di Roberto D’Alimonte
Publicato sul Sole 24 Ore del 11 maggio 2016
Il Brexit è un grosso rischio per l’Europa. Ma ce ne è un altro meno noto ma altrettanto pericoloso: il Rexit, cioè la sconfitta di Matteo Renzi al referendum sulla riforma costituzionale il prossimo Ottobre. Molti non credono che il premier si dimetterà veramente in caso di sconfitta. Ma sbagliano. Lo farà. La personalizzazione del referendum è un’altra delle sue scommesse. Si può discutere all’infinito se abbia fatto bene o no a trasformare questa consultazione in un plebiscito. Ci sono buone ragioni a favore dell’una o dell’altra tesi. Da una parte è difficile negare che la riforma costituzionale sia l’atto più significativo del suo governo. Un suo fallimento si rifletterebbe molto negativamente sulla credibilità del premier sia in Italia che all’estero. Dall’altra parte è inevitabile che la personalizzazione del referendum mobiliterà contro di lui una quota- impossibile da quantificare- di elettori che sono indifferenti o addirittura moderatamente convinti dei meriti della riforma, ma a cui il premier non piace e che sfrutteranno l’occasione per metterlo in difficoltà. Ma la questione veramente rilevante non è questa. Renzi ha fatto la sua scelta. Questo è oggi un fatto. Adesso può vincere o perdere. Cosa succederà se vince e cosa succederà se perde? Questo è quello che ci deve interessare.
Nel primo caso il governo è salvo. Continuerà a navigare come ha fatto finora barcamenandosi senza troppi problemi tra Bersani e Verdini. Qualche mese dopo il referendum ci sarà il congresso del Pd, come ha già annunciato Renzi nella ultima direzione del suo partito. E’ molto probabile che le elezioni si terranno alla scadenza naturale, nel 2018. Dopo la eventuale vittoria di Renzi al referendum questo sarà un parlamento ancora più governabile di prima. La stragrande maggioranza dei suoi membri non sarà ricandidata. Conservare il seggio per un altro anno fa comodo, anche per poter maturare il diritto al vitalizio. Uno strumento questo da non sottovalutare come meccanismo di stabilizzazione degli esecutivi. In questo scenario l’unica incertezza riguarda la partecipazione al voto. Posto che vincere è la questione essenziale. Con quanto Renzi potrebbe vincere farà una qualche differenza sulla sua capacità di leadership. Ma tutto qui.
Il secondo caso è il Rexit. L’Italia non è un paese normale. In Europa non tutti si sono accorti che l’anno scorso è stata approvata una riforma elettorale maggioritaria valida solo per la Camera lasciando in piedi il sistema proporzionale del Senato. E’ stato fatto anticipando l’esito positivo della riforma costituzionale. Una volta trasformato il Senato in una camera delle autonomie, che non dà la fiducia al governo, il problema della coesistenza di due sistemi elettorali così diversi sarebbe sparito. La fuga in avanti si spiega con la necessità di tranquillizzare deputati e senatori sulla durata della loro permanenza in parlamento. Mettendo nelle mani di Renzi una riforma elettorale inservibile si sono conquistati una assicurazione sul loro mandato. Così facendo però si è creato un grosso rischio.
Infatti, se la riforma costituzionale non sarà approvata e il Senato conserverà i suoi attuali poteri, avremmo un sistema elettorale che darà un vincitore alla Camera, mentre al Senato non solo non ci sarebbe alcun vincitore ma ci sarebbero quattro partiti rappresentati – Pd, M5s, Fi e Ln- che non riuscirebbero a fare alcuna maggioranza. In più se si andasse a votare e nessuno arrivasse al 40% dei voti alla Camera, ci sarebbe un secondo turno che si terrebbe dopo che è noto il risultato definitivo- e inconclusivo – del Senato. Insomma, un brutto pasticcio che rende il ricorso alle urne improponibile. E allora dopo il Rexit cosa potrebbe succedere? Un altro governo Monti? E quale riforma elettorale si potrebbe fare per rendere congruenti i sistemi di voto di Camera e Senato? E’ difficile immaginare che l’Italicum della Camera sia esportato al Senato. Molto più realistica è l’ipotesi che sia il sistema proporzionale del Senato ad essere esportato alla Camera. In fondo è quello che vogliono i sostenitori del No al referendum.