Scozia, perché ha vinto il “no” all’indipendenza

Davide Morisi*

Dopo quasi quattro anni dal suo annuncio da parte del Partito nazionalista scozzese (SNP), il 18 settembre si è celebrato il referendum per l’indipendenza della Scozia. La chiara vittoria degli unionisti con il 55 percento dei voti, oltre a spezzare i sogni degli indipendentisti, ha posto fine a una delle più lunghe e accese campagne della storia del Regno unito.

Il risultato finale di fatto ha confermato ciò che tutti i sondaggi indicavano fin dall’inizio del 2014, ovvero una maggioranza di preferenze per il “no” all’indipendenza. Eppure nelle ultime due settimane prima del voto lo scenario sembrava improvvisamente cambiato, soprattutto da quando per la prima volta il 5 settembre un sondaggio di YouGov per il Sunday Times dava il fronte del “sì” in vantaggio con il 51 per cento dei voti.

In questo senso, quindi, la vittoria degli unionisti di oltre 10 punti percentuali (circa 400mila voti) ha lasciato in qualche modo spiazzati la maggior parte degli analisti. Se c’era un punto, infatti, su cui tutti pressoché concordavano alla vigilia del voto era che il risultato finale sarebbe stato così serrato da non poter prevedere con sufficiente certezza chi avrebbe vinto. Vale la pena quindi interrogarsi sui fattori che hanno determinato quest’esito finale e, più in generale, sugli elementi che hanno reso questa campagna referendaria unica nel suo genere.

Sondaggi

Una prima spiegazione di questo risultato “inaspettato” può dipendere semplicemente dagli errori dei sondaggi. Un’analisi di alcuni recenti referendum costituzionali mostra che in 12 casi su 16 i sondaggi prima del voto hanno attribuito più voti per il “sì” di quanti in realtà sarebbero stati. Il motivo di questa sovrastima si lega in parte alla dicotomia “cambiamento vs status quo” che contraddistingue questi referendum, soprattutto se unito a un’alta affluenza alle urne.

Mentre infatti chi vota “sì” è più propenso a rendere visibile la propria scelta di voto (come si poteva notare chiaramente nelle strade di Edimburgo tappezzate di slogan “Yes Scotland” nelle settimane prima del referendum) e quindi ad esprimerla nei sondaggi, i sostenitori del “no”, al contrario, paiono più riluttanti ad esprimersi, anche per il timore di essere percepiti come anti-patriottici. Anche se in un contesto e con dinamiche profondamente diverse, questo trend sembra riflettere la tendenza dei sondaggi italiani a sovrastimare i voti per i partiti di sinistra a dispetto di quelli di destra, nell’ottica di una simile dicotomia “cambiamento vs conservazione”.

Affluenza

Un altro elemento che potrebbe parzialmente spiegare la chiara vittoria degli unionisti è l’altissima affluenza, con una media dell’84,6 per cento di elettori che si sono recati alle urne. Una parte rilevante, infatti, di questi votanti è molto probabilmente costituita da elettori che generalmente non si recano a votare e che per differenti motivi (dalla protezione di interessi personali, al non interesse per la politica) sono avversi al cambiamento, soprattutto se di proporzioni rilevanti come nel caso di una possibile uscita dal Regno unito. Il timore che gli indipendentisti potessero ottenere la maggioranza potrebbe aver spinto quindi questa fetta dell’elettorato a recarsi eccezionalmente alle urne per rigettare i rischi associati all’indipendenza.

Paradossalmente, parte di questa silenziosa mobilitazione dell’ultima ora può essere stata frutto degli stessi sondaggi che attribuivano una possibile vittoria ai “sì”. Un dibattito di lunga data attribuisce alla pubblicazione dei sondaggi sostanzialmente due possibili effetti sull’opinione pubblica: un effetto bandwagon (salire sul carro del vincitore) e un effetto underdog (scegliere il perdente). In questo caso particolare, se da un lato i sondaggi favorevoli all’indipendenza hanno dato un’iniezione di fiducia ai votanti del “sì”, dall’altro potrebbero aver suscitato un effetto underdog fra i sostenitori dell’unione che all’ultimo momento hanno visto il proprio fronte come possibile perdente. (Da notare come questa particolare situazione si è potuta verificare anche perché nel Regno unito, a differenza dell’Italia, la pubblicazione dei sondaggi non è soggetta a restrizioni pre-elettorali.)

Nella distribuzione dell’affluenza per distretti elettorali si notano tuttavia alcune differenze, in particolare nelle due principali aree in cui il “sì” ha avuto la maggioranza, ovvero Glasgow e Dundee. In questi due distretti l’affluenza è stata rispettivamente del 75 e del 78 percento, ben al di sotto della media, soprattutto nel caso di Glasgow che costituisce anche l’area con il maggior numero di votanti. È difficile dire se in questi due casi la minore affluenza è stata determinata proprio dall’astensione di questa fetta di tradizionali non votanti (i quali, demotivati da una molto probabile vittoria degli indipendentisti, hanno deciso di rimanere a casa) oppure se una maggiore affluenza avrebbe significato ancora più voti per il “sì”. Facendo una breve simulazione emerge in ogni caso che, mantenendo le attuali proporzioni di voto per il “sì” e il “no”, se nelle quattro circoscrizioni in cui ha vinto il “sì” (North Lanarkshire e West Dunbartonshire, oltre a Glasgow e Dundee) si fosse recato alle urne il 91 per cento degli elettori (ovvero il valore massimo registrato a East Dunbartonshire), il risultato finale del referendum sarebbe rimasto pressoché invariato, con 45 per cento di voti per il “sì” contro l’attuale 44,7 percento.

Informazione

Al di là dei sondaggi, un altro elemento cruciale dell’intera campagna è stata l’informazione. A differenza delle tradizionali elezioni politiche, in una campagna referendaria gli argomenti a favore dell’una o dell’altra posizione assumono un’importanza sostanziale perché la competizione è meno “personalizzata” (poiché non si eleggono singoli candidati) e i partiti si trovano in una posizione maggiormente ambigua, dal momento che sono spesso costretti a formare coalizioni con partiti avversari (come nel caso della Scozia in cui laburisti e conservatori sostenevano entrambi il fronte unionista).

In questo contesto, la sostanza degli argomenti contribuisce maggiormente a formare le opinioni degli elettori, soprattutto quando una quota rilevante si dichiara indecisa fino agli ultimi giorni prima del voto. I risultati di uno studio sperimentale che ho condotto con Céline Colombo all’Università di Edimburgo confermano questa tesi, mostrando come leggere argomenti pro e contro l’indipendenza anche solo per pochi minuti riduce l’indecisione sulle intenzioni di voto e contribuisce in particolare ad aumentare la probabilità di votare “sì”, perché riduce le incertezze legate all’opzione del cambiamento.

In quest’ottica, il risultato del referendum può dipendere quindi, da un lato, da una incapacità comunicativa del fronte del “sì” di convincere fino in fondo l’elettorato dei benefici e dei vantaggi dell’indipendenza rispetto al mantenimento dello status quo. Dall’altro, tuttavia, può essere sintomo della capacità del fronte del “no” di addurre argomenti più convincenti, soprattutto a seguito dal parziale cambio di strategia comunicativa delle ultimissime settimane. Il fatto, inoltre, che quasi tutti i principali mezzi di informazione si sono schierati a favore dell’unione (compresi i due principali giornali scozzesi, “The Herald” e “The Scotsman”, con due lunghi editoriali a ridosso del voto) ha senza dubbio influito sulle opinioni degli elettori.

Promesse elettorali

Infine, non solo i principali media si sono schierati per rimanere nel Regno unito, ma anche tutti i maggiori esponenti politici di Westminster con una serie di promesse di ulteriore autonomia avanzate nelle ultime due settimane prima del referendum. Grazie a queste promesse, i leader della campagna unionista sono riusciti a rappresentare la scelta del “no” come una sorta di terza via, a favore non dello status quo ma di una maggiore autonomia per la Scozia senza tuttavia diventare indipendenti. Ed è proprio questa terza via che, stando ai sondaggi, avrebbe riscosso il maggior numero di consensi fra gli elettori scozzesi.

Numerosi fattori, insomma, hanno contribuito a rendere la vittoria del “no” un risultato chiaro, contrariamente alle prospettive degli ultimi giorni di campagna elettorale. Ora l’attenzione è puntata su Westminster che dovrà dimostrare nei fatti se le promesse degli ultimi giorni si trasformeranno effettivamente in realtà. I primi passi di David Cameron, tuttavia, non lasciano ben sperare, dal momento che fin dalle prime dichiarazioni dopo il voto ha fatto capire che una maggiore autonomia per la Scozia può essere concessa solo a patto di una maggiore autonomia dell’Inghilterra. Anche se i sogni degli indipendentisti si sono momentaneamente spezzati, le politiche dei tories potrebbero ben presto riaccendere l’insofferenza mai placata degli scozzesi verso Londra. E questa volta gli esiti potrebbero essere inaspettati

————————————————————————————————————————————————-

*Davide Morisi è dottorando in scienze politiche presso l’Istituto universitario europeo. I suoi interessi di ricerca riguardano l’opinione pubblica e il comportamento politico, con un’attenzione particolare al ruolo dell’informazione. Recentemente è stato visiting scholar all’Università di Edimburgo dove ha condotto uno studio sperimentale sull’effetto dell’informazione sulle intenzioni di voto nel referendum per l’indipendenza scozzese. Prima di iniziare il dottorato ha conseguito un master presso la London School of Economics e ha lavorato presso il DG Communication della Commissione europea.