Affluenza e dieci Stati chiave, a Biden mancano 38 delegati

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 ottobre

Le elezioni presidenziali USA sono un puzzle e allo stesso tempo una lotteria. Donald Trump ha vinto nel 2016 per 77.744 voti (lo 0,06 % del totale nazionale). Per la precisione ha battuto Hillary Clinton in Michigan per 10.704 voti (lo 0,2%), nel Wisconsin per 22.748 (lo 0,6%) e in Pennsylvania per 44.292 (lo 0,7 %).  Se la Clinton avesse conquistato questi tre stati, dove prima di lei avevano vinto Obama, Bush, Gore e suo marito, avrebbe ottenuto 278 grandi elettori contro i 260 di Trump e sarebbe diventata presidente. Domanda: è possibile che dopo quattro anni di presidenza Trump, con il Covid che ancora imperversa, con la disoccupazione al 7.9% Trump riesca a conservare un vantaggio così esiguo in questi tre stati?  La domanda ha senso, ma la risposta non è semplice. Sono molti i fattori in gioco. I principali sono due: l’affluenza alle urne e quel peculiare meccanismo- il collegio elettorale-con cui si elegge il presidente.

Il puzzle del collegio elettorale

Il presidente degli USA non viene eletto direttamente dal popolo. Nel 2016, per la quinta volta nella storia del Paese, è stato eletto con meno voti del suo rivale. Una delle poche cose sicure oggi è che Trump, se vince, non avrà di nuovo la maggioranza del voto popolare. Attualmente il suo distacco da Biden a livello nazionale si aggira tra gli 8 e i 10 punti. E su questo è difficile che i sondaggi sbaglino di grosso. Ma è il collegio elettorale l’arena in cui si decide chi vince. E per vincere occorre comporre il puzzle in modo da arrivare a 270 voti su 538.

All’interno del collegio gli stati non pesano tutti allo stesso modo. Gli stati che contano sono quelli in cui il risultato è incerto. In molti casi invece la partita è già decisa prima ancora del voto. Non sono solo i sondaggi a dirlo, ma soprattutto i risultati storici. Come si vede nella mappa in Figura 1, in sette stati (più il Distretto di Columbia) è certo che vinca Biden. Nel caso di Trump gli stati sicuri sono dieci. Aggiungendo a questi gli stati in cui è probabile o molto probabile che vinca l’uno o l’altro dei due contendenti arriviamo a quaranta stati in cui le elezioni sono praticamente già decise. Sono anni che a Ovest del Mississippi si muove poco o nulla dal punto di vista elettorale. Nel 2016 Clinton ha vinto esattamente gli stessi stati in cui aveva vinto Obama nel 2012 e nel 2008. Lo stesso si può dire a proposito degli stati del New England tradizionalmente democratici o quelli del Sud tradizionalmente repubblicani.

Fig. 1 – Variazioni tra 2016 e 2012. Voti nel collegio elettorale

La novità di questo anno è che gli stati contendibili sono più del 2016. È un segno della crescente volatilità dell’elettorato legata anche ai mutamenti demografici. Non solo Michigan, Wisconsin, Pennsylvania sono in bilico, ma anche Arizona, North Carolina, Georgia e Texas che una volta invece erano stabilmente nel campo repubblicano. E poi ci sono gli stati ballerini come Nevada, Ohio e Florida. In totale fanno 181 grandi elettori su 538. È in questi stati che si gioca la partita. Per Trump si tratta di una partita ancora più difficile di quella del 2016. Contando gli stati in cui la vittoria dell’uno e dell’altro è certa o probabile, Biden parte con una base di 232 grandi elettori contro i 125 di Trump. Gli ne mancano 38 per arrivare a 270 e diventare presidente. Gli basterebbe vincere in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania dove è nettamente favorito. È in vantaggio, ma con un margine minore, anche in Florida dove nel 2016 Trump ha vinto con l’ 1,2%. Se Biden vincesse in questo stato pivotale, con i suoi 29 voti, gli basterebbe vincere solo in Wisconsin per arrivare a 271. Insomma le combinazioni del puzzle con cui Biden può vincere sono numerose, più numerose di quelle a disposizione di Trump. Potrebbe addirittura stravincere. Ma i sondaggi non sono a prova di errore. Questa volta però, Biden non dovrà fare i conti con un fattore che invece ha gravemente danneggiato Clinton: il voto disperso.

Il voto disperso

Il 2016 è stata una elezione particolare anche per la entità del voto dato a candidati senza alcuna possibilità di successo. A livello nazionale sei milioni di elettori hanno votato per il candidato del partito Libertarian (Gary Johnson) o per la candidata dei Verdi (Jill Stein), il 4,4 % dei voti validi. Nel 2012 per gli stessi candidati avevano votato circa 1.750.000 elettori, l’1,4%. Ma quello che più conta è stato il risultato di questi due partiti in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. In tutti e tre questi stati i loro voti sono stati molti di più del 2012 e hanno fatto la differenza. Alla Clinton sarebbero bastati i voti dei Verdi per diventare presidente. L’entità ‘anomala’ del voto disperso è un chiaro segnale del fatto che, davanti a candidati molto sgraditi come Trump e Clinton, una quota marginale ma decisiva di elettori ha preferito votare figure terze. Questa volta il voto disperso tornerà su valori ‘normali’. Il suo declino favorirà Biden che è un candidato più gradito in assoluto rispetto alla Clinton e più gradito tra gli elettori libertari e verdi. Ma un fattore che avrà un impatto ancora più decisivo sul voto sarà l’affluenza alle urne.

Il rebus della affluenza

Nelle elezioni di medio-termine del 2018 i Democratici hanno conquistato la maggioranza dei seggi alla Camera grazie a un aumento eccezionale della affluenza. Tra le elezioni di medio-termine del 2014 e quelle del 2018 è passata dal 41,9% al 53,4 %, secondo i dati del US Census Bureau. In particolare sono andati a votare molti più giovani, più elettori appartenenti a minoranze etniche e più abitanti dei centri metropolitani. Sono tutte categorie che tendono a preferire il Partito Democratico. Il fenomeno potrebbe ripetersi il 3 Novembre e decidere l’esito. A favore di questa ipotesi gioca anche il fatto che, a differenza del 2016, il Partito Democratico oggi è unito nel sostenere il suo candidato. I sostenitori di Bernie Sanders non amano particolarmente Biden ma questa volta è molto probabile che non diserteranno le urne. La voglia di battere Trump trascende le differenze ideologiche.

Ma quale sarà l’impatto della pandemia sulla affluenza e quindi sul voto? È impossibile da prevedere. Per questo motivo i sondaggi devono essere presi con ancora maggiore cautela. In tutti i paesi occidentali è diventato difficile stimare i votanti ed è proprio questo il fattore principale che rende meno affidabile la stima delle intenzioni di voto. La pandemia rende tutto ancora più complicato. Però, il numero eccezionale di elettori che hanno già votato, in persona o per posta, fa pensare che il Covid non deprimerà l’affluenza. Al contrario, nonostante il Covid, queste elezioni, come quelle di medio-termine del 2018, potrebbero stabilire un record di votanti. Per i Democratici sarebbe una ottima notizia che renderebbe forse possibile anche la conquista della maggioranza dei seggi al Senato.

La base elettorale di Trump e il partito-setta

Trump non è particolarmente popolare (Figura 2). Non lo era nel 2016 e non lo è oggi. Nel corso della sua presidenza il giudizio positivo degli elettori sul suo operato è sempre stato intorno al 40%. Un valore basso, ma eccezionalmente stabile. Quello di Trump è un elettorato motivato e fedele. Nemmeno il Covid ne ha scalfito la fedeltà. Per il 56,6% degli elettori la sua gestione della pandemia è stata negativa. Ma non per i suoi elettori. Covid o no lo voteranno in maniera massiccia recandosi personalmente alle urne. Trump ha trasformato il Partito Repubblicano in una setta di cui lui è il guru indiscusso. Ed è proprio sulla mobilitazione della sua base che si fonda la sua strategia elettorale. Ma chi sono i suoi elettori? 

Fig. 2 – Giudizio sull’operato di Trump 

Sono prevalentemente elettori bianchi, soprattutto maschi e senza laurea. Vivono più in piccoli centri o in zone rurali che nelle grandi città. Sono religiosi, in particolare evangelici e contrari all’aborto. Vogliono meno tasse, meno immigrati e uno stato meno invadente. Sono affezionati alle loro armi. Vogliono un paese che pensa più ai propri interessi che a coltivare alleati. Ma il loro numero non è sufficiente per far vincere il loro capo. Trump ha vinto nel 2016 perché ha conquistato non solo il 90% degli elettori che si auto-definiscono Repubblicani ma anche la maggioranza relativa degli Indipendenti che sono circa il 40% dell’elettorato. È successo perché Clinton era straordinariamente poco gradita e a Trump è stato concesso il beneficio del dubbio. In fondo era l’uomo nuovo della politica americana.

Cosa è successo dal 2017 a oggi? Molti dati evidenziano l’erosione della sua base elettorale. Percentuali marginali ma decisive di donne bianche e di anziani sembrano averlo abbandonato a favore di Biden. Restano straordinariamente fedeli i bianchi senza laurea che rappresentano il nocciolo duro del suo consenso. Ma non bastano. Il voto degli Indipendenti sarà di nuovo importante. La maggioranza di loro però non è soddisfatta di come il presidente sta gestendo la pandemia. Non è una buona notizia per lui. E non c’è più la ‘antipatica’ Clinton a dargli una mano. Ma la storia non finisce qui.

Chi vincerà?

Il quadro che abbiamo tracciato fa pensare che Biden abbia una possibilità molto concreta di diventare presidente. Le probabilità sono a suo favore. Nate Silver del sito FiveThirtyEight le stima all’ 87%. Eppure, resta ancora il dubbio che una altra sorpresa possa essere dietro l’angolo. Come nel 2016. È vero che gli stati contendibili sono tanti e quasi tutti i sondaggi danno Biden in vantaggio. In particolare in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Ma non si tratta di un vantaggio decisivo, con l’eccezione del Michigan. E il fatto che i sondaggi di oggi, soprattutto a livello statale, siano di qualità superiore a quelli del 2016 non elimina completamente il dubbio. È vero anche che quest’ anno gli indecisi sono meno che nel 2016 e questo dovrebbe aumentare l’affidabilità dei sondaggi. Ma è anche vero che è difficile stimare quanti siano gli elettori di Trump ‘nascosti’, che i sondaggi non intercettano. Soprattutto è impossibile escludere del tutto che nella ultima fase della campagna elettorale non riaffiori prepotentemente tra gli elettori bianchi d’America, che sono ancora il 66 % della popolazione, quella rabbia che ha fatto vincere Trump nel 2016 e che è stata descritta in questi termini da P. Hart e D. McGinn: ‘un ampio settore della nostra società è profondamente, visceralmente arrabbiato… Le persone che hanno guidato questa rivoluzione non hanno nulla a che vedere con Washington, Los Angeles e New York.  Non vanno da Starbucks, non mandano I loro figli all’università, né guardano i programmi di NPR. Fanno i loro acquisti da Wal-Mart, mangiano da McDonald’s, e si interessano più degli sport a scuola che delle partite di football professionale. I loro redditi stanno diminuendo e non hanno fondi pensione. Pensano che i loro genitori e i loro nonni hanno costruito questo paese. E martedì notte hanno urlato a gran voce che lo rivogliono indietro’.

Questa volta però l’urlo potrebbe non bastare al presidente uscente per restare alla Casa Bianca. A decidere sarà l’affluenza al tempo del Covid. Se non lo faranno le corti, o addirittura la Corte Suprema, come nel 2000. Speriamo di no.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.