Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 dicembre
Ancora una volta tanto rumore per nulla. Periodicamente si torna a parlare di crisi di governo e di possibili elezioni anticipate senza tener conto della realtà. Sono i numeri a dirci che l’ipotesi di elezioni prima del 2023 è del tutto infondata. È vero che i numeri sottendono comportamenti razionali e gli umani, compresi i politici che siedono in Parlamento, spesso non lo sono. Ma quando si tratta di convenienze politiche ed economiche chiaramente definite è difficile che le emozioni sostituiscano il calcolo razionale. E questo è proprio il caso dell’analisi costi-benefici applicata alla eventuale decisione da parte della maggioranza degli attuali deputati e senatori di far cadere il governo da cui dipendono la loro sopravvivenza politica e, per molti di loro, la fortuna economica.
I numeri di cui parliamo sono quelli che si vedono nella Tabella 1.
Tab. 1 – Composizione stimata del parlamento in caso di nuove elezioni. Fonte: cise.luiss.it.
Oggi siedono in Parlamento (eletti nel 2018) 339 grillini, 181 leghisti, 162 forzisti, 50 fratelli, 165 democratici, 18 liberi-uguali. Dal 2018 il quadro politico è cambiato radicalmente. Sono cambiati i rapporti di forza tra i partiti come abbiamo visto alle Europee dello scorso anno, e come ci dicono i sondaggi attuali. E poi c’è stato il referendum costituzionale con cui gli elettori hanno approvato la riduzione dei componenti delle due camere. La combinazione di questi due fattori incide pesantemente sulle prospettive degli attuali deputati e senatori. E nel caso dei cinque stelle occorre aggiungere anche un terzo fattore: il limite dei due mandati.
Quindi, fatti i calcoli sia in base ai voti delle europee sia in base alla media dei sondaggi attuali l’unico partito destinato ad avere più seggi, se si votasse oggi, sarebbe Fratelli d’Italia. Per la Lega la differenza in meno sarebbe modesta. Per tutti gli altri le elezioni sarebbero un disastro. In particolare per il M5s e per Forza Italia. Il primo passerebbe dagli attuali 339 rappresentanti a poco più di 100. La seconda passerebbe da 162 a 55. Sono calcoli fatti utilizzando il sistema elettorale proporzionale in discussione in parlamento. Se utilizzassimo l’attuale sistema elettorale, la legge Rosato, le cose per i partiti di governo molto probabilmente andrebbero anche peggio. Quanto a Renzi (che oggi può contare su 30 deputati e 18 senatori), Calenda e Bonino, non compaiono nelle nostre stime perché la clausola del 5% e la stima della loro forza attuale li terrebbe fuori, a meno che non formino un cartello allo scopo di superare la soglia.
Questo è il quadro. Sono stime, ma affidabili. E soprattutto sono, a grandi linee, dati ben noti a chi siede alla Camera e in Senato oggi. È plausibile che alla luce di questi dati ci sia una maggioranza di deputati e senatori che voglia andare a votare sapendo che pochi di loro potrebbero tornare in Parlamento? Non è semplicemente razionale. La banale verità è che il taglio dei parlamentari ha stabilizzato la legislatura. Questo è un Parlamento destinato a durare.
Scartata l’ipotesi ‘elezioni anticipate’ resta in piedi l’ipotesi ‘nuovo governo’. L’attuale è un esecutivo debole dal punto di vista della coesione dei partiti che lo compongono e delle competenze che ha messo in campo, ma difficile da sostituire nonostante la sua intrinseca fragilità. In altre circostanze sarebbe caduto da un pezzo. Ma oggi non è così. Lasciamo perdere che una crisi in piena pandemia, che miri a sostituire un primo ministro che tutto sommato gode ancora di un discreto grado di fiducia, sarebbe incomprensibile a una buona fetta dell’elettorato. Quello che più conta è che una crisi potrebbe sfociare in quelle elezioni anticipate che tanti non vogliono. Per questo vale sempre la massima quieta non movere. Teniamoci Conte e teniamoci gli emolumenti attuali, con l’aggiunta della pensioncina che maturerà dopo quattro anni e mezzo di legislatura. Questo è il ragionamento di tanti deputati e senatori. Che questo coincida o meno con l’interesse del paese è una altra questione. E proprio l’interesse del Paese in caso di aggravamento della crisi e di paralisi della decisione politica potrebbe determinare uno sbocco inatteso con un governo molto diverso dall’attuale. Naturalmente senza nuove elezioni.