di Roberto D’Alimonte
Pubblicato sul Sole 24 Ore il 9 marzo 2014
Sulla presenza delle donne in Parlamento l’Italia ha fatto negli ultimi anni notevoli progressi. Nel primo Parlamento della Seconda Repubblica deputate e senatrici erano complessivamente meno del 13% del totale degli eletti. Nelle elezioni del 2008 la percentuale è salita al 20%. Il balzo significativo è stato fatto alle ultime elezioni, quelle del 2013. Tra Camera e Senato oggi le donne sono circa il 31%. Questa è una media che nasconde percentuali molto diverse tra partito e partito. Nel caso del Pd e del M5s la percentuale è il 38, mentre è del 19% nell’area che faceva capo al defunto Pdl.
In prospettiva comparata il 31% italiano non è molto ma nemmeno tanto poco. In nessun paese europeo è stata raggiunta la parità. Nemmeno in Svezia. La situazione italiana è migliore di quella della Francia e della Gran Bretagna, ma peggiore di quella dell’Olanda e della Spagna. Nel resto del mondo il quadro è molto variabile. Negli Usa le donne nella Camera dei rappresentanti sono solo il 18% del totale. La media a livello mondiale è del 21%. Questa percentuale sale al 22% tenendo conto solo di quei paesi in cui ci sono quote previste dalla Costituzione, dalle leggi elettorali o dagli statuti dei partiti. Solo in Rwanda le donne superano il 50% degli eletti.
Le attuali norme dell’Italicum non favoriscono la rappresentanza femminile. Sono tre. A livello di ciascuna circoscrizione-regione, i partiti sono tenuti a presentare liste che comprendono il 50% di candidati di ciascun sesso. A livello dei singoli collegi i candidati appartenenti allo stesso sesso non possono essere più dei due terzi rispetto ai seggi da assegnare. In lista non possono essere elencati consecutivamente più di due candidati dello stesso sesso. Con queste regole un congruo numero di donne può arrivare in Parlamento solo se i partiti cui appartengono decidono di candidarle al primo o al secondo posto della lista. Infatti, dato che saranno pochi i collegi in cui un partito potrà vincere tre seggi è chiaro che candidare due uomini nei primi due posti vuol dire escludere automaticamente la terza candidata donna.
E’ comprensibile quindi che alla Camera siano stati presentati diversi emendamenti tendenti a rendere più vincolante la formazione delle liste e più facile l’elezione di deputate e senatrici. Queste modifiche sono di due tipi. Nel primo caso si vorrebbe obbligare i partiti a mettere al primo posto in lista, a livello regionale, il 50% di uomini e il 50% di donne. Questa è una soluzione radicale che farebbe dell’Italia un caso unico al mondo. Naturalmente esistono soluzioni intermedie ma negoziare su percentuali di sicuri eletti non è semplice.
L’altra soluzione è forse più fattibile. Prevede l’alternanza in lista tra uomini e donne. Anche questo emendamento è osteggiato da Forza Italia. Ma qui Berlusconi e Verdini sbagliano. Accettare l’alternanza uomo-donna lascerebbe comunque ai partiti una ampia libertà nella formazione delle liste. Infatti, per come funzionerà l’Italicum, una donna collocata al secondo posto può sperare di essere eletta solo se in quel collegio il suo partito conquisterà un secondo seggio. Quanti saranno i collegi in cui ciò si verificherà ? Dipenderà naturalmente dal risultato elettorale ma anche dal come verranno disegnati i collegi. Questa ultima decisione non è ancora stata presa. Ma è plausibile ipotizzare che potrebbero essere un numero sufficiente per garantire una congrua rappresentanza femminile senza vincolare troppo rigidamente le scelte dei partiti. Per questo motivo l’alternanza tra i sessi è un compromesso ragionevole.
Resta una ultima osservazione da fare. Sono pochissimi i paesi europei che prevedono quote di genere fissate per legge. Nella stragrande maggioranza dei paesi, compresi quelli scandinavi, la promozione della rappresentanza femminile passa per un sistema di quote fissate volontariamente dai partiti. In Italia alcuni partiti lo prevedono già. Altri no.