di Roberto D’Alimonte
Pubblicato sul Sole 24 Ore del 8 maggio 2014
Quello che è successo Martedì in commissione affari costituzionali del Senato è emblematico. Sulla carta il governo aveva i numeri per fare passare il suo testo per la riforma del bicameralismo paritario senza dover ricorrere ai voti dell’opposizione. Infatti sul totale dei 29 membri della commissione 15 appartengono a partiti della maggioranza di governo. Per la precisione, i 15 sono così divisi: 9 del Pd, 3 del Ncd, 1 Popolare per l’Italia (Mauro), 1 di Scelta Civica, 1 del gruppo delle autonomie (il senatore Palermo, eletto a Bolzano). All’opposizione ci sono 4 senatori del M5s, 2 della Lega Nord (tra cui Calderoli), 5 di Forza Italia, 1 di Sel e il senatore Campanella, fuoriuscito dal M5s e ora nel gruppo misto. Nella votazione sull’ordine del giorno Calderoli, che di fatto tendeva a stravolgere l’impianto della riforma voluto da Renzi, doveva finire 15 a 14 a favore del governo. E invece il governo è stato battuto perché tutte le opposizioni hanno votato contro, compresi i senatori di Forza Italia, e la maggioranza si è divisa, con Mineo del Pd (gruppo Civati) che si è assentato e Mauro dei Popolari per l’Italia che ha votato a favore della proposta di Calderoli.
Quello che è successo dopo lo ha raccontato Berlusconi in persona quando durante la conferenza stampa di ieri per la presentazione del dipartimento cultura di Forza Italia ha dichiarato pubblicamente di avere subito “una forte pressione per dire che era importante votare il testo base”, per non essere accusati di interrompere la collaborazione con il governo Renzi. E così, in una secondo round, con i voti di Forza Italia il testo del governo è stato approvato e il treno della riforma costituzionale è tornato sui binari giusti dopo aver rischiato di deragliare paurosamente. Certo, resta in piedi il pasticcio di un ordine del giorno che dice una cosa e un testo base che ne dice una altra molto diversa, ma verrà trovato il modo di risolvere la questione sul piano procedurale. Quello che conta è che la discussione in commissione avverrà sulla base del modello di riforma proposto dal governo e non su un modello completamente diverso.
La proposta di Calderoli è stata una mossa abile fatta da chi conosce bene gli umori del parlamento oltre che le sue procedure. Dentro c’era di tutto: dalla diminuzione del numero dei deputati al rafforzamento del ruolo delle regioni e soprattutto l’elezione diretta di una parte consistente dei nuovi senatori. Questo ultimo era l’elemento su cui il senatore della Lega puntava per spaccare il gruppo del Pd in commissione, visto che tra i suoi membri la maggioranza non è vicina al premier e non è insensibile ai richiami della proposta Chiti, che prevedeva anche essa un Senato elettivo. A Calderoli alla fine non è andata bene. Meglio così. Se l’avesse spuntata tutto sarebbe tornato in discussione con conseguenze difficili da prevedere. Renzi ha ragione quando dice che è stato fatto un passo importante.
Questa vicenda è comunque illuminante sotto molti aspetti. Al Senato la fragilità della maggioranza di governo è tale che senza il sostegno di Forza Italia Renzi non può fare le riforme che ha messo in cantiere. Questo è un fatto. Già sull’Italicum alla Camera si erano viste le prime avvisaglie del tipo di guerriglia parlamentare in cui rischia di impantanarsi il governo. Al Senato è peggio perché qui il sistema elettorale non ha ingrossato la rappresentanza del Pd, come invece è avvenuto alla Camera. A Palazzo Madama i numeri sono quelli che sono, sia in commissione che in aula. Chi aveva ancora dei dubbi sulla validità della scelta di Renzi di cercare la collaborazione di Berlusconi per fare le riforme istituzionali dovrà ricredersi. Il premier ci ha visto bene. E’ bastata la defezione di Mauro, esponente di un minuscolo partito della maggioranza, per rischiare di bloccare tutto. La esiguità della maggioranza esalta il potere di ricatto di chiunque ne faccia parte. Questa volta Renzi può consolarsi che gli esponenti del suo partito in commissione non hanno defezionato, a parte Mineo. Ma in futuro? Cosa potrebbe succedere sugli altri passaggi della riforma del Senato senza poter contare su una maggioranza allargata a Fi? Per non parlare dell’Italicum che prima o poi dovrà essere discusso a Palazzo Madama e su cui esistono forti riserve da parte di settori consistenti del Pd , e non solo.
Ma l’appoggio di Fi non è gratuito. Perché i suoi senatori in commissione hanno inizialmente votato un ordine del giorno che era palesemente in contrasto con il patto del Nazareno? E’ vero che il testo del governo comprende elementi che esulano da quell’accordo. Ma sono elementi marginali e sui quali Renzi era, ed è, pronto ad accettare modifiche. Sono le modifiche che nei prossimi giorni saranno presentate al testo base. Si poteva approvare quel testo già in prima battuta. E invece Fi si è schierata inizialmente a favore di una proposta che non c’entra nulla con il patto del Nazareno. Perché? Secondo Calderoli non si voleva dare a Renzi un trofeo da sbandierare in campagna elettorale. Ed è certamente così. Ma si voleva anche dimostrare pubblicamente la dipendenza di Renzi dal sostegno di Fi. Per quanto indebolito Berlusconi resta ancora un attore necessario in questa fase della politica italiana. Martedì scorso ce lo ha ricordato.