Con la revisione del Senato l’Italia si allinea ai paesi UE

di Roberto D’Alimonte

Pubblicato sul Sole 24 Ore il 3 aprile 2014

            I paesi della Europa Occidentale che appartengono alla Unione Europea sono 15 (oltre l’Italia), compresi i piccolissimi Lussemburgo e Malta. In 7 la seconda camera non esiste. Vale a dire, in Finlandia, Danimarca, Svezia, Grecia, Lussemburgo e Malta il Parlamento è monocamerale. Negli altri 8 paesi  solo in Spagna la seconda camera è in gran parte elettiva. Questi sono i banalissimi dati da cui qualunque persona di buon senso dovrebbe partire per giudicare la proposta di riforma del Senato approvata l’altro ieri dal consiglio dei ministri . E invece no. L’idea di un senato non eletto direttamente dai cittadini suscita scandalo. Si arriva a parlare di svolta autoritaria. Lo stesso presidente del Senato è sceso in campo a difesa di una elezione diretta dei senatori che nel resto dell’ Europa occidentale esiste in un unico caso.

            In realtà la proposta di Renzi rappresenta una soluzione moderata. Solo alla luce dell’immobilismo degli ultimi trenta anni  può apparire come una riforma rivoluzionaria.  Se il presidente del consiglio avesse voluto innovare radicalmente avrebbe dovuto puntare non solo al superamento del bicameralismo paritario ma alla abolizione stessa del Senato. Ma non è così. Anche se c’è chi parla di abolizione del Senato il fatto è che la riforma verte sulla trasformazione dell’attuale Senato. Avremo sempre un parlamento bicamerale ma con una Camera dei deputati sovraordinata all’altra.  Nel nostro contesto si tratta comunque di un grande passo avanti. L’Italia non sarà come la Svezia, ma piuttosto come la Germania.

            In Germania i membri del Bundesrat sono nominati dai governi dei lander. Ogni lander ha un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione. Solo il Bundestag dà la fiducia al governo. Il Bundesrat però ha un potere di veto (assoluto o sospensivo) sulle materie legislative che toccano le prerogative dei Lander, soprattutto in materia finanziaria. Inoltre per l’approvazione delle riforme costituzionali serve la maggioranza dei due terzi dei suoi membri.

            Rispetto a questo modello la proposta di Renzi presenta analogie e differenze. Nel nuovo Senato non ci saranno solo i rappresentanti delle regioni ma anche quelli dei comuni , nonché 21 senatori nominati dal capo dello Stato. Come nel caso del Bundesrat il nuovo Senato non darà la fiducia al Governo. Quanto alle sue competenze saranno molto rilevanti in tema di riforme costituzionali. In questo ambito i suoi poteri saranno uguali a quelli della Camera dei deputati. Non è cosa da poco. Sulle altre materie, soprattutto su quelle di interesse delle autonomie territoriali, potrà fare proposte ma l’ultima parola spetterà alla Camera che in certi casi potrà far valere la sua volontà solo con la maggioranza assoluta.

            Negli altri tre grandi paesi dell’Europa Occidentale l’elezione diretta esiste solo in Spagna. Ma nemmeno in questo paese si può parlare di una camera alta con poteri rilevanti nonostante il fatto che la maggioranza dei suoi membri siano eletti dai cittadini.

E lo stesso vale anche per Gran Bretagna e Francia. Così come per Paesi Bassi, Belgio, Irlanda, Austria. Per trovare una camera alta con poteri simili al nostro attuale Senato bisogna andare negli USA o in Giappone. Il modello europeo è quello del monocameralismo o del bicameralismo asimmetrico.

            In sintesi, la riforma in discussione da noi non si discosta dalla realtà degli altri paesi europei, grandi e piccoli. Né si tratta di una proposta blindata il pragmatismo di Renzi  è tale per cui una volta fissati i punti non negoziabili sul resto è plausibile che il Parlamento possa intervenire con modifiche mirate sia sulla composizione che sulle competenze del nuovo Senato. Alla fine del percorso quello che conta è che la nuova assemblea abbia le quattro caratteristiche più volte ripetute da Renzi : (1) non sia eletto direttamente dai cittadini; (2) i suoi membri non percepiscano  nessuna indennità;  (3) non dia la fiducia al governo (che dovrà ottenerla dunque solo dalla Camera); (4) non abbia voce in capitolo sul bilancio dello Stato. Tutte cose assolutamente ragionevoli e lungamente attese. Tanto ragionevoli e tanto attese che forse questa volta vedranno la luce nonostante l’accanito conservatorismo provinciale di molti parlamentari e di altrettanti intellettuali. Ma non sarà facile visti i numeri. Per questo il ricorso alle urne, anche con il sistema elettorale della Consulta, è una opzione da mettere sul tavolo per non finire nella palude.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.