e quindi probabilmente nel 2020 riuscirà a mobilitare con efficacia la propria base e portarla alle urne.

Le elezioni del 2020, anche se oggi sembrano a portata dei Democratici, sono tutt’altro che un discorso chiuso. Ne continueremo a parlare.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.