di Vincenzo Emanuele
Per la prima volta dall’inizio della Seconda Repubblica e dall’entrata in vigore della legge Tatarella (1995) il centrodestra si è presentato a queste elezioni regionali privo di uno schema coalizionale unitario. Le ragioni dietro questa scelta sono molteplici: la crisi della leadership di Berlusconi, la rottura sull’appoggio al governo Renzi tra Forza Italia e il Nuovo centrodestra, la radicalizzazione in chiave anti-immigrati e anti-euro della Lega Nord. E, soprattutto, l’approvazione dell’Italiacum, che ha inevitabilmente indebolito il preesistente incentivo all’unità coalizionale, dal momento che il premio di maggioranza sarà attribuito alla lista più votata e non alla coalizione, come avveniva all’epoca della legge Calderoli.
Nelle 7 regioni in cui si è votato il 31 maggio il centrodestra si è dunque presentato con uno schema ‘a geometria variabile’: unito, dalla Lega Nord al Nuovo centrodestra, in Liguria, Umbria e Campania (in cui la Lega non era presente); con Lega e Forza Italia alleate ma con la presenza di altri candidati della stessa area moderata in Veneto (con Tosi sostenuto da Area Popolare) e Puglia (in cui Ncd e FdI sostenevano Schittulli); con Lega e Forza Italia divise in Toscana e nelle Marche (con Fratelli d’Italia alleata in entrambi i casi alla Lega e Ncd da solo in Toscana e con Forza Italia nelle Marche).
Il risultato dell’area di centrodestra è stato alquanto disomogeneo: i candidati Presidente del centrodestra hanno vinto in Veneto e in Liguria e hanno perso negli altri cinque casi. In Veneto la vittoria è stata straripante, grazie soprattutto al successo della lista Zaia, primo partito del Veneto con il 23,1%. In Liguria il successo – per molti versi sorprendente – di Toti, è certamente da ricollegare alle divisioni createsi a sinistra dopo lo strappo di Cofferati e il sostegno dato al civatiano Pastorino come alternativa radicale alla ‘renziana’ Paita. Il centrodestra ha ottenuto poi un risultato alquanto soddisfacente in Umbria, con il sindaco di Assisi Ricci che ha sfiorato una clamorosa vittoria in una delle regioni più ‘rosse’ del paese. Disastroso, invece, il risultato nelle Marche e in Puglia, in cui i candidati del centrodestra (due in entrambi i casi) sono arrivati terzi e quarti, superati in entrambi i casi dal Movimento 5 Stelle. In chiaroscuro, infine, il risultato del centrodestra in Campania, dove l’uscente Caldoro è stato sconfitto di misura da De Luca, e in Toscana, in cui il candidato leghista Borghi, sebbene mai in corsa per la vittoria, ha ottenuto un ragguardevole 20%, mentre il candidato di Forza Italia si è fermato al 9%.
Tab. 1 – Percentuale dei voti ottenuta dalle diverse aree politiche alle elezioni regionali 2015, aggregato 7 regioni.
Ragionando in termini di blocchi tradizionali, il centrodestra, comprendente Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Nuovo Centrodestra, nonché le liste civiche e i partiti minori a sostegno dei suoi candidati Presidente, ha ricevuto oltre 3 milioni e mezzo di voti assoluti, ossia il 41,5%, superando il blocco di centrosinistra (comprendente PD, SEL e gli altri partiti minori e liste civiche a sostegno dei candidati PD o degli altri candidati di sinistra) di due punti percentuali. Considerando invece il consenso ricevuto dall’area di governo e dalle diverse opposizioni, la ‘Destra’ raggiunge il 37,6%, rimanendo distaccata di circa 3,5 punti dall’area di governo, che comprende, oltre al PD e liste civiche a sostegno dei candidati PD, anche l’Udc e il NCD. Il Movimento 5 Stelle si ferma al 15,7% mentre la sinistra radicale riceve il 4,2%.
Questi dati mostrano che, a differenza di quanto ci si sarebbe potuti attendere dopo il voto alle europee, non si è verificato un riallineamento dell’elettorato verso il centrosinistra e in particolare verso il PD di Renzi. L’Italia non è diventata un paese di sinistra. Esiste ancora un abbondante 40% degli italiani che vota per liste del centrodestra.
In vista delle prossime elezioni politiche, dunque, gli elettori disposti a votare partiti di centrodestra non mancano e l’exploit di Renzi del 2014 appare un evento irripetibile. Ma un conto è avere un ampio bacino elettorale potenziale, un altro conto è saper mettere in campo un’efficace strategia coalizionale per far si che quei voti pesino per la conquista del governo.
Quale potrà essere la strategia elettorale più conveniente per il centrodestra italiano? Dato l’ovvio incentivo rappresentato dal premio di maggioranza alla lista, la risposta potrebbe apparire banale: è necessario che tutte le forze della destra si uniscano sotto un unico simbolo in grado di competere contro il Partito Democratico di Renzi. Eppure, dal momento che la rinuncia al proprio simbolo è un gesto politicamente molto costoso per un partito, la risposta alla domanda non è scontata. Per cercare di capire quale può essere la strategia più conveniente per i partiti del centrodestra è necessario guardare i numeri che queste elezioni regionali ci forniscono. Nello specifico, dobbiamo guardare i diversi rendimenti coalizionali offerti dal centrodestra nelle diverse formule con cui si è presentato al voto.
Tab. 2 – Distacchi tra i candidati di centrodestra e il principale candidato avversario nelle diverse ipotesi coalizionali
La Tabella 2 mostra i risultati della competizione maggioritaria in termini di distacchi (in punti percentuali) tra i candidati di centrodestra e il principale avversario nelle tre diverse opzioni coalizionali in cui si è presentato. I risultati mostrano chiaramente che il centrodestra, non è solo competitivo al livello di voti complessivi raccolti (Tabella 1), ma, quando si presenta unito, è competitivo anche al livello dei candidati Presidente: vince in Liguria con quasi 7 punti di vantaggio, perde di circa 3 punti sia in Umbria che in Campania. Viceversa, quando si presenta diviso, la situazione peggiora: con l’eccezione del Veneto, in cui Zaia ha ottenuto una larghissima vittoria nonostante la presenza di Tosi, in Puglia, Toscana (dove era addirittura presente un terzo candidato, sostenuto dal NCD, che ha ottenuto appena l’1,3% dei voti) e Marche i distacchi dal candidato Presidente del centrosinistra sono abissali (tra i 22 e i 39 punti percentuali).
Tab. 3 – Percentuale dei voti e distacchi complessivi tra la somma dei candidati di centrodestra e il principale candidato avversario quando il centrodestra si presenta diviso e confronto con il 2010
Cosa sarebbe successo se il centrodestra si fosse presentato unito nelle regioni in cui ha presentato più di un candidato Presidente? Ovviamente non è possibile rispondere a questa domanda. E’ però possibile sommare le percentuali dei voti raccolti dai diversi candidati del centrodestra e misurare il distacco dal principale avversario nelle diverse regioni, confrontando poi questi dati con quelli delle regionali 2010, in cui il centrodestra si presentò sempre unito. Osservando la Tabella 3, possiamo notare che, con la sola eccezione del Veneto, nelle altre tre regioni la divisione del centrodestra non ha pagato, dal momento che la somma delle percentuali dei diversi candidati dà comunque un totale di voti nettamente al di sotto di quello ottenuto dal blocco conservatore nel 2010. I distacchi oscillano tra i 4 punti della Toscana e i quasi 10 della Puglia. Eppure, c’è da considerare il fatto che, rispetto al 2010, il sistema partitico italiano è molto cambiato, grazie soprattutto all’emersione del M5S che ha ridimensionato i voti raccolti dai due schieramenti principali, riducendo al contempo anche la quota di voti necessaria per conquistare la vittoria in ciascuna regione. Tanto che, almeno in Toscana e nelle Marche, il centrodestra, pur perdendo molti voti risulta paradossalmente più competitivo nel 2015 che nel 2010.
Tab. 4 – Flussi elettorali (destinazioni) tra le politiche 2013 e le regionali 2015 in alcune città
Altri dati, però, sembrano smentire l’interpretazione secondo la quale il centrodestra ottiene risultati migliori quando marcia unito – riuscendo quindi a minimizzare le perdite verso gli altri partiti (e verso l’astensione), oltre che a raccogliere un surplus di voti in uscita da altre forze politiche – rispetto a quando si presenta diviso. Se così fosse, ci sarebbe un importante incentivo all’aggregazione delle diverse anime sotto un unico ombrello in vista delle politiche. Le Tabelle 4 e 5 riportano i risultati delle stime dei flussi elettorali tra le elezioni politiche 2013 e le regionali 2015 effettuate con metodo Goodman in alcune grandi città. Nelle diverse celle è stata riportata la percentuale di elettori che si è spostata, tra il 2013 e il 2015, da uno dei partiti di centrodestra verso PD, M5S o l’astensione (Tabella 4) e viceversa (Tabella 5). Ci si sarebbe potuti attendere che, laddove il centrodestra si presenta diviso e con meno chances di vittoria, la quota di elettori moderati che diserta le urne o vota altri partiti sia più alta rispetto ai contesti in cui il centrodestra è unito e competitivo. Le stime di flusso presentate nella Tabella 4 smentiscono questa ipotesi. Come si può facilmente notare, le diverse opzioni coalizionali in cui il centrodestra si presenta non sembrano giocare alcun ruolo. In tutti e tre i casi non esistono flussi significativi verso il PD né verso il M5S (con la parziale eccezione di Livorno), mentre ovunque la quota ceduta al non voto è molto rilevante e oscilla tra i 38 punti di Padova e i 66 di La Spezia. Allo stesso tempo, ci si sarebbe potuti attendere che, quando il centrodestra corre unito, riceva una quota maggiore di voti in uscita dagli altri partiti e riesca a riportare più elettori alle urne rispetto a quando si presenta diviso. I dati riportati nella Tabella 5 non confermano tale ipotesi: la percentuale di elettori in movimento dal PD e dal M5S verso il centrodestra nelle varie città non sembra dipendere dalle diverse opzioni coalizionali con cui il centrodestra si presenta agli elettori ma piuttosto dalle caratteristiche politiche delle città in questione. Nelle città ‘rosse’ di La Spezia, Firenze e Livorno l’elettorato del centrodestra è in buona parte composto (tra il 25 e il 38%) da ex elettori del PD; nel Veneto, teatro del boom grillino del 2013, una quota assai significativa di elettori di centrodestra sono votanti di ritorno dal M5S; infine, nelle città del Sud (Napoli, Foggia), il flusso significativo sembra provenire da un recupero nell’area dell’astensione.
Tab. 5 – Flussi elettorali (provenienze) tra le regionali 2015 e le politiche 2013 in alcune città
Nel complesso, questa analisi del voto al centrodestra e del suo rendimento nelle diverse formule coalizionali con cui si è presentato agli elettori, non offre una risposta univoca sulla migliore strategia da adottare in vista delle politiche, lasciando aperto il campo a diverse opzioni. Il centrodestra è ancora oggi il blocco elettorale più votato dagli italiani e i suoi candidati, quando si presentano uniti, totalizzano più voti e risultano più competitivi rispetto a quando si presentano divisi. Allo stesso tempo, però, l’analisi dei flussi elettorali rivela che non c’è una maggiore capacità attrattiva dei partiti di centrodestra quando quest’ultimo marcia unito.
Quale, dunque, la strategia migliore per il centrodestra in vista delle prossime elezioni politiche? E in particolare, quale potrebbe essere la strategia migliore per la Lega Nord di Matteo Salvini, emerso come principale competitor di Matteo Renzi e potenziale nuovo leader del blocco di centrodestra? Pagare il costo, simbolico ed elettorale, della rinuncia al simbolo per integrare gli alleati in un listone unico capace di sfidare con successo il PD di Matteo Renzi? O mettere in campo una strategia in due fasi, volta a superare il M5S e accedere al ballottaggio con una lista marcatamente di destra anti-euro (Lega Nord + Fratelli d’Italia) per poi accreditarsi come unica destra competitiva rimasta in campo e provare a battere il PD di Renzi in una successiva elezione politica? Prima del 2018 (forse molto prima) avremo certamente la risposta.