Vita di PE: l’evoluzione storica del Parlamento Europeo e dei suoi poteri

di Rocco Polin

Quello che i cittadini europei eleggeranno tra il 22 e il 25 maggio 2014, sarà un Parlamento molto diverso da quello che si riunì per la prima volta nel settembre 1952 sotto il nome di “Assemblea Comune”. I 78 membri originari sono ora divenuti 750, non più nominati dai parlamenti nazionali dei sei stati fondatori bensì eletti da quattrocento milioni di cittadini residenti in ventotto paesi diversi. Parallelamente al numero dei propri membri, il Parlamento ha visto decisamente aumentare anche i propri poteri, fino a diventare oggi camera legislativa paritaria al Consiglio Europeo in quasi tutte le aree di policy (Hix e Hoyland 2013). Obbiettivo di questo breve articolo è dunque quello di raccontare l’evoluzione del Parlamento Europeo, da piccola e quasi irrilevante assemblea di secondo livello a pilastro della democrazia continentale e del funzionamento dell’Unione Europea.

L’infanzia: il Parlamento delle Comunità Europee (1952-1979)

La dichiarazione Schuman del 9 Maggio 1950, oggi giustamente celebrata come l’atto fondativo dell’Unione Europea, non contiene in verità alcun accenno alla necessità di una assemblea rappresentativa. Tale necessità è infatti sollevata soltanto in seguito da Jean Monnet, preoccupato di garantire legittimità democratica a quella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio di cui diverrà primo Presidente. L’articolo 20 del Trattato di Parigi del Maggio 1952 prevede dunque la creazione di una “Assemblea Comune”, composta da membri nominati dai parlamenti nazionali e dotata dell’unico potere di sfiduciare eventualmente l’Alta Autorità della CECA.

Già pochi mesi dopo la sua creazione, l’Assemblea Comune fa mostra però delle sue grandi ambizioni. Assumendo il titolo di “Assemblea ad hoc” essa si impegna infatti nella scrittura di una bozza del Trattato della Comunità Politica Europea, progetto ambizioso ma rapidamente naufragato in seguito alla bocciatura della Comunità Europea di Difesa da parte del Parlamento Francese nel 1954. L’ipotesi allora concepita, quella di trasformare l’Assemblea Comune in una vera e propria Camera Europea eletta direttamente dai cittadini, avrebbe però continuato a turbare i sogni dei federalisti europei, finendo per trovare in seguito una parziale ma sempre più effettiva realizzazione.

Fallito il grande balzo in avanti federalista, il progetto di integrazione europea riparte con la lenta ma sicura andatura impressagli dal concreto idealismo funzionalista di Monnet. Nel 1957, il Trattato di Roma istituisce così la Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom) e la Comunità Economica Europea (CEE), in seguito unite alla CECA nelle “Comunità Europee” (1967). L’Assemblea Comune, che a partire dal 1962 si sarebbe attribuita il nome di “Parlamento Europeo” (poi riconosciuto ufficialmente dall’Atto Unico del 1986), è istituzione condivisa da tutte e tre le comunità. Nella sua prima riunione l’Assemblea elegge Robert Schuman alla presidenza e struttura i propri gruppi in base alle posizioni politiche piuttosto che alle appartenenze nazionali. Questa decisione, presa il 13 Maggio del 1958, è da allora considerata l’atto fondativo del moderno Parlamento Europeo. Quanto alle funzioni di tale organo, il trattato di Roma introduce l’obbligo per il Consiglio CEE di consultare l’Assemblea: si tratta di un primo timido riconoscimento del ruolo legislativo che il Parlamento sarà poi chiamato ad assumere con sempre maggiori poteri nei decenni successivi.

Dopo la lunga fase di stallo negli anni del gollismo, il progetto europeo riprende vigore negli anni settanta, e con esso anche il Parlamento europeo. Nel 1970 il PE ottiene un primo potere di controllo sul budget, sia pure inizialmente limitato alle spese cosiddette “non obbligatorie” (che escludevano quelle, sostanziali, della Politica Agricola Comune). Già nel 1975 questo controllo viene però esteso, fino a comprendere il diritto di approvare il budget della Comunità nel suo complesso e i rendiconti di fine anno. Come avvenne nella storia dei parlamenti nazionali, anche per il Parlamento Europeo, il controllo sul budget si dimostrò negli anni un potente strumento di negoziato con le altre istituzioni, spesso impiegato per ottenere maggiori poteri in altri ambiti[1].

La fanciullezza: il Parlamento eletto dal popolo (1979 – 1992)

Un svolta fondamentale avviene naturalmente nel 1979 con l’introduzione dell’elezione diretta del Parlamento Europeo[2]. Nonostante essa non si accompagni ad alcun aumento formale dei suoi poteri, la nuova legittimità democratica conferisce al Parlamento un’autorevolezza e un protagonismo del tutto nuovi, accresciuti ulteriormente dall’elezione a primo Presidente di Simone Veil, sopravvissuta all’Olocausto e testimone vivente della profonde ragioni storiche del progetto europeo. Il Parlamento inizia insomma a concepirsi come il motore ideale dell’integrazione europea e a lottare con sempre maggiore vigore per l’allargamento dei propri poteri.

Una prima importante vittoria è ottenuta già nel 1980, quando la Corte di Giustizia Europea annulla un atto approvato dal Consiglio senza aver prima atteso il parere del Parlamento. Nonostante l’opinione del Parlamento non sia vincolante, essa è infatti da considerarsi parte integrante del processo legislativo Nel 1984, il Parlamento approva poi il “Piano Spinelli”, un disegno di riforma dei trattati in senso federalista che servirà da stimolo all’approvazione dell’Atto Unico Europeo del 1986. Infine, nel 1985, per rimarcare la propria volontà di centralità nel governo dell’Unione, il Parlamento, che fino ad allora si riuniva esclusivamente a Strasburgo, sposta parte del suo lavoro nella nuova sede di Bruxelles[3].

Nel 1986, l’Atto Unico Europeo introduce due nuove procedure legislative. La prima, detta “di cooperazione” e poi abolita con Lisbona, aumentava l’influenza del Parlamento consentendo una seconda lettura delle proposte legislative. La seconda, detta “di parere conforme” ed impiegata tutt’oggi per l’approvazione di trattati internazionali o per l’adesione di nuovi stati membri, rende necessaria l’approvazione degli atti da parte del Parlamento, consegnandogli dunque potere di veto[4].

Per quanto riguarda i poteri legislativi del Parlamento Europeo, il vero balzo in avanti è però rappresentato dall’introduzione della procedura di codecisione, decisa a Maastricht nel 1992. Secondo questa procedura infatti, laddove nemmeno in seconda lettura Consiglio e Parlamento fossero in grado di trovare un compromesso, il provvedimento sarebbe passato ad una “camera di conciliazione” composta da rappresentanti dei due organi in ugual numero. Se infine, nemmeno il testo così emendato fosse risultato accettabile, il Consiglio avrebbe avuto la possibilità di reintrodurre il proprio testo iniziale, che il Parlamento avrebbe potuto respingere solo a maggioranza assoluta. Questa procedura verrà in seguito semplificata aumentando ulteriormente i poteri del Parlamento fino a divenire la procedura legislativa standard dell’Unione Europea con il nome di “procedura ordinaria”.

Il trattato di Maastricht introduce inoltre altre significative novità. In primo luogo, al Parlamento viene riconosciuto il diritto di invitare la Commissione a presentare proposte legislative su questioni che esso ritenga necessarie per una piena implementazione dei Trattati. A differenza di gran parte dei Parlamenti nazionali, il PE non ha infatti ancora oggi ottenuto il diritto di iniziativa legislativa, che rimane esclusiva della Commissione. A questo proposito è però utile tenere a mente che anche nei parlamenti nazionali l’approvazione di progetti di legge non sostenuti dall’esecutivo rimane caso piuttosto raro. Inoltre, qualora la Commissione non ritenga di dare seguito alla richiesta del Parlamento, essa è tenuta a giustificare davanti ad esso la propria decisione. In secondo luogo, il Trattato di Maastricht affida al Parlamento nuovi e rilevanti poteri di nomina e controllo sugli organi esecutivi. Esso ottiene dunque il diritto del Parlamento di essere “consultato” sulla scelta del Presidente della Commissione e di votare la fiducia alla Commissione nella sua interezza. Inoltre, il PE ottiene anche il potere di nominare il presidente della Banca Centrale Europea, l’Ombusdman e il Collegio dei Revisori, oltre che di creare Commissioni di Inchiesta al proprio interno.

La giovinezza: da Maastricht a Lisbona (1992-2009)

Con il trattato di Maastricht, il Parlamento Europeo assume dunque sostanzialmente la propria funzione attuale: esso ha rilevanti poteri di nomina e controllo sulla Commissione e sugli altri organi e agenzie della UE, agisce come co-legislatore insieme al Consiglio in un numero crescente di aree di policy e detiene il potere di approvare o modificare il bilancio. Ciò che avviene nei due decenni successivi è dunque essenzialmente un ampliamento dei poteri lungo direttrici ormai già consolidate.

Il trattato di Amsterdam del 1997 formalizza ad esempio il potere di veto del Parlamento sulla nomina del Presidente della Commissione, ed allarga da 15 a 32 il numero di aree di policy oggetto della procedura di codecisione (esse diverranno 37 con il Trattato di Nizza del 2000). Esso semplifica inoltre tale procedura, eliminando il diritto per il Consiglio di reintrodurre il proprio testo iniziale qualora fallisca anche il Comitato di Conciliazione, e dunque rafforzando la posizione del Parlamento Europeo. E’ però interessante notare come questa innovazione si limiti in realtà ad allineare i trattati alla pratica già in vigore. Nei propri regolamenti interni, il Parlamento si era infatti già impegnato a rigettare il testo del Consiglio ogni qual volta esso venisse ripresentato nella forma “prendere o lasciare” in seguito ad un fallimento del Comitato di Conciliazione (Hix 2002). Più in generale è infatti importante tenere a mente come, oltre alle innovazioni previste dalle successive riforme dei trattati, l’aumento dei poteri del Parlamento dipenda da un abile uso delle proprie Regole di Procedura interne (Kappel 2002) oltre che da importanti vittorie politiche ottenute sul campo.

Particolarmente importanti sono le vittorie che il Parlamento ottiene nel suo costante tentativo di creare un legame sempre più stretto con la Commissione Europea. Nel 1998 esso ottiene ad esempio le dimissioni della Commissione Santer, prima rifiutando di approvare il rendiconto di bilancio e poi minacciando di ricorrere al voto di sfiducia. Inoltre, nonostante i trattati non prevedano l’istituto della fiducia individuale nei confronti dei Commissari, il Parlamento riesce ad esercitare un’influenza sempre maggiore sulla loro nomina, come testimoniato dalle mancate nomine di Buttiglione nel 2004 e della Jeleva 2009. Nel corso di questi braccio di ferro, il Parlamento è in grado di strappare anche altre importanti concessioni, poi formalizzate in accordi inter-istituzionali. Esse riguardano ad esempio il diritto a ricevere rapporti periodici e interrogare i commissari, quello ad essere consultato in fase di formulazione delle proposte legislative, quello di partecipare o essere rappresentato nei negoziati internazionali eccetera.

Infine, l’ultima grande riforma dei trattati europei, è quella negoziata a Lisbona nel 2009. Le due novità principali che essa introduce rispetto ai poteri del Parlamento sono da un lato l’ulteriore estensione della procedura di codecisione (ora rinominata Procedura Legislativa Ordinaria) a ben 88 are di policy e dall’altro la previsione che il Parlamento Europeo elegga a maggioranza il Presidente della Commissione, sulla base di una proposta del Consiglio che deve però tenere conto delle elezioni del Parlamento (art. 17 TEU). E’ proprio questa disposizione, unita al fatto che quest’anno i partiti europei hanno per la prima volta indicato ciascuno il proprio candidato alla Presidenza, a far pensare che le elezioni di Maggio possano segnare un nuovo passo avanti nell’evoluzione del ruolo del Parlamento Europeo. Anche i trattati riconoscono ormai l’irrinunciabilità di tale ruolo in un Unione il cui funzionamento si basa, ex articolo 10, sulla democrazia rappresentativa. Si può dunque sperare che dopo una lunga e tormentata adolescenza, l’Unione Europea e il suo Parlamento siano finalmente avviati sulla strada di una piena maturità.


[1] Si veda il recente caso della creazione del Servizio Europeo di Azione Esterna (Wisniewski 2013).

[2] Tale possibilità era in realtà già stato prevista dal Trattato di Roma del 1958.

[3] Nonostante il compromesso raggiunto nel 1992, quello della doppia sede è ancora un problema aperto per il Parlamento Europeo. Nonostante la netta opposizione della Francia, è però ragionevole sperare che il definivo spostamento di tutta l’attività parlamentare a Bruxelles sia solo questione di tempo.

[4] Sul ruolo del Parlamento Europeo come veto player si vedano in particolare Tsebelis (1994; 2002)