Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 31 Marzo
In tempi di gravi crisi, come quella che stiamo attraversando, chi governa tende a essere favorito. È un fenomeno naturale. Lo vediamo in tutti i paesi alle prese con la pandemia. La paura spinge a stringersi intorno a chi ha il potere di agire, sia esso capo del governo, presidente di regione o sindaco. Ed é quello che sta succedendo anche in Italia. Secondo diversi sondaggi l’indice di fiducia del premier Conte è salito oltre il 50% con un incremento molto significativo rispetto alle rilevazioni dei mesi scorsi. Ma quanto potrà durare questo effetto? E cosa succederà dopo quando la crisi sanitaria sarà stata superata e bisognerà affrontare la crisi economica? A queste domande è difficile rispondere ora. L’Italia non è un paese sovrano. Facciamo parte di una unione economica e monetaria. Le decisioni che la UE prenderà nei prossimi giorni per affrontare la crisi condizioneranno la politica interna. Ma comunque è da questa che occorre partire per ragionare su scenari futuri.
La metafora più utilizzata per descrivere la situazione che stiamo vivendo è quella della guerra. Guerra contro il virus e le sue conseguenze economiche e sociali. In guerra non ci si divide. È una deduzione banale. Occorre unità di intenti e unità di azione. In questo momento a Roma si vede ben poco di tutto ciò. Il governo in carica è un governo che poggia su una maggioranza risicata e dipendente da un partito -il M5s- che fino a poco tempo fa ha dato voce a chi non voleva i vaccini. La popolarità di Conte non basta a compensare questa debolezza strutturale. Per di più il premier è una figura del tutto anomala il cui successo non è di tipo partitico ma personale. Posto che continui ad avere in futuro gli elevati indici di gradimento attuali, resta il fatto che la fiducia in lui non si può convertire in voti. Conte non ha un partito. Ed è così popolare proprio perché non ce l’ha. Per certi aspetti assomiglia a Prodi. Due leader senza partito. Ma Prodi aveva un progetto, l’Ulivo. Conte no. Prodi ha operato in un contesto maggioritario. Conte ha ereditato la proporzionale. È difficile immaginare che la ricostruzione post-bellica possa essere gestita dallo stesso governo che sta gestendo l’emergenza sanitaria con una base di consensi così ristretta in Parlamento e nel paese. E uno dei motivi -lo ripetiamo- è che la fiducia di cui gode Conte non si traduce in un rafforzamento della attuale compagine governativa. Debole è e debole resterà. Popolarità e voti non vanno insieme, come si rileva dagli stessi sondaggi che premiano Conte.
In queste ore un po’ da tutte le parti viene evocato il nome di Draghi come leader del governo che dovrà affrontare la crisi economica. Ma che può fare Draghi da solo? Ammesso che sia disponibile a guidare il paese in questo momento, Draghi non sarà Dini e non sarà neanche Monti. Dini e Monti sono stati premier di due governi di maggioranza appoggiati da alcuni partiti contro altri rimasti alla opposizione a fare i free riders. Per affrontare quella che si profila come la più grave recessione economica degli ultimi settanta anni serve un governo di unità nazionale. Tutti e quattro i maggiori partiti italiani dovrebbero essere disponibili ad appoggiare questa soluzione. Questa è la prima condizione per vedere nascere un eventuale governo Draghi. Ma non basta. È una condizione necessaria ma non sufficiente. Oltre alla formula occorre la sostanza e cioè il programma. Su quali politiche si potrebbe trovare l’accordo?
La risposta non può prescindere dall’intreccio tra politica europea e politica interna. Ma una cosa è certa. Un eventuale governo Draghi non sarà mai un governo contro l’Europa. Qualunque siano le decisioni che l’Unione prenderà nelle prossime settimane l’Italia di Draghi si muoverà dentro la cornice europea tessendo alleanze e creando le condizioni per far fare all’Unione un passo avanti verso una maggiore integrazione. Non il contrario. Draghi è la figura che potrebbe ancorare definitivamente l’Italia all’Europa, con tutto quello che ne seguirebbe sul piano della reputazione e della affidabilità del paese. Lega e Fdi, che hanno fatto dell’Euroscetticismo una componente della loro identità, saranno disposti a rinunciarci proprio nel momento in cui cavalcare l’eventuale risentimento nei confronti dell’Unione potrebbe essere elettoralmente assai redditizio?
Hic Rhodus, hic salta. Se si trovasse l’accordo per fare il salto questa crisi potrebbe diventare l’occasione non solo per rafforzare l’Unione, ma per cambiare profondamente il nostro paese. Un governo di unità nazionale potrebbe sciogliere finalmente i nodi che da anni frenano l’economia italiana. Potrebbe anche mettere mano alla razionalizzazione delle nostre istituzioni. Non ci vorrà molto tempo per capire se tutto ciò è soltanto una utopia. Molto dipenderà dalla dimensione della crisi. Intanto facciamo sommessamente rilevare che non si può chiedere unità e solidarietà a livello europeo e rifiutare di unirsi a livello nazionale per condividere la responsabilità e i rischi legati alle difficili decisioni che prima o poi dovranno essere prese.