di Roberto D’Alimonte
Voto di preferenza o collegi uninominali? Insieme al premio di governabilità (si veda Il Sole24Ore del 27 luglio) questa è l’altra questione sui cui si è arenata la riforma elettorale. A parole i partiti sono tutti d’accordo sull’ eliminazione delle famigerate liste bloccate. Di tutti gli aspetti dell’attuale sistema elettorale questo è sempre stato il più demonizzato. L’obiettivo apparentemente condiviso è quello di restituire agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Ma come?
Il voto di preferenza è il meccanismo più conosciuto. I partiti presentano una lista di candidati. Gli elettori hanno una o più preferenze con le quali possono modificare l’ordine in cui i candidati appaiono sulla lista. Una volta calcolati i seggi spettanti a ciascun partito, i candidati con più voti di preferenza vengono eletti. Sulla carta sembrerebbe un meccanismo irreprensibile. Poi però si vanno a vedere i dati e sorge qualche dubbio. Alle ultime elezioni regionali del 2010 solo il 30 per cento dei votanti nelle regioni del Nord ha espresso un voto di preferenza contro quasi l’ 80 % dei votanti nelle regioni meridionali. Questa è l’ inequivocabile geografia del voto di preferenza nel nostro paese. Era così anche durante la Prima Repubblica. Anzi, oggi il gap Nord- Sud è addirittura aumentato.
E’ un fatto che il voto di preferenza favorisce clientele e gruppi organizzati, sia quelli legali che quelli criminali. Fa lievitare le spese elettorali, soprattutto se i candidati sono costretti a far campagna in grandi circoscrizioni. Introduce un elemento di forte competizione diretta tra i candidati di uno stesso partito e quindi tende a minarne la coesione interna. Si pensi alle correnti della Dc al tempo della Prima Repubblica. Sono queste alcune delle controindicazioni del voto di preferenza. A suo favore si può certamente dire che è uno strumento semplice da usare.
Una sua variante utilizzata in diversi paesi europei è la lista flessibile. Anche in questo caso sono i partiti a fare le liste e a fissare l’ordine di presentazione dei candidati in lista. Ma questo ordine, a differenza di quanto avviene con la lista bloccata, può essere modificato a certe condizioni. Per esempio, in Austria un candidato può ‘scalare’ l’ordine di lista se ottiene un numero di preferenze pari alla metà dei voti necessari per ottenere un quoziente elettorale oppure se ottiene un numero di preferenze pari a un sesto dei voti raccolti dal partito in una data circoscrizione. In Belgio invece un candidato può scavalcare chi lo precede in lista se il suo numero di preferenze è pari al totale dei voti ottenuti dal suo partito diviso per il numero dei seggi da distribuire + 1. Sono esempi di come con la lista flessibile si può conciliare il ruolo dei partiti nella selezione della classe politica e quello degli elettori. Fissando una condizione forte per modificare l’ordine di lista si favorisce la scelta del partito, con una condizione leggera si dà invece più voce agli elettori.
Per salvare il voto di preferenza c’è chi pensa di ridurre la dimensione delle circoscrizioni in cui si eleggono i candidati. Una circoscrizione piccola significa una lista di candidati corta. Secondo i sostenitori di questa tesi la presenza di pochi candidati in lista ne aumenterebbe la visibilità e quindi consentirebbe agli elettori di conoscerli meglio e decidere a ragion veduta se votare quel partito con quella lista di candidati. Tutto questo è vero ma resta il fatto che la lista corta, anche se è meglio di una lista lunga, è pur sempre una lista bloccata. Con questo strumento i candidati non hanno un incentivo forte a farsi conoscere e a cercare il voto degli elettori. Viene meno quindi la spinta a colmare il deficit di fiducia che si è creato tra elettori e classe politica. E invece è proprio questo uno degli obiettivi che si dovrebbe perseguire in questo momento con una nuova legge elettorale.
I collegi uninominali sono la vera alternativa al voto di preferenza. Questi si dividono in due tipi: maggioritari e proporzionali. I primi sono quelli utilizzati in Francia (abbinati al doppio turno), in Gran Bretagna e anche da noi tra il 1994 e il 2001 ai tempi della legge Mattarella. I partiti presentano un candidato in un collegio. Chi vince in quel collegio va in Parlamento. I candidati non possono contare solo su lobby ristrette per vincere il seggio, come nel caso del voto di preferenza, ma devono cercare consensi tra tutti gli elettori del collegio. Sono la soluzione di gran lunga migliore per favorire un rapporto più stretto tra elettori ed eletti. Ma sulla loro adozione c’è un veto del Pdl. Per questo il Pd ha proposto come alternativa i collegi uninominali proporzionali. Questi sono poco noti, e molto poco compresi, nonostante siano utilizzati per le elezioni provinciali. Con i collegi maggioritari hanno in comune la caratteristica positiva citata sopra: i candidati si devono presentare davanti agli elettori con la loro faccia per cercarne i voti. Ma, a differenza dei loro omologhi maggioritari, presentano delle controindicazioni. In ogni caso rappresentano una alternativa valida al voto di preferenza.
Pubblicato sul sito del Sole 24 Ore dell’ 1/08/2012