Chiaramonte, A. and Emanuele, V. (2015), ‘Party System Volatility, Regeneration and De-Institutionalization in Western Europe (1945-2015)‘, Party Politics, Online First, DOI:10.1177/1354068815601330.
Intervista a cura di Gianmarco Botti
Vincenzo Emanuele, di cosa si occupa il suo articolo? Perché è innovativo?
Le Interviste CISE mirano a divulgare l’attività di ricerca del CISE che produce pubblicazioni scientifiche in ambito italiano e internazionale. La formula dell’intervista, condotta da giovani tirocinanti del CISE, permette di presentare in modo semplice i contenuti delle pubblicazioni, superando le difficoltà del linguaggio tecnico e di strumenti statistici spesso sofisticati.
Questo articolo è stato pubblicato da me e dal prof. Alessandro Chiaramonte dell’Università di Firenze su Party Politics nel 2015 e si occupa del tema dell’istituzionalizzazione dei sistemi di partito. È un tema che ha una lunga storia ma che è stato poco dibattuto per quel che riguarda i Paesi dell’Europa occidentale. Per istituzionalizzazione dei sistemi di partito si intende la stabilità e la prevedibilità del modello di competizione interpartitica all’interno di un dato Paese. Abbiamo un sistema istituzionalizzato quando il modello della competizione interpartitica è stabile e prevedibile nel tempo, cioè quando esistono gli stessi partiti per un lungo periodo di tempo e questi partiti tendono a mantenere le stesse relazioni e interazioni tra loro. Ad esempio l’Italia della Prima Repubblica, con la Democrazia Cristiana che governa insieme agli altri partiti laici e trova all’opposizione stabilmente il Partito Comunista da un lato e il Movimento Sociale dall’altro, rappresenta un sistema istituzionalizzato. Analogamente, la Seconda Repubblica vede per un certo periodo l’istituzionalizzarsi di un sistema bipolare, con due coalizioni che competono fra loro al netto della frammentazione degli attori partitici. Tale stabilità aiuta anche gli elettori a legarsi ad un determinato partito nel momento del voto. Viceversa, quando si assiste al continuo emergere di nuove forze politiche o alla scomparsa di vecchi partiti con un repentino cambiamento di voto da parte degli elettori tra un’elezione e l’altra, abbiamo un sistema tendenzialmente deistituzionalizzato. L’interesse del tema è dato dal fatto che questo oggetto di ricerca ha delle conseguenze sulla democrazia in termini di accountability e di qualità della democrazia, perché ovviamente la presenza di un sistema deistituzionalizzato rende tutto più incerto a partire dalla formazione del Governo fino all’attribuzione delle responsabilità da parte degli elettori ai partiti di maggioranza.
Quali sono le debolezze che si riscontrano nella letteratura sul tema? E quale la nuova concettualizzazione di questa categoria che lei propone?
Come sappiamo, quando in scienza politica si propone una teoria a questa poi dovrebbe seguire una operazionalizzazione empirica, la trasformazione del concetto in un indicatore che permetta di misurare e comparare in questo caso diversi sistemi partitici sulla base della definizione che abbiamo dato. La debolezza, oltre alla carenza di studi sull’Europa occidentale cui si accennava, deriva dal fatto che gli studiosi sono tutti d’accordo sulla definizione di istituzionalizzazione che abbiamo dato ma non lo sono sull’operazionalizzazione empirica. I primi a studiare questo tema sono stati Mainwaring e Scully in riferimento all’America Latina, in particolare al processo di democratizzazione di quell’area dopo le dittature degli anni Ottanta. Ma poi negli anni successivi nell’applicazione pratica di questo concetto ci si è ridotti a studiare l’istituzionalizzazione tramite il solo indicatore della volatilità elettorale. Il nostro argomento è che questo sia un indicatore importantissimo per capire il cambiamento del sistema partitico, ma è soltanto una delle componenti che concorrono a definire il concetto di istituzionalizzazione. Insomma, una condizione necessaria ma non sufficiente.
Quali sono le altre condizioni?
Secondo la nostra concettualizzazione, l’istituzionalizzazione è basata su tre condizioni necessarie ma non sufficienti. La prima è appunto un’alta volatilità elettorale. Eppure questa potrebbe derivare semplicemente da uno scambio di voti tra i partiti esistenti: il partito di Governo perde voti in favore del partito di opposizione, una dinamica che si è verificata per 150 anni in Gran Bretagna prima fra Liberali e Conservatori, poi fra Laburisti e Conservatori. Questo non implica che il sistema partitico sia deistituzionalizzato, semplicemente può essere espressione della vitalità della democrazia. È necessario quindi che accanto alla volatilità ci sia un’altra condizione, che noi definiamo rigenerazione, ‘party system regeneration’. Essa indica che una parte consistente di questa volatilità è dovuta all’ingresso di nuovi partiti nel sistema o all’uscita di vecchi attori politici che scompaiono. Questo elemento di ricambio, di rigenerazione appunto, genera imprevedibilità. I pattern di inter-party competition non sono più prevedibili quando nasce un nuovo attore che non si è mai confrontato con gli altri, che non è mai entrato in coalizioni di Governo, e quindi non si sa come si schiererà – l’esempio che viene più facile è il MoVimento 5 Stelle nel 2013. Lo stesso vale quando c’è un attore storico che scompare: la Democrazia Cristiana, perno del sistema partitico italiano dal 1945 al 1993, improvvisamente scompare e inevitabilmente scombussola tutto il quadro politico. Quanto più la rigenerazione, che è una componente interna della volatilità, incide sul totale della volatilità stessa, tanto più il sistema sarà potenzialmente deistituzionalizzato. Ma questo ancora non basta, c’è un terzo elemento: il tempo. L’istituzionalizzazione è un processo e come tutti i processi richiede del tempo per espletarsi. Ecco allora che non è sufficiente un’elezione ad alta volatilità e alto livello di rigenerazione, serve che queste condizioni si verifichino in più elezioni consecutive. In quel caso allora si potrà dire che il sistema partitico attraversa un processo di deistituzionalizzazione. L’Italia fra il 1992, il 1994 e il 1996 sicuramente ha sperimentato un processo di questo genere. Così anche la Grecia degli anni dopo la crisi economica. Queste definizioni aiutano a distinguere il concetto di deistituzionalizzazione da quello più vago e più ampio di ‘party system change’ che di solito si riferisce esclusivamente alla volatilità elettorale, e da quello di ‘critical election’ che si rifà agli studi di Key in America e si riferisce ad una singola elezione di grande cambiamento. A livello empirico, partendo da questa concettualizzazione, abbiamo costruito un dataset in cui abbiamo raccolto i dati di volatilità e delle sue componenti interne – cosa che non era mai stata fatta – per circa 350 elezioni dell’Europa occidentale dal 1945 ad oggi.
Rimanendo allora su un piano empirico, quale fra i Paesi che ha studiato risulta essere in questo arco di tempo il più istituzionalizzato e quale il più deistituzionalizzato?
L’elemento che emerge con forza è quello che abbiamo definito un ‘bias towards stability’, una tendenza alla stabilità nella lunga fase che va dal 1945 al pre-crisi economica 2008-2009. Durante questa fase l’Europa occidentale mostra dei livelli di istituzionalizzazione molto alti con poche eccezioni – per esempio la Francia, che è un Paese molto instabile. Con l’emergere della crisi economica il quadro comincia a cambiare profondamente: soprattutto i Paesi dell’Europa meridionale – Grecia, Spagna e Italia – mostrano un’accelerata tendenza alla deistituzionalizzazione. Nel caso dell’Italia c’era già stato qualcosa del genere nei primi anni ‘90 con il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ma in generale il trend di deistituzionalizzazione si impone a partire dallo scoppio della crisi economica, quando, fra il 2009 e il 2010, questa comincia a sentirsi anche in Europa e cambiano i sistemi partitici. Non a caso la maggioranza dei sistemi partitici dell’Europa occidentale registra l’elezione più volatile della sua storia proprio in questi ultimi anni: la Grecia nel 2012 con l’elezione più volatile della storia dell’Europa occidentale, l’Italia nel 2013, la Spagna nel 2015, anche l’Olanda mantiene alti livelli di deistituzionalizzazione, e perfino la poco considerata Islanda ha visto accadere l’imponderabile con il rimpiazzo dei partiti storici di Governo. Proprio la perdita di potere dei partiti dominanti è una caratteristica importante di questo fenomeno: pensiamo soprattutto al PASOK, che era il partito egemone insieme a Nuova Democrazia in Grecia, o anche alle difficoltà del PSOE in Spagna con l’emergere di Podemos. Ma si tratta di un processo in divenire, che necessita ancora di essere esplorato.
La sua analisi tocca anche gli ultimi anni e naturalmente il nostro Paese. Quanto può dirsi deistituzionalizzato il sistema partitico italiano dopo il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e soprattutto alla luce del ‘terremoto elettorale’ del 2013?
Dopo vent’anni di difficile e lenta formazione di una dinamica bipolare, il sistema della Seconda Repubblica è crollato con le elezioni del 2013. Quindi anche il modello di competizione dominante è venuto meno, lo si vede plasticamente con il livello di volatilità e di rigenerazione, al quale contribuisce ovviamente il MoVimento 5 Stelle ma anche Scelta Civica. Si è generato l’embrione di un nuovo sistema tripolare, ma in realtà non si sa quanto sia frutto di una singola elezione o di un nuovo sistema che successivamente si andrà stabilizzando dando vita ad un nuovo pattern, ad una nuova dinamica. Si tratta di un processo di cambiamento che è in parte esogeno, cioè derivante dalla società, e in parte endogeno, cioè prodotto dalle élites politiche che cambiano. Fra questi due processi deve però intervenire un ulteriore elemento che è il sistema elettorale, che non sappiamo ancora quale sarà: da questo dipenderà se il sistema tripolare si andrà a cristallizzare – probabile con un sistema proporzionale – o se invece si modificherà ancora con un nuovo sistema maggioritario. È una situazione di grande incertezza e imprevedibilità, ma possiamo dire che l’Italia è entrata in una dinamica di deistituzionalizzazione dalla quale ancora non si sa se potrà uscire e in che modo.
E, in prospettiva futura, cosa c’è da aspettarsi in Europa per quanto riguarda l’evoluzione di questo processo, alla luce dei risultati della ricerca?
In Europa occidentale la tendenza che emerge è quella di una grande crescita di instabilità e imprevedibilità, che provoca in un sempre maggior numero di Paesi la difficoltà di formare Governi dopo le elezioni – lo abbiamo visto in Spagna e in Belgio, forse lo vedremo anche in Olanda. I modelli precedenti di interazione fra le élites politiche vengono meno, in parte appunto per il cambiamento del voto che si sposta su partiti anti-establishment, in parte anche perché le élites stesse tendono a presentare offerte politiche diverse di elezione in elezione. Ci sono partiti che emergono dal nulla come il MoVimento 5 Stelle ma anche fusioni, scissioni, partiti che cambiano nome e tutto questo provoca instabilità nel sistema. Esiste anche uno spin-off di questo articolo, che è un altro contributo pubblicato su Party Politics nel 2016 che si concentra sui partiti nuovi, su quella che definiamo ‘party system innovation’, che è parte della componente di rigenerazione spiegata prima. In esso mostriamo come nel corso degli ultimi cinque-sei anni ci sia stato un cambiamento più ampio che nei precedenti sessantacinque. Se il trend si mantenesse assisteremmo ad una sorta di slavina, ad una drastica accelerazione: siamo in un’epoca di volatilità a tutti i livelli, dove tutto è veloce e anche la trasformazione della comunicazione politica attraverso i social network contribuisce a imprimere rapidità al cambiamento.
Come si inserisce questo articolo nel più ampio progetto di ricerca che lei sta portando avanti?
Si tratta di un progetto di ricerca sul quale lavoro da ormai tre anni, che riguarda l’istituzionalizzazione dei sistemi di partito a 360 gradi: vogliamo studiare che cos’è, quali sono le sue cause e le sue conseguenze. Per quel che riguarda le cause, c’è un altro lavoro che stiamo finalizzando e che si concentra sulle determinanti di questo processo chiedendosi quanto queste sono cambiate nel tempo. I fattori che determinavano la stabilità settant’anni fa sono in parte diversi da quelli che la determinano oggi. Ci siamo chiesti poi quali sono le conseguenze che tutto questo ha sul piano della crisi della democrazia. E poi c’è un altro elemento interessante che abbiamo studiato io e il dott. Bruno Marino, che riguarda l’interazione tra un contesto di deistituzionalizzazione e il ruolo dei candidati, quello che si definisce il voto personale: ci siamo occupati in particolare della Calabria in un articolo pubblicato su Regional & Federal Studies nel 2016 dove viene analizzato il ruolo dei ‘collettori di preferenze’ in un contesto di deistituzionalizzazione nel quale viene meno il rapporto fra partiti ed elettori e i candidati emergono come il principale ancoraggio del sistema. Un altro filone ancora, anche questo in divenire, riguarda l’inserimento dei Paesi dell’Europa orientale all’interno di questo framework di ricerca: l’Europa occidentale diventa sempre più deistituzionalizzata mentre invece quella orientale tende sempre più a stabilizzarsi. Si tratta allora di vedere se si sta realizzando una convergenza tra le due aree, due mondi che vengono da sempre considerati separatamente, come se non dialogassero tra di loro. I dati mostrano un riavvicinamento che si concretizza nel fatto che l’Europa occidentale diventa sempre più simile a quella orientale piuttosto che il contrario. Si tratta quindi un riavvicinamento asimmetrico. Questo tema viene sviluppato in un articolo che ho scritto con Alessandro Chiaramonte e Sorina Soare dell’Università di Firenze e che andrò a presentare il mese prossimo alla Midwest Political Science Association Conference a Chicago.