È vero che democratici e repubblicani si odiano oggi più che mai?

Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su Reason.
Copyright ©2018 Reason Foundation.

Morris P. Fiorina è Professore Wendt Family di Scienza Politica alla Stanford University e Senior Fellow presso la Hoover Institution. Il professor Fiorina è uno dei massimi esperti di politica americana. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.

Per tutto il florido commentario giornalistico sulla polarizzazione degli elettori, ampi studi empirici hanno dimostrato che l’elettorato americano non è più polarizzato oggi di quanto non fosse negli anni ’70 (Fiorina, Abrams e Pope 2005). Ciò che è cambiato è che i partiti si sono passati al setaccio. Così, i democratici sono diventati più omogeneamente progressisti, e i repubblicani più omogeneamente conservatori.

Ma anche prendendo in considerazione questo processo di setacciatura avvenuto fra le fila dei due partiti, l’ostilità partitica appare più grande di quanto qualsiasi giustificazione obiettiva possa far sembrare giustificata. Per spiegare questa divergenza, un certo numero di studiosi ha avanzato una visione generalmente nota come ‘partigianeria affettiva’. Democratici e repubblicani potrebbero non differire molto sulle scelte nelle politiche pubbliche, secondo questa tesi, ma non amano l’altra sponda politica più di quanto non facessero prima, attribuendole tratti negativi e persino sostenendo che sarebbero arrabbiati se la loro prole sposasse qualcuno dell’altro partito.

L’ultimo e probabilmente più forte contributo a questo filone di studi è Uncivil Agreement di Lilliana Mason (University of Chicago Press, 2018), professoressa associata di governo e politica all’Università del Maryland. Ma prima di esaminare i suoi risultati, voglio segnalare alcuni problemi degli studi sulla partigianeria affettiva.

Il primo è il semplice fatto che la proporzione di americani che ammettono di avere un’identificazione di partito è ai minimi storici[1]. Quando gli American Election National Studies iniziarono, negli anni ’50, tre quarti delle persone interrogate si dichiararono democratici o repubblicani. Nello studio del 2016, solo il 60% circa lo ha fatto (Brady e Parker 2018). Analogamente, sondaggi commerciali riportano che il 40% o più degli americani oggi affermano di essere indipendenti.

Alcuni studiosi sostengono che la maggior parte degli indipendenti siano in realtà i sostenitori nascosti di un partito: una opinione che supera di gran lunga il supporto empirico che essa stessa ha. Di solito non si pensa a un’identità come a qualcosa che si nega o si nasconde. Di solito è qualcosa che si afferma, come quando i fan dei Red Sox indossano cappelli e camicie in un territorio ostile come lo Yankee Stadium. In effetti, Samara Klar e Yanna Krupnikov, nel loro libro Independent Politics (Cambridge University Press, 2016), argomentano con forza che un’ampia fascia dell’elettorato trova oggi poco interessanti le identità partitiche disponibili.

I problemi di misurazione sono un secondo problema. La variabile cavallo di battaglia negli studi sulla partigianeria affettiva è la misura del ‘termometro’: i rispondenti del sondaggio valutano individui e gruppi in base a quanto si sentono caldi o freddi nei loro confronti. A mia conoscenza, nessuno ha dimostrato empiricamente che tali punteggi misurano effettivamente gli effetti. Mi sento al caldo nei confronti di Barack Obama perché sentirlo parlare “fa salire un brivido su per la gamba” (come disse Chris Matthews in diretta sulla MSNBC nel marzo del 2008, ndr), o perché approvo le proposte politiche che offre? Nulla nella misura del termometro fornisce una risposta a questa domanda. Lo stesso vale per altre misure, come quelle sui tratti dei candidati. Giudico Obama debole perché ha disegnato una linea rossa nella sabbia e poi non l’ha imposta, o quel giudizio deriva semplicemente dal guardarlo o ascoltarlo?

Un terzo problema è il notevole divario tra la teoria e le verifiche empiriche. Gli studiosi della partigianeria affettiva in genere basano le loro analisi in qualcosa chiamato ‘teoria dell’identità sociale’. Ci sono molte varianti di questo approccio teorico, ma tutte hanno in comune il contrasto tra in-group e out-group. I membri del gruppo valutano positivamente gli altri membri, difendono il gruppo in caso di minaccia e mostrano pregiudizi a favore dei suoi membri; il contrario vale per l’out-group. Eppure i dati contraddicono metà della teoria. Gli identificati con un partito valutano la parte opposta in modo più negativo rispetto a prima, ma non valutano il proprio partito in modo più positivo. A ben guardare, sembrano valutare il proprio partito in modo un po’ più negativo di prima. Il politologo della Emory University, Alan Abramowitz, sostiene che la contemporanea identificazione di partito sia ‘identificazione negativa’ (Abramowitz e Webster 2016, 2018).

Si potrebbe abbandonare la teoria dell’identità sociale a favore di una semplice argomentazione basata sul senso comune: poiché i partiti si sono setacciati e sono diventati più omogeneamente progressisti e conservatori, il democratico medio non è d’accordo con il repubblicano medio su più questioni, e più non siamo d’accordo con qualcuno tanto meno ci piace. Ciò aiuterebbe anche a spiegare l’aumento degli indipendenti, che trovano più cose su cui non essere d’accordo con entrambe i partiti così polarizzati. E anche gli elettori identificati, che sono meno ben organizzati delle élite del partito, potrebbero apprezzare il loro partito in qualche modo meno di quanto non facessero prima. Ma questo non spiegherebbe perché l’ostilità partitica superi le differenze oggettive su questioni politiche.

La tesi della Mason è che gli alti livelli di ostilità partitica che accompagnano livelli molto inferiori di disaccordo politico riflettono un maggiore allineamento tra identità partitiche, ideologiche e sociali. È noto che vi è uno slittamento significativo tra l’autocollocazione ideologica delle persone e le loro opinioni su questioni specifiche, specialmente sul versante conservatore. Ciò ha indotto alcuni politologi, come Donald Kinder e Nathan Kalmoe in Neither Liberal Nor Conservative (University of Chicago Press, 2017), a chiedere di bandire il concetto di ideologia. Ma la Mason raddoppia, argomentando che le posizioni sulle issues sono in gran parte razionalizzazioni e che l’ideologia è fondamentale.

La setacciatura sociale ha prodotto partiti più omogenei, afferma. Le identità razziali, regionali, religiose e geografiche si allineano sempre più per produrre un Partito Democratico progressista e un Partito Repubblicano conservatore. I due gruppi hanno credenze diverse, diversi stili di vita, diverse preferenze di media e numerose altre differenze.

Le analisi empiriche della Mason coinvolgono diversi importanti database. Un capitolo dimostra che i livelli di ostilità partitica e la percezione delle differenze sociali superano in modo significativo ciò che le sole differenze sulle issues potrebbero far prevedere, sebbene anche queste ultime siano importanti. Un altro capitolo dimostra l’importanza cruciale della setacciatura: individui fortemente identificati con un partito che però non sono ideologicamente coerenti sono molto meno ostili all’altro gruppo di individui ugualmente identificati per i quali identificazione di partito e collocazione ideologica si rafforzano a vicenda. Un altro capitolo, incentrato sulle emozioni, riporta prove sperimentali e sondaggi: un ricercatore in laboratorio può produrre sentimenti, come la rabbia o l’entusiasmo, con script che invocano minacce o orgoglio. Lo smistamento sociale produce una risposta emotiva più forte rispetto all’identità partigiana, ed entrambe producono una risposta più forte rispetto all’estremità.

La scoperta più importante del libro, tuttavia, è l’importanza delle pressioni incrociate. Un concetto chiave nella letteratura della sociologia politica alla metà del 20° secolo, le pressioni trasversali sono fratture sociali che si intersecano invece che essere parallele l’una all’altra. Ad esempio, se la denominazione religiosa è indipendente dalla classe sociale, e l’etnia è indipendente da entrambi, la politica sarà più consensuale e una società sarà più stabile che se, diciamo, tutti i cattolici sono membri della classe operaia e membri di un particolare gruppo etnico e viceversa tutti i protestanti. La Mason scopre che le persone con identità trasversali (‘non coerenti’) sono meno ostili nei confronti dei partigiani opposti anche rispetto alle persone con posizioni moderate sulle issues (‘centristi’). Ciò vale anche per le emozioni: “Le identità trasversali attenuano le reazioni emotive ai messaggi politici, al punto che le identità più trasversali mostrano una completa mancanza di risposta emotiva, e questa mancanza di risposta esiste solo nel gruppo di cittadini trasversali, che stanno scomparendo sempre più dall’elettorato americano” (mia enfasi).

I capitoli finali del libro considerano questioni più ampie, ad esempio se una maggiore partecipazione alla vita politica da parte di cittadini sempre più estremisti sia una buona cosa (secondo la Mason non lo è), oltre all’obbligatorio “Possiamo aggiustarlo?” Risposta: probabilmente no. L’unica vera soluzione che l’autore vede è una qualche evoluzione che porti a un de-setacciatura dei partiti e al risorgere di cleavages trasversali.

“L’ordinamento sociale dell’elettorato americano è stato, a conti fatti, normativamente negativo per la democrazia americana”, conclude la Mason. “Le cabine elettorali sono sempre più occupate da chi vuole ferocemente che la propria parte e vinca, e considera l’altra parte disastrosa. […] Fintanto che tra i partiti si manterrà una così profonda divisione sociale, l’elettorato si comporterà più come una coppia di tribù in guerra fra loro, che non come le persone di una singola nazione, che si prendono cura del loro futuro condiviso”.

Riferimenti bibliografici

Abramowitz, Alan I., e Steven Webster, (2016), ‘The rise of negative partisanship and the nationalization of US elections in the 21st century’, Electoral Studies, 41, pp. 12-22.

Abramowitz, Alan I., e Steven Webster, (2018), ‘Negative Partisanship: Why Americans Dislike Parties But Behave Like Rabid Partisans’, Political Psychology, 39, pp. 119-135.

Brady, David W. e Scott Parker (2018), ‘La matematica delle elezioni di midterm’. https://cise.luiss.it/cise/2018/09/25/la-matematica-delle-elezioni-di-midterm/

Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.

Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.

Fiorina, Morris P., Samuel J. Abrams, e Jeremy Pope (2005), Culture war?: The myth of a polarized America, New York, Pearson Longman.

Kinder, Donald R., e Nathan P. Kalmoe (2017), Neither liberal nor conservative: Ideological innocence in the American public, Chicago, University of Chicago Press.

Klar, Samara, e Yanna Krupnikov, (2016), Independent politics, Cambridge, Cambridge University Press.

Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.

Mason, Lilliana (2018), Uncivil agreement: How politics became our identity, Chicago, University of Chicago Press.


[1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).

Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 1). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.

Fig. 1 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)scala_7_PID_ITA