Elezioni in Romania: Dan vince in rimonta in un Paese diviso

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Redazione CISE

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Una sentenza senza precedenti, un’affluenza come non c’era da 29 anni e un Paese spaccato su più livelli tra chi vive in patria e all’estero: l’elezione a presidente della Romania di Nicușor Dan verrà ricordata a lungo. Il sindaco di Bucarest ha vinto grazie al successo nelle aree più giovani, urbanizzate e riformiste. Ha recuperato i 20 punti che lo separavano al primo turno da George Simion pescando a piene mani dall’elettorato degli altri candidati e mobilitando persone che prima si erano astenute. Questa nuova puntata di Telescope indaga le dinamiche istituzionali e politico-elettorali del recente voto rumeno grazie al contributo prezioso di tre studiose di primo piano: la giurista Cristina Fasone (Luiss) e le scienziate politiche Alina Mungiu-Pippidi (Luiss) e Sorina Soare (Università di Firenze). Le ringraziamo per la loro disponibilità e le analisi puntuali che hanno condiviso con noi.

La sentenza della Corte: un pericoloso precedente? 

Le elezioni presidenziali in Romania del 2025 si sono svolte in un contesto eccezionale. Il 6 dicembre 2024, per la prima volta nella storia del Paese, la Corte costituzionale si era attivata d’ufficio – ossia senza ricorso da parte di attori politici – per annullare il primo turno delle elezioni tenutesi il 24 novembre. Lo aveva fatto in seguito a documenti dei servizi segreti che denunciavano interferenze straniere nella campagna di Călin Georgescu. Una mano esterna che, tra le altre cose, avrebbe agito orchestrando una massiccia disinformazione online, in particolare su TikTok, così da alterare la genuinità del voto dando a Georgescu una visibilità mediatica non giustificata, vista l’assenza di spese elettorali. Come ci riassume efficacemente Cristina Fasone (professoressa associata presso la Luiss Guido Carli, dove insegna Comparative Public Law), la decisione ha aperto un acceso dibattito a livello internazionale. La Commissione di Venezia – organo consultivo del Consiglio d’Europa – ha pubblicato un rapporto urgente in cui ha sottolineato come decisioni del genere, prese d’ufficio, debbano avere natura straordinaria, essere chiaramente motivate e rispettare i principi del giusto processo che richiedono di sentire le parti in causa. Regolare la materia a livello europeo è complicato. Un punto su cui si può lavorare, per non creare un pericoloso precedente, può essere però quello di individuare criteri condivisi per valutare quando l’influenza di un Paese straniero sia tale da rendere irregolare un’elezione. Il rischio, altrimenti, è che i cittadini perdano la legittima aspettativa che il loro voto sia finale e decisivo.

 

Cosa dicono i flussi 

Nonostante le tensioni istituzionali, la nuova tornata ha visto una mobilitazione popolare straordinaria. Al ballottaggio ha votato il 64,7%, con una crescita di 11 punti rispetto al primo turno. È il dato più alto dal 1996. Un’analisi esclusiva CISE dei flussi elettorali, che abbiamo condotto sui dati delle quasi 20.000 sezioni elettorali dell’intera Romania (separatamente per ciascuno dei 42 distretti), mostra che entrambi i candidati sono stati capaci di rimobilitare elettori astenuti al primo turno, ma Dan ci è riuscito meglio. Soprattutto, a fare la differenza sono state le seconde preferenze degli elettori i cui candidati sono rimasti esclusi dal ballottaggio: circa 8 elettori su 10 che al primo turno avevano votato Antonescu hanno scelto Dan due settimane più tardi, e la stessa scelta è stata compiuta da 7 elettori su 10 di Ponta. Simion, al contrario, è andato poco oltre il proprio bacino originario. Di fatto, c’è stata una chiamata alle armi per fermare il candidato di destra. 

Come mette in evidenza Sorina Soare (professoressa associata presso l’Università di Firenze, dove insegna Scienza Politica), una partecipazione significativa si è registrata nei giovani, con lunghe file ai seggi delle città universitarie. La mobilitazione è stata favorita da iniziative civiche, eventi pubblici e dall’intervento di figure simboliche come il polacco Adam Michnik. Anche il sostegno internazionale – con dieci ex ambasciatori statunitensi e l’endorsement della presidente moldava Maia Sandu – ha rafforzato la legittimità del fronte riformista che sosteneva Dan. 

Il voto opposto nella diaspora 

Un altro dato rilevante riguarda la diaspora, che ha visto votare 1.645.458 romeni che vivono all’estero. A prevalere in questo gruppo ampio ed eterogeneo – sottolinea ancora Sorina Soare – è stato Simion, grazie ai risultati nei grandi Paesi dell’Europa occidentale. Su tutti spicca l’Italia, dove ha sfiorato i 190.000 voti. Non è un successo casuale: Aur, il partito di Simion, ha costruito nel tempo una rete capillare tra gli emigrati, con iniziative e alleanze condivise con partiti di destra come Fratelli d’Italia e Vox. Inoltre, l’orientamento dei rumeni che si trovano in questi territori è storicamente anti-comunista e, di riflesso, ostile al Partito Social Democratico, ritenuto espressione di un establishment politico macchiato da diversi episodi di corruzione. Negli ultimi anni il loro profilo ideologico è diventato marcatamente conservatore, con intere comunità emigrate per lavorare in agricoltura, spesso in contesti rurali, attivi in campagne amplificate sui social media, come ad esempio quella contro i vaccini. 

Una geografia dove conta il benessere 

Il risultato interno al Paese restituisce una Romania politicamente spaccata. Dan ha vinto nei grandi centri urbani e nelle aree economicamente avanzate, come Cluj, Timișoara, Iași, Sibiu e Bucarest. Simion ha invece conquistato le aree rurali e i distretti del sud e dell’est, territori un tempo roccaforti del Partito Social Democratico. Non si registra solo la tradizionale frattura nel voto tra grandi città e piccoli centri, ma anche quella tra luoghi con un migliore o peggiore accesso a servizi pubblici essenziali: nelle aree dove ha vinto Dan c’è in media un medico ogni 700 residenti, contro uno ogni 1.900 in quelle in cui ha prevalso Simion. Colpisce infine il sostegno plebiscitario per Dan nelle zone a maggioranza magiara – Harghita e Covasna – grazie anche all’appoggio del partito ungherese locale, in contrasto con le ambiguità del premier Viktor Orbán su Aur. Questa divisione riflette una frattura storica, come ricorda Alina Mungiu-Pippidi (professoressa ordinaria presso la Luiss Guido Carli, dove insegna Comparative Public Policy): già negli anni della transizione post-comunista, gli elettorati urbani e filo-occidentali si contrapponevano a quelli rurali, conservatori e religiosi. Si pensava che la modernizzazione, favorita anche dalla migrazione temporanea, avrebbe colmato il divario. Ma negli ultimi anni, specialmente dopo la pandemia, il voto rurale è tornato con forza ad affermarsi dentro e fuori dal Paese. 

La crisi dei partiti mainstream 

Chi esce in crisi profonda da queste elezioni è il Partito Social Democratico, dominus in Parlamento della politica romena. Il partito non riusciva già da tempo a vincere i ballottaggi nelle presidenziali, come nel 2009, 2014 e 2019. Nel 2024 e nel 2025, non c’è neppure arrivato. Parte del problema, spiega nella sua analisi Sorina Soare, deriva dalla storia politica recente della Romania: a partire dal 2012 si è consolidata una formula di alleanze tra socialdemocratici e forze anti-comuniste (in primis i liberali) che hanno impedito una vera democrazia dell’alternanza. I partiti mainstream hanno risentito dell’ascesa di nuove forze politiche, aumentando la frammentazione in Parlamento. Il sistema politico romeno è figlio di una transizione originale: gli anticomunisti non hanno mai avuto maggioranze assolute, mentre i post-comunisti, pur con tratti nazionalisti, hanno guidato il processo di adesione all’Ue. La democratizzazione del Paese dopo la dittatura di Ceaușescu è così avvenuta senza una piena de-comunistizzazione, come il processo di europeizzazione [Mungiu-Pippidi, 2006]. 

Dan, pur vincente, affronta ora un compito difficile: nominare un premier e formare un governo con l’obiettivo dichiarato di ridurre spesa pubblica e tasse. Nel ruolo vorrebbe il capo del Partito Nazionale Liberale, Ilie Bolojan. Qualsiasi esecutivo, visti i numeri, richiederà comunque l’appoggio – da valutare con quali modalità – dei socialdemocratici. 

Una lezione per il futuro 

Queste elezioni hanno rappresentato un passaggio storico per la Romania, ma soprattutto un test critico per l’intero sistema democratico europeo, intrecciato con fattori nuovi e complessi: l’integrità delle informazioni, la trasparenza delle piattaforme digitali e la capacità degli Stati di regolare fenomeni globali con strumenti nazionali. In questo quadro, afferma Cristina Fasone, il caso romeno ha messo a nudo i limiti strutturali di un approccio frammentato: le piattaforme digitali, per loro natura transnazionali, non possono essere disciplinate efficacemente con regole diverse da Stato a Stato. La Commissione europea ha iniziato a muoversi con cautela, proponendo strumenti come il “Democracy Shield” per le elezioni europee, ma resta ancora lontano un quadro normativo efficace per le elezioni nazionali.  

Un orizzonte diverso potrebbe aprirsi, però, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che negli ultimi anni ha mostrato un’attitudine crescente a intervenire su temi finora considerati di esclusiva competenza statale. Dalla tutela dell’indipendenza dei giudici nazionali alla regolazione delle condizioni di candidatura alle elezioni locali, fino alla concessione della cittadinanza, si intravede una traiettoria giurisprudenziale che, seppure cauta, tende ad affermare principi comuni. Un’estensione di questa logica anche alle dinamiche elettorali non è più da escludere. Ma ogni passo dovrà tenere conto di un equilibrio fragile: l’attivismo giudiziario, se percepito come invasivo, rischia di generare reazioni politiche contrarie, e di compromettere l’efficacia stessa della tutela europea e la fiducia dei cittadini nella democrazia.