Il voto parlamentare di midterm in Argentina conferma il sostegno a Javier Milei, col sorprendente 41% raccolto dal suo partito (La Libertad Avanza). In questi anni l’inflazione è crollata, ma il disagio sociale è rimasto alto. Quali sono le ragioni del successo del presidente? Chi e dove sono i suoi elettori? In questa nuova puntata di Telescope, il Professor Juan Negri (Universidad Torcuato Di Tella) ci aiuta a interpretare questa fase inedita della politica argentina, segnata da una narrazione identitaria e divisiva, da media polarizzati e da un governo minoritario in Parlamento, ma che trae molta della sua forza dalla paura di un ritorno del passato peronista in alcuni settori dell’opinione pubblica. Ringraziamo il Professor Negri per la disponibilità e il suo contributo prezioso.
Professor Negri, come vanno letti i risultati di queste elezioni di midterm? Dopo quasi due anni di governo Milei, l’inflazione si è abbassata drasticamente, ma la situazione economica dell’Argentina resta fragile, tra contrazione del Pil e forti diseguaglianze sociali. Quanto ha influito tutto ciò sul voto?
Questi risultati possono essere letti come una parziale approvazione del piano economico di Milei. L’inflazione è scesa bruscamente e la povertà ha iniziato a diminuire, migliorando l’umore degli elettori dopo anni di crisi. Allo stesso tempo, le elezioni locali di settembre nella provincia di Buenos Aires — il più grande distretto elettorale del Paese — dove aveva vinto il peronismo (il principale partito d’opposizione, precedentemente al governo tra 2019 e 2023 con risultati molto negativi), hanno rappresentato un campanello d’allarme per gli elettori di Milei più “moderati” e meno ideologizzati . Molti di loro hanno deciso quindi stavolta di votare per evitare quello che percepivano come un rischio peggiore: il ritorno del peronismo, ancora oggi associato nell’opinione pubblica a scarsa disciplina di bilancio, aumento del rischio per la tenuta del Paese e minaccia di una nuova crisi economica.
In un contesto mediatico caratterizzato da rischi di scarso pluralismo – l’Argentina è all’87° posto nella classifica di Reporters Sans Frontières, che evidenzia gli attacchi del presidente verso la stampa, in un contesto di scarsa sicurezza dei giornalisti – quanto ritiene che il sistema dell’informazione abbia contribuito a rafforzare o legittimare la narrazione politica del presidente? E in che misura questo ha inciso sulla percezione pubblica delle alternative politiche in campo?
Non direi che il problema dei media argentini sia la mancanza di pluralismo, se con questo intendiamo la varietà delle opinioni. Il panorama mediatico è infatti molto polarizzato: ci sono testate che tendono a lodare Milei o a confrontarlo positivamente con il peronismo, e altre che fanno esattamente l’opposto. Ciò che si osserva, tuttavia, è effettivamente la forte ostilità del presidente verso i giornalisti e la stampa in generale, unita a un calo nella qualità del giornalismo, con molti reporter che sono diventati apertamente schierati. In questo senso, l’ambiente mediatico probabilmente ha amplificato la polarizzazione, più che influenzato direttamente il risultato. L’effetto dei media è stato con ogni probabilità limitato rispetto a fattori strutturali come la polarizzazione ideologica, l’identificazione nei partiti e, soprattutto, l’andamento economico, che ha continuato a essere la chiave principale del comportamento elettorale.
La fiducia personale nei confronti di Milei è rimasta alta per mesi, nonostante l’impatto sociale delle sue politiche. Quanto ha contato in questo la costruzione di una narrazione forte, identitaria e divisiva? Cosa sta cambiando adesso?
Non c’è dubbio che l’anti-peronismo resti un fattore chiave per spiegare i livelli di fiducia stabili nei confronti di Milei. Il ricordo della cattiva amministrazione peronista 2019–2023 è ancora fresco e continua a influenzare le scelte degli elettori. Tra agosto e settembre, il governo ha affrontato scandali di corruzione e nuove turbolenze economiche, che hanno temporaneamente eroso la fiducia. Ma con la discesa dell’inflazione e il miglioramento di alcuni indicatori economici a ottobre, la fiducia è tornata a crescere. Milei ha anche beneficiato di una narrazione forte, identitaria e divisiva, che ha fatto presa su chi mostrava frustrazione nei confronti dell’establishment politico. Nel tempo, il governo ha leggermente spostato l’iniziale messaggio “anti-casta” verso uno più esplicitamente “anti-peronista”, una narrazione che continua attivamente ad alimentare. Nonostante le difficoltà, il governo resta efficace nel presentarsi come “nuovo”, “diverso” e come l’unica forza in grado di rompere con il passato politico del Paese.
Il governo è nato in forte minoranza, con appena 35 deputati su 257 e 8 senatori su 72. Grazie a quali alleanze ha potuto portare avanti un’agenda così radicale?
Fin dall’inizio, Milei ha scelto esplicitamente di non seguire il modello brasiliano del “presidenzialismo di coalizione” — cioè alleanze formali con i partiti attraverso la loro partecipazione nel governo. Ha preferito contare su coalizioni ad hoc per portare avanti, di volta in volta, la propria agenda. Inizialmente, ha beneficiato del sostegno di partiti con un orientamento economico affine — soprattutto Pro, il partito dell’ex presidente Mauricio Macri (2015–2019), il cui leader si aspettava un ruolo maggiore nell’amministrazione, e l’UCR (Unione Civica Radicale), storico partito anti-peronista. Entrambi hanno preferito collaborare con Milei piuttosto che con il peronismo – divenuto ormai un’etichetta politica impraticabile – almeno nei primi mesi. Inoltre, vari partiti locali e alcuni parlamentari peronisti dissidenti, soprattutto quando la popolarità di Milei era al massimo, sono stati disposti a trattare su singoli provvedimenti in cambio di benefici locali o concessioni su singoli provvedimenti. Tuttavia, con il calo nei consensi del presidente e l’aumento della polarizzazione nel 2025, quella fragile coalizione ad hoc si è progressivamente erosa. Infine, il governo ha anche fatto ampio uso dello strumento dei decreti (su cui la Costituzione argentina è relativamente generosa, permettendo al presidente di legiferare unilateralmente a certe condizioni): uno strumento cruciale in assenza di una maggioranza stabile.
Ad aprile il Fondo Monetario Internazionale ha concesso all’Argentina un prestito da 20 miliardi di dollari, con l’appoggio diretto dell’amministrazione Trump. Come è percepita questa “relazione speciale” col tycoon dall’opinione pubblica argentina?
Sebbene l’opinione pubblica argentina sia sempre stata tradizionalmente piuttosto scettica (talvolta addirittura antiamericana), la maggior parte degli elettori tende a giudicare la politica estera in base ai suoi effetti concreti a livello interno, più che su motivazioni ideologiche. In questo senso, il sostegno degli Stati Uniti ha contribuito a dissipare i timori di una crisi valutaria e a stabilizzare le aspettative in un momento cruciale. L’impatto di questa “relazione speciale” è stato quindi indiretto: non si trattava di ammirazione per Trump o di allineamento con gli Stati Uniti, ma della percezione che il governo fosse riuscito a ottenere un sostegno esterno per impedire un nuovo collasso economico. Naturalmente, tra le minoranze più ideologicamente caratterizzate — in particolare all’interno del peronismo — l’accordo è stato interpretato in termini nazionalistici tradizionali, come un ennesimo episodio di subordinazione dell’Argentina a interessi stranieri. Ma al di là di questi settori, la percezione dominante è stata pragmatica, non ideologica.
Guardando alla geografia elettorale, come cambia oggi il voto tra città e campagne, centro e periferia, nord e sud?
La geografia elettorale del Paese riflette un chiaro divario centro-periferia. Il sostegno a Milei è più forte nelle province centrali — Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza — più urbanizzate, con produttività più alta e orientate verso l’export e il commercio internazionale. In queste regioni è più alto il sostegno a politiche di rigore di bilancio e riforme orientate al mercato, e qui si concentra gran parte del voto anti-peronista. Al contrario, il peronismo continua a dominare nelle province caratterizzate da produttività più bassa, maggiore dipendenza economica dai trasferimenti federali e strutture politiche più tradizionali. In queste aree, i costi sociali del rigore di bilancio si fanno sentire in modo più acuto, e lo Stato resta un attore centrale nelle economie locali. In questo senso, la mappa politica dell’Argentina ricalca la sua geografia economica: un nucleo benestante e liberale allineato con il progetto di Milei, e una periferia più povera e dipendente dallo Stato, che continua a fornire la base elettorale del peronismo, anche se non con la forza del passato, visto che Milei ha fatto progressi significativi anche in queste province.
Quali sono invece le principali divisioni dell’elettorato argentino in termini di età, genere, livello di istruzione e condizione occupazionale? È vero che i più giovani guardano sempre di più a destra?
Le principali divisioni nell’elettorato argentino sono di tipo generazionale e di istruzione. I sondaggi mostrano che gli elettori più giovani, in particolare gli uomini sotto i 35 anni, sono molto più inclini a sostenere Milei e la destra. Tendono a essere più individualisti, scettici verso i partiti tradizionali e i sindacati, e più ricettivi verso il messaggio anti-establishment. Al contrario, gli elettori più anziani e le donne restano più cauti nei confronti dello stile conflittuale di Milei e più preoccupati per le conseguenze sociali delle sue riforme economiche. Anche l’istruzione e l’occupazione contano: Milei va meglio tra chi ha un’istruzione secondaria o una qualche formazione universitaria , e tra lavoratori del settore privato o autonomi; il peronismo tiene invece tra i dipendenti pubblici e i lavoratori a basso reddito e informali. Nel complesso, i dati confermano un chiaro spostamento generazionale a destra — trainato soprattutto da uomini giovani, urbani e digitalmente attivi —, anche se non si tratta di una tendenza universale tra tutti i giovani.
Chi potrebbero essere i principali contendenti per la corsa presidenziale del 2027? È possibile immaginare una nuova offerta politica competitiva, specie dal fronte peronista, in grado di sfidare Milei?
Guardando al 2027, Milei resta chiaramente la figura dominante della scena politica argentina, e con ogni probabilità cercherà la rielezione, soprattutto se l’economia migliorerà. Sul fronte dell’opposizione, la principale sfida si gioca all’interno del peronismo, con i due poli contrapposti rappresentati dal governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, e l’ex presidente (e vicepresidente) Cristina Fernández de Kirchner. Nonostante i suoi bassi consensi, Fernández de Kirchner mantiene nel movimento una minoranza fedele e compatta, difficile da scalzare. Kicillof rappresenta una generazione più giovane, ma la sua capacità di attrazione su scala nazionale resta incerta; e fatica a costruire una narrazione coesa, al di là della semplice opposizione a Milei. Tra i governatori peronisti c’è poi sempre la possibilità che emerga una figura nuova e più pragmatica, capace di colmare il divario tra la vecchia guardia del partito e l’ala riformista, ma per adesso una leadership simile non ha ancora preso forma. Fuori dal peronismo, la destra moderata — “Pro” di Macri e alcune parti dell’UCR — potrebbe provare a ricostruire un’alternativa centrista e liberal-conservatrice, specialmente se i rapporti con Milei dovessero deteriorarsi. Tuttavia, questa “terza via” è andata molto male alle ultime elezioni, e al momento non appare come un’opzione competitiva.
Quello di Milei è solo l’ennesimo esperimento populista argentino o rappresenta una nuova fase della politica nazionale? Siamo davanti a una trasformazione strutturale o a un ciclo destinato a esaurirsi con l’esperienza politica del presidente?
La presidenza di Milei è allo stesso tempo parte della lunga tradizione populista argentina e qualcosa di qualitativamente nuovo. Come i leader populisti del passato, Milei fonda la propria legittimità su una comunicazione diretta con “il popolo” contro un’élite politica screditata, e concentra il potere nell’esecutivo scontrandosi con le istituzioni intermedie. In questo senso, la logica è familiare. Quello che è nuovo è l’orientamento ideologico di questo populismo. Per la prima volta, l’esperimento populista argentino si basa su un progetto radicale libertario e anti-statalista, che mira a smantellare lo Stato piuttosto che ad ampliarlo. Questo rende l’esperienza di Milei unica nella storia del Paese, in cui la maggior parte dei populismi è stata redistributiva o nazionalista. Se questo rappresenti una trasformazione strutturale o solo l’ennesimo ciclo dipenderà da due fattori: la tenuta della stabilizzazione economica e la capacità del governo di istituzionalizzare le sue riforme. Se la stabilizzazione economica dovesse funzionare e nuovi attori politici emergessero attorno al movimento di Milei, l’Argentina potrebbe effettivamente entrare in una nuova fase. Ma se la stabilizzazione fallisse o dovesse riesplodere il malcontento sociale, la sua presidenza potrebbe finire per essere solo l’ennesimo breve esperimento, nel lungo pendolo populista del Paese.
