Elezioni nelle Marche: la regione contesa tra passato rosso e presente meloniano 

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Redazione CISE

Un tempo quasi “zona rossa”, ma con caratteristiche peculiari, le Marche hanno conosciuto per decenni una solida egemonia di centrosinistra, infranta solo nel 2020 con l’elezione a presidente di Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia). Oggi la Regione torna a essere terreno di sfida aperta con due larghe coalizioni l’una contro l’altra, marcate differenze nella geografia elettorale e il peso incerto delle preferenze dei candidati al consiglio regionale. Queste condizioni rendono le Marche, tra le Regioni al voto quest’autunno, uno degli appuntamenti che merita maggiore attenzione, anche in ottica nazionale. 

Come la Regione è diventata contendibile 

Per comprendere la posta in gioco occorre ripartire dalla storia politica delle Marche, considerate a lungo parte dell’ex Zona Rossa (Emilia-Romagna, Toscana e Umbria). Una regione in cui, nella Prima Repubblica, il bacino elettorale del Pci è stato sempre consistente, ma non a livelli tali da ottenere la guida del governo regionale. Così, all’epoca, il governo delle Marche ricalcava in buona parte formule politiche nazionali: governi a guida democristiana, talvolta con sostegno esterno del Pci o con soluzioni che riflettevano gli equilibri nazionali. Con la Seconda Repubblica, invece, le Marche sono diventate stabilmente governate dal centrosinistra, che ha mantenuto la guida della Regione per venticinque anni consecutivi. Una continuità però interrotta nel 2020, quando Francesco Acquaroli – esponente di Fratelli d’Italia – ha conquistato la presidenza con un risultato netto, battendo di quasi 12 punti il candidato di centrosinistra Maurizio Mangialardi (con circa il 9% al candidato del M5S). Una vittoria che ha aperto un nuovo ciclo politico e con un forte valore simbolico. In precedenza, il miglior risultato del centrodestra risaliva infatti alle lontane regionali del 2000, quando Maurizio Bertucci si fermò al 44,2%, staccato di 5,7 punti da Vito D’Ambrosio. Oggi Acquaroli si ripresenta da presidente uscente contro Matteo Ricci – europarlamentare ed ex sindaco di Pesaro – che alle europee del 2019 ha raccolto nella regione 51.916 preferenze – che corre sostenuto del campo largo al completo (Pd, M5s, Alleanza Verdi e Sinistra, Italia Viva e altre liste), ma non da Azione di Carlo Calenda.

L’affluenza: l’effetto di un’elezione competitiva 

La partecipazione elettorale nelle Marche ha seguito, nel corso degli anni Duemila, le stesse tendenze del Paese, con un calo costante tra politiche, europee e regionali. Nel 2020, anno della vittoria del centrodestra, si è avuta tuttavia un’inversione di tendenza. L’affluenza alle regionali è salita di quasi dieci punti rispetto al 2015 (59,6% contro 49,8%), toccando livelli persino superiori a quelli delle elezioni europee del 2024. Com’è stato possibile? Due sono i fattori principali. In primis la contendibilità: per la prima volta dopo decenni, il risultato non era scritto; in secondo luogo, la capacità del centrodestra di mobilitare elettori che, negli anni precedenti, si erano rifugiati nell’astensione. Anche in questa tornata è plausibile aspettarsi un’affluenza simile o di poco inferiore a quella del 2020, comunque probabilmente più alta rispetto al 2015 quando il centrosinistra di Ceriscioli vinse con un distacco di oltre venti punti sul centrodestra (il cui candidato, anche allora, era Acquaroli). 

La meridionalizzazione dell’elettorato 

Le Marche però non raccontano solo la storia di una destra in ascesa, ma anche della crisi del Movimento 5 Stelle, che proprio qui aveva toccato vette altissime: 32,1% alle politiche di esordio del 2013, 35,6% in quelle del 2018 (in entrambi i casi sopra il risultato nazionale). Poi il crollo, in linea con l’evoluzione generale del M5S (perdita dell’elettorato di centrodestra, e conseguente pesante ridimensionamento): 13,6% nel 2022 (poco sotto il risultato nazionale). Ma già alle regionali del 2020 la lista non era andata oltre al 7,1% (contro il 19% del 2015). Ora il Movimento si presenta dentro la coalizione di Ricci, ma resta da capire se la sua presenza sarà un reale valore aggiunto o darà solo un apporto marginale. Di fatto, il sistema politico regionale è passato in poco più di dieci anni da una fase tripolare a una configurazione nuovamente bipolare.  

Le Marche, inoltre, sembrano aver seguito un percorso elettorale di “meridionalizzazione”: oggi sono più simili all’Abruzzo che all’ex zona rossa. Pure in Abruzzo, infatti, si era visto inizialmente un boom del Movimento 5 Stelle seguito da un’avanzata della destra, che nel 2019 ha conquistato la Regione con Marco Marsilio (anche lui di Fratelli d’Italia), riconfermato successivamente nel 2024. 

La geografia del voto: nord rosso, sud democristiano 

Guardando la mappa del 2020 – che mostra lo scarto tra Acquaroli e i candidati di centrosinistra – emerge inoltre una frattura territoriale profonda e antica. Il centrosinistra resiste nelle aree settentrionali, soprattutto a Pesaro, Urbino e Ancona, territori storicamente legati alla tradizione comunista e socialista. Il centrodestra, invece, domina nelle province meridionali – Macerata, Fermo e Ascoli Piceno – dove predominava la Democrazia Cristiana. Non è un caso, come qui evidenziato nella seconda mappa, che la distribuzione geografica del consenso ricordi quella delle politiche del 1976, quando Dc e Pci si contendevano la leadership nazionale: sebbene i comunisti avessero superato di misura i democristiani nel totale regionale (39,9% contro 39%), la Dc prevaleva in 142 comuni contro gli 85 del Pci. La dimensione demografica non è dunque un dettaglio, ma una costante della politica marchigiana. La destra trova terreno fertile nelle zone più periferiche e nei centri medi delle province meridionali, mentre la sinistra conserva la sua forza nei capoluoghi settentrionali e nelle aree urbane più grandi. La partita del 2025 non si deciderà necessariamente nelle aree dove lo scarto tra centrodestra e centrosinistra è stato più ridotto nel 2020: quel che appare evidente, però, è che le speranze del pesarese Ricci passano da un buon risultato nelle province a sud, dove può anche perdere contro il maceratese Acquaroli ma quanto meno limitando i danni. In questo equilibrio, anche pochi punti percentuali possono fare la differenza. 

L’incognita delle preferenze e i sondaggi 

Un ultimo elemento potrebbe, infine, rendere queste elezioni particolarmente incerte: in diversi territori non si ricandideranno alcuni dei grandi portatori di voti personali che in passato hanno inciso profondamente sugli equilibri locali. Basti pensare alla provincia di Ascoli Piceno, dove i primi due candidati più votati nel 2020 (Guido Castelli di FdI e Anna Casini del Pd) arrivavano a totalizzare quasi un quinto delle preferenze valide nella provincia. Ascoli Piceno, tra l’altro, è quella dove il ricorso alle preferenze da parte degli elettori è più alto (0,7 il valore medio). Questa volta, l’assenza di alcuni di loro apre spazi di incertezza: senza figure capaci di convogliare migliaia di preferenze, gli equilibri interni ai partiti e alle coalizioni potrebbero cambiare radicalmente. Un fattore che potrebbe rendere il voto più aperto e dunque più difficile da prevedere, a meno che gli endorsement di queste personalità politiche riescano a trasferire consenso ad altri candidati.  

Tirando le somme: i sondaggi più recenti segnalano una distanza di circa 5-6 punti a favore di Acquaroli, un margine sensibile ma che lascia comunque spazio a ribaltamenti. Non essendo previsto né il voto disgiunto né presente un terzo candidato competitivo, le possibilità di manovra degli elettori sono ridotte: la competizione resta secca tra i due poli. Se la campagna elettorale assumerà contorni nazionali, il rischio per il centrodestra è che il voto diventi anche un’occasione per esprimere un giudizio sul governo Meloni. Ecco perché le Marche non sono solo una regione contendibile, ma anche un test politico nazionale.