Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 3 maggio
Mutatis mutandis, con queste primarie del Pd, siamo tornati a dicembre 2013. Anche allora Matteo Renzi stravinse. Anche allora a Palazzo Chigi c’era un governo espressione del Pd, con Enrico Letta presidente del Consiglio. Anche allora incombeva all’orizzonte un delicato turno elettorale, le europee previste a maggio 2014. Anche allora una sentenza improvvida della Corte costituzionale aveva trasformato un sistema elettorale maggioritario in una proporzionale confusa. Anche allora il neo-eletto segretario del Pd si poneva la domanda se aspettare la scadenza naturale della legislatura, o almeno lo svolgimento delle europee, prima di puntare a Palazzo Chigi.
Forse la domanda non se l’è mai posta, ma il problema della convivenza tra segretario e premier dello stesso partito era nei fatti. Come ora. Sappiamo come è andata a finire. Che lo avesse pianificato o meno fin dall’inizio o no, a febbraio 2014 Matteo Renzi ha sostituito Enrico Letta nella carica di presidente del Consiglio mantenendo la leadership del partito.
Qualcuno dice che la storia non si ripete. Ma non è sempre così. Certo, non si ripete esattamente nelle stesse forme. In più è vero che l’esito di una storia simile non è detto che sia lo stesso. In questo caso qualunque previsione sarebbe azzardata. Ma le analogie tra il dicembre del 2013 e oggi sono impressionanti. Renzi è di fronte allo stesso dilemma di allora. Gentiloni non è Letta, ma si trova nella stessa condizione di dover gestire una mediazione difficile tra l’Europa che vuole certe cose e un segretario del suo partito – candidato premier – che ne vuole altre per evitare il rischio che le elezioni ormai vicine segnino una sconfitta per lui e per il partito.
Rispetto a Letta però Gentiloni ha due carte a suo favore. La prima è la fiducia di Renzi. Non sarebbe presidente del Consiglio se così non fosse. È stato l’ex premier a indicarlo e nonostante certe incomprensioni, dovute ai diversi ruoli e alle pressioni di Bruxelles, pare di capire che i rapporti tra i due siano rimasti buoni.
In questo la personalità di Gentiloni ha avuto e continua ad avere un peso notevole. L’altra carta è l’impossibilità per Renzi di arrivare a Palazzo Chigi prima del prossimo voto. Nell’inverno del 2014 non era così. C’era una remora a farlo, ma è stata superata. Oggi è impensabile il ritorno al governo di Renzi prima del voto. Anche se si andasse alle urne in autunno, Gentiloni resterebbe al suo posto.
Detto ciò, resta il problema della convivenza con elezioni in vista. Il problema è aggravato dallo spettro di una legge di stabilità che potrebbe destabilizzare le residue speranze del Pd di conseguire un buon risultato alle prossime elezioni. Solo il ricorso alle urne in autunno, prima quindi della approvazione della manovra, potrebbe disinnescare questo problema. Anche nel 2014 circolava l’ipotesi di elezioni politiche anticipate con l’abbinamento di europee e legislative. Per ragioni in parte simili. La prospettiva che il Pd, con Letta al governo, potesse essere fortemente penalizzato nel voto europeo rappresentava un forte incentivo, dal punto di vista di Renzi, per non aspettare la scadenza naturale della legislatura e mettere in atto il ricambio subito.
Più o meno il quadro è lo stesso oggi. Ma, nonostante il fatto che la voce continui a circolare, è difficile credere a una prospettiva del genere. Senza una legge elettorale efficace le prossime elezioni saranno un disastro dal punto di vista della governabilità. Fare un governo dopo il voto sarà un incubo. Ammesso che ci si riesca, senza tornare a votare di nuovo in tempi brevi, come si farà a confezionare una legge di stabilità che rassicuri l’Europa e i mercati? Tra domani e la fine dell’estate si dovrebbe approvare un nuovo sistema elettorale veramente maggioritario, ma non ci sono le condizioni politiche per farlo. Come nel dicembre 2013 il neo-rieletto segretario del Pd ci proverà. Allora trovò la sponda di Berlusconi. Questa volta magari l’accordo lo farà con il M5s. La recente apertura di Di Maio alimenta l’illusione. Noi crediamo invece, augurandoci di sbagliare, che una vera riforma non si farà e che quindi si andrà a votare con i proporzionali della Consulta. Il risultato sarà l’ingovernabilità. Con questo scenario è difficile credere che il presidente della Repubblica accetti di sciogliere le Camere in autunno. Non accetterà il rischio del caos rispetto alla prospettiva che sia l’attuale governo a mettere in sicurezza i conti. Come ai tempi di Monti, il Pd dovrà “sacrificarsi” per il bene del Paese.
Matteo Renzi può attendere. Questa volta a differenza del 2014, e nonostante la sua trionfale rielezione, non potrà andare a Palazzo Chigi prima del voto e non potrà ottenere le elezioni anticipate per andarci dopo il voto e prima della legge di stabilità. Non è una condizione che gli si addice. Ma in fondo è stato lui a cacciarsi in questo angolo. Quanto lunga sarà questa attesa, e come si concluderà, è tutto da vedere.