Sud chiama Nord? Voto e territorio nell’Italia del 2022

Uno degli aspetti più discussi in questi giorni sul voto di domenica 25 settembre riguarda il consenso dei partiti italiani sul territorio. La meridionalizzazione del Movimento Cinque Stelle (M5S), l’arretramento verso Nord della Lega dopo l’espansione di questi anni a Sud del Po e perfino del Tevere e la debolezza del Partito Democratico (PD) al di fuori delle ZTL sono solo alcuni degli argomenti al centro del dibattito post-voto. Argomenti su cui vale la pena di fare chiarezza guardando empiricamente al rapporto fra voto e territorio sotto diversi aspetti: la nazionalizzazione della competizione, la dimensione demografica dei comuni e le zone geopolitiche.

Fortissima territorializzazione del M5S, Lega sempre più nazionale

Il primo indicatore su cui ci focalizziamo è quello relativo alla nazionalizzazione del voto. Rispondiamo ad una semplice domanda: quanto è omogeneo il consenso ai partiti sul territorio? Bochsler (2010) ha sviluppato lo standardized Party System Nationalization Score (sPSNS) che ci fornisce questa sintetica informazione. Si tratta di un indice che oscilla fra 0 e 100, dove a valori alti corrisponde una maggiore omogeneità territoriale del consenso. Per ipotesi, se ciascun partito ottenesse esattamente la stessa percentuale di voto in ogni unità territoriale (nel nostro caso, le regioni italiane), l’indice ci darebbe un valore di 100. Come vediamo nella Figura 1, il livello di nazionalizzazione nel nostro paese è cresciuto nel corso della Seconda Repubblica fino al picco massimo del 1976, per poi declinare, soprattutto in corrispondenza della transizione fra Prima e Seconda Repubblica, quando l’emersione della Lega Nord ha ridotto drasticamente l’omogeneità territoriale del voto nel paese. Nel corso della Seconda Repubblica abbiamo poi assistito ad un graduale riassestamento dell’indice su valori relativamente alti, anche in chiave comparata. Infine, nel 2018, con l’inizio del processo di meridionalizzazione del M5S, l’indice è tornato a scendere, mostrando valori che indicano una regionalizzazione complessiva del consenso piuttosto marcata. Il 2022 risulta complessivamente in continuità con il 2018. Si nota solo una leggera crescita del valore dell’indice (da 0.822 a 0.833). Dal momento che il valore aggregato dell’indice è frutto della composizione dei valori individuali dei partiti (pesati per il rispettivo consenso elettorale), è utile scendere al livello delle singole liste per capire quali partiti hanno ottenuto un consenso più omogeneo e quali invece risultano marcatamente concentrati in una parte del territorio.

Figura 1. Nazionalizzazione del voto in Italia, Camera, 1948-2022.

Nota: in continuità con lavori precedenti (Emanuele 2015; 2018), sono stati considerati i partiti che hanno ottenuto almeno il 3% di voto a livello nazionale o almeno il 4% in una regione.

Fonte: nostre elaborazioni su dati del Ministero dell’Interno.

La Tabella 1 fornisce il dettaglio dell’indice di nazionalizzazione per le singole liste. Possiamo distinguere i partiti italiani in tre categorie fondamentali: nazionalizzati (sPSNS superiore a 0.85), regionalizzati (sPSNS compreso fra 0.45 e 0.85) e locali (sPSNS inferiore a 0.45). Fratelli d’Italia (FDI), cresciuto dal 4,4 al 26%, come quasi sempre accade ai i partiti in espansione, si è ulteriormente nazionalizzato rispetto al 2018 (da 0.878 a 0.902) e risulta essere oggi il partito con il consenso più omogeneo sul territorio italiano (nel 2018 questo ‘record’ apparteneva a Liberi e Uguali). Fra i partiti classificabili come nazionalizzati troviamo il PD, in crescita rispetto al 2018 (da 0.860 a 0.888) grazie al parziale recupero nel Sud, e Forza Italia che invece segue il trend opposto e accentua un po’ di più la propria concentrazione nelle regioni meridionali. Sebbene rimanendo sotto il 3% dei consensi, Più Europa fa segnare un forte incremento dell’indice (da 0.808 a 0.860) che le permette di entrare nel gruppo dei partiti nazionalizzati.

L’aspetto più interessante della tabella riguarda però i due partiti classificati come regionalizzati, la Lega e il M5S. Qui registriamo i cambiamenti più rilevanti rispetto al passato. Non è vero, come molti stanno dicendo, che la Lega si è rintanata nuovamente nelle regioni del Nord. In una fase di arretramento elettorale la concentrazione territoriale è solitamente l’esito più probabile (Caramani 2004). Tuttavia, non è questo il caso. Anzi, la Lega del 2022 registra il livello di nazionalizzazione più alto della sua storia politica: dopo essere stata un partito essenzialmente locale ai tempi della leadership di Bossi (con un sPSNS medio nel periodo 1992-2013 di 0.432, vedi Emanuele 2018, 195), la svolta nazionale di Salvini aveva portato l’indice di Bochsler a 0.713 nel 2018. Oggi la crescita dell’indice fino a 0.791 testimonia il fatto che l’arretramento elettorale è stato più forte nel Nord e ciò ha contribuito ad appiattire le differenze fra le diverse unità territoriali del paese. Il M5S registra invece una tendenza esattamente opposta. Al momento del suo primo boom elettorale, nel 2013, il partito di Grillo era il più ‘nazionalizzato’ della storia repubblicana insieme alla Democrazia Cristiana degli anni ‘50-’70 (Emanuele 2015). A partire dal 2018 abbiamo invece assistito all’avvio di un processo di profondo cambiamento, con la progressiva perdita dell’originale trasversalità territoriale a vantaggio di una sempre più marcata meridionalizzazione. Già nel 2018, con un sPSNS di 0.837, il M5S risultava il partito con il consenso più disomogeneo fra le principali forze politiche italiane e, in un’ottica diacronica, l’unico della storia del paese fra quelli con più del 20% dei consensi a mostrare un sPSNS inferiore a 0.850 (Chiaramonte e Emanuele 2018). Oggi il processo di meridionalizzazione si accentua ulteriormente e l’indice di nazionalizzazione mostra un crollo di 0.150 punti, un valore enorme per l’indice di Bochsler. Con 0.688, il partito di Conte è oggi a tuti gli effetti una forza politica regionalizzata. Infine, gli autonomisti altoatesini della SVP e la nuova lista ‘Sud chiama Nord’ di Cateno De Luca, capace di vincere il collegio di Messina sia alla Camera che al Senato, mostrano valori prossimi allo 0 dell’indice e si configurano chiaramente come partiti locali.

Tabella 1. La nazionalizzazione dei partiti italiani, Camera 2022.

La dimensione demografica: un’Italia di piccoli comuni, in cui domina la destra

L’analisi della nazionalizzazione del voto ci ha fornito un primo quadro interpretativo. Però, per capire davvero cosa è successo a livello territoriale, dobbiamo  scendere ad un più basso livello di dettaglio e ‘spacchettare’ il consenso ai partiti italiani dentro le diverse categorie territoriali. Sulla scorta di studi classici sul tema (Corbetta, Parisi e Schadee 1988; Spreafico e Caciagli 1990) e di nostre precedenti analisi (Emanuele 2011; Emanuele 2013a) abbiamo diviso i 7904 comuni italiani  in 5 categorie di dimensione demografica: i ‘microcomuni’ (fino a 5000 abitanti), i piccoli centri (fra 5000 e 15000), i comuni di cintura (15000-50000), i medi centri urbani (50000-100000) e le grandi città (oltre 100000 abitanti). Abbiamo poi distinto fra tre zone geopolitiche, il Nord, la (ormai ex) Zona rossa (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche) e il Sud (dal Lazio in giù, ma con l’esclusione di Roma che è stata considerata separatamente nell’analisi dal momento che per caratteristiche socio-economiche e culturali si distingue nettamente dal resto del Sud).

Se guardiamo al voto per dimensione demografica fra le due coalizioni principali, notiamo la riproposizione della tradizionale differenza fra blocco conservatore e progressista già osservato in tutte le elezioni precedenti. Questa volta, però, a differenza che in passato (vedi Emanuele 2013b), il distacco di oltre 18 punti a livello nazionale fra centrodestra e centrosinistra fa sì che la coalizione di Letta non riesca a sorpassare il centrodestra in nessuna categoria a livello nazionale. Tuttavia, come mostra la Figura 2, a fronte dei quasi 30 punti di distacco nei microcomuni (35 nei microcomuni del Nord), nelle grandi città meno di 3 punti separano le due coalizioni (e le grandi città della Zona rossa sono l’unica categoria in cui il centrosinistra è davanti). Queste differenze sono frutto di un andamento lineare molto chiaro del consenso al crescere dell’ampiezza demografica del comune: negativo per il centrodestra e positivo per il centrosinistra.

E qui si innesta una gigantesca distorsione nel modo in cui viene raccontato il paese nella narrazione mediatica: un enorme bias ‘urbano’ porta a pensare che le dinamiche politiche prevalenti nel paese siano quelle delle grandi città. Eppure, guardando freddamente i numeri, ci accorgiamo di quanto poco contino le grandi città rispetto ai comuni inferiori e di come, fondamentalmente, l’Italia rimanga ancora oggi un paese di piccoli comuni. Nelle città con oltre 100.000 abitanti (inclusa Roma) abita il 23,3% della popolazione contro il 40,1% che invece risiede in comuni inferiori ai 15.000 abitanti. Questi ‘rapporti di forza’ sono rimasti sostanzialmente immutati negli ultimi 15 anni (Emanuele 2011, 119). Un’Italia spesso trascurata e dimenticata ma che esiste e vota (solitamente a destra). Ma c’è di più: se ne facciamo una questione di voti validi, dalle grandi città (dove l’astensione è più alta) proviene appena il 18,1% dei voti. Le elezioni si vincono in provincia.

Figura 2. Voto alle due coalizioni per categoria di dimensione demografica dei comuni, Camera 2022.

Grandi città, piccoli centri e zone geopolitiche: le molte ‘Italie’ del 2022

Scendendo ancora nel dettaglio, la Tabella 2 riporta la percentuale di voti raccolta dai principali partiti italiani nelle cinque categorie di dimensione demografica (più Roma) sia nell’Italia nel suo complesso che nelle tre zone geopolitiche. Emerge un quadro per certi aspetti noto con alcuni profili di novità e l’immagine complessiva di un territorio nazionale frastagliato. Non c’è una sola Italia elettorale, ma molte e diverse. Al di là di alcune peculiarità residuali dovute a retaggi subculturali e vecchi radicamenti, si notano in particolare due linee di faglia che distinguono le traiettorie del consenso ai partiti: la frattura Centro-Nord vs. Sud (con la Zona rossa ormai sempre più assimilabile alle regioni settentrionali) e la frattura città-campagna. Da queste fratture emergono fondamentalmente tre ‘Italie’ che si differenziano nettamente circa il comportamento di voto degli elettori e il consenso dei partiti: l’Italia dei piccoli comuni, l’Italia delle grandi città del Centro-Nord e infine il Sud.

Tabella 2. Voto ai partiti per zona geopolitica e dimensione demografica dei comuni, Camera 2022.

Nota: Valle d’Aosta esclusa dall’analisi.

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT e Ministero dell’Interno.

I partiti della coalizione di centrodestra sono caratterizzati, come mostra la Tabella 3, da un profilo marcatamente ‘Village oriented’ (Emanuele 2011, 134): il loro consenso diminuisce monotonicamente all’aumentare dell’ampiezza demografica del comune. Se questa non è affatto una novità per la Lega, che da sempre ha nei microcomuni e nei piccoli centri le proprie zone di forza, lo è maggiormente per Forza Italia che in passato aveva mostrato un profilo ‘All around’, cioè sostanzialmente omogeneo fra le varie categorie di dimensione demografica. E anche FDI devia sensibilmente dal suo progenitore, Alleanza Nazionale, che invece aveva elle grandi città (del Sud in particolare) la propria zona di forza.

Appare evidente come nel caso di Forza Italia sia intervenuta una trasformazione radicale nel profilo del partito che ha perso posizioni nel Nord produttivo e si è ramificato sempre di più nel Sud, assumendo sostanzialmente il profilo di un partito notabiliare post-democristiano (Baccetti 2007), con un forte consenso nei piccoli comuni e un rapporto di franchising delle elite locali con il brand nazionale (Carty 2004). Il partito di Berlusconi supera il 12% nei microcomuni del Sud, quasi il triplo del consenso che ottiene invece a Roma.

Per quanto concerne FDI, invece, sembra sia intervenuto un radicale processo di sostituzione, soprattutto nel Nord: il partito di Giorgia Meloni è diventato il punto di riferimento di territori e gruppi sociali che in passato erano ancorati alla Lega. Solo così possiamo spiegare il profilo marcatamente village oriented di FDI, che ad esempio lascia sul campo 10 punti percentuali nel passaggio fra i microcomuni del Nord (un tempo cassaforte leghista) e le grandi città settentrionali. La Lega, che a differenza di quanto pensavano molti, non è scomparsa nel Sud (ha il 5,9%, più del Terzo polo), è però stata cannibalizzata da FDI nel Centro-Nord. Mantiene il suo profilo tipicamente rurale, con il 15% abbondante nei microcomuni del Nord, circa il doppio di quanto ottiene nei grandi centri della stessa area. Entrambi, sia la Lega che FDI, soffrono al Sud. Per FDI questo elemento segna una forte discontinuità con la tradizione della destra italiana: nel 1996 Allenza Nazionale era il primo partito nel Sud e dominava in particolare nelle grandi città. Oggi invece, il partito di Meloni si ferma al 18,5% nei grandi centri meridionali.

Il Mezzogiorno è, lo abbiamo già anticipato, l’area di forza del M5S. Da questa zona provengono 61 voti su 100 al partito di Giuseppe Conte. Per comprendere appieno la sovra-rappresentazione del M5S in quest’area del paese, basti pensare che al Sud è stato espresso il 35% del totale dei voti validi. Una sproporzione che raramente si è vista in partiti nazionali con un consenso superiore al 15%. Il profilo del partito, a livello nazionale, è rimasto sostanzialmente all around: l’area di maggior forza è ancora quella dei medi centri urbani, come già nel 2013 (Emanuele 2013a): Eppure, lo inseriamo come ‘City oriented’ perché nell’area chiave del suo consenso, il Sud, mostra una crescita monotonica fra microcomuni (21,4%) e grandi città (31,8%). Questo andamento è visibile, fatte le dovute proporzioni, anche al Nord, dove fra i microcomuni il partito di Conte registra la più bassa percentuale in assoluto fra le categorie prese in considerazione (6,5%)[1]. Nella Zona rossa, invece, il Movimento è indifferente alla dimensione demografica (oscilla tra il 10 e l’11% nelle diverse categorie).

Tabella 3. Partiti italiani e territorio: una sintesi

Il PD conferma il profilo urbano che ha mostrato senza eccezioni sin dalla sua fondazione (Emanuele 2011). Nelle grandi città del paese è il primo partito con il 23% (stessa percentuale di Roma dove però è superato da FDI). Nel Nord, dove il partito è complessivamente sotto la media nazionale (18,7% vs. 19,1%) è doppiato da FDI nei comuni inferiori ai 15.000 abitanti e invece risulta primo nelle grandi città con il 24,5%. Nella Zona rossa il partito di Letta mantiene una relativa sovra-rappresentazione in tutte le categorie, ma è battuto nettamente da FDI nei comuni inferiori ai 50.000 abitanti. Lo storico radicamento subculturale, che si traduceva in un profilo all around nelle regioni rosse, è ormai un ricordo del passato. Anche qui, come nel Nord, l’andamento del partito è di crescita monotonica verso le grandi città. Interessante infine notare che al Sud il profilo del partito ricalca esattamente quello delle elezioni precedenti. Sebbene si tratti di piccole oscillazioni rispetto alla media (15,3%, in crescita rispetto al 2018), il partito di Letta mostra una relativa sovra-rappresentazione non solo nelle grandi città (dove comunque è surclassato dal M5S che prende quasi il doppio dei suoi voti), ma anche nei microcomuni meridionali (16,6%), con un andamento a ‘U’ che veniva fatto registrare già dal Pds nel 1996 (Emanuele 2011, 124).

Oltre al PD, il gruppo dei partiti city oriented è popolato da altre tre liste che nella Prima Repubblica sarebbero state probabilmente chiamate con l’appellativo di ‘partiti laici’. La lista Sinistra-Verdi, Più Europa (+EU) e soprattutto la neonata compagine di Azione-Italia Viva (AZ-IV) raccolgono un voto ‘di opinione’ (Parisi e Pasquino 1977), prevalentemente urbano, concentrato nelle aree più avanzate del paese e composto in gran parte da ‘vincenti della globalizzazione’ (Kriesi et al. 2006). Tutte e tre le liste crescono monotonicamente dai microcomuni alle grandi città in tutte le zone geopolitiche, senza alcuna eccezione. E tutto questo avviene nella assoluta diversità dei programmi proposti agli elettori: Sinistra-Verdi e AZ-IV si sono scontrati per tutta la campagna elettorale e proponevano programmi radicalmente opposti sull’energia, l’ambiente e l’economia. Eppure si ritrovano sovra-rappresentati negli stessi ‘mondi’. Guardando al profilo di AZ-IV – la principale novità dell’offerta politica di questa tornata elettorale – si nota una doppia frattura, con una netta sovra-rappresentazione nel Centro-Nord e nelle grandi città e una relativa debolezza al Sud e nei piccoli centri. La lista di Calenda è quarta nel Nord (dove supera il M5S), nella Zona rossa (dove fa meglio della Lega) e a Roma (dove ottiene il 10,7%), mentre è solo sesta nel Sud, superata nettamente da Forza Italia e perfino dalla Lega (come poi anche a livello nazionale). Il Terzo polo oscilla fra il 4,8% nei microcomuni del Sud e il 12,1% delle grandi città del Nord, dove è la terza lista più votata dopo FDI e PD. Considerando insieme le tre liste di opinione, l’aggregato di Sinistra-Verdi, +EU e AZ-IV totalizza il 22,6% nelle grandi città del Nord (e sfiora il 20% anche nelle grandi città della Zona rossa e a Roma), mentre si ferma all’8,6% nei microcomuni del Sud.

Non sembra dunque esserci una risposta omogenea degli elettori alla crisi politica da cui è scaturita questa campagna elettorale estiva. Al contrario, abbiamo individuato almeno tre ‘Italie’ distinte. Nel quadro di una netta vittoria del centrodestra che ha nell’Italia dei piccoli comuni le sue roccaforti, distinguiamo almeno due territori di opposizione: da un lato le aree urbane del Centro-Nord, feudo del PD e dei partiti laici di opinione; dall’altro il Sud, cassaforte elettorale del M5S. L’impressione è che si tratti di tre ‘Italie’ che si stanno differenziando sempre di più dal punto di vista socio-economico e culturale e che di conseguenza sollevano domande diverse nei confronti della politica. Ricomporre le divisioni non sarà semplice.

Riferimenti bibliografici

Baccetti, C. (2007), I postdemocristiani. Bologna: Il Mulino.

Bochsler, D. (2010) ‘Measuring party nationalisation: A new Gini-based indicator that corrects for the number of units’, Electoral Studies, 29: 155–68.

Caramani, D. (2004), The nationalization of politics: The formation of national electorates and party systems in Western Europe. Cambridge: Cambridge University Press.

Carty, R. K. (2004), ‘Parties as franchise systems: The stratarchical organizational imperative’, Party Politics, 10(1): 5-24.

Chiaramonte, A. e Emanuele, V. (2018), ‘L’onda sismica non si arresta. Il mutamento del sistema partitico italiano dopo le elezioni 2018’. In: Emanuele, V. and Paparo, A. (eds.), Gli sfidanti al governo. Disincanto, nuovi conflitti e diverse strategie dietro il voto del 4 marzo 2018, Dossier CISE (11), Rome, Luiss University Press, pp. 143-152.

Corbetta, P., Parisi, A. e Schadee, H.M.A. (1988), Elezioni in Italia. Struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna: Il Mulino.

Emanuele V. (2011), ‘Riscoprire il territorio: dimensione demografica dei comuni e comportamento elettorale in Italia’, Meridiana – Rivista di Storia e Scienze Sociali, 70: 115-148.

Emanuele, V. (2013a), ‘Il voto ai partiti nei comuni: La Lega è rintanata nei piccoli centri, nelle grandi città vince il Pd’. In: De Sio, L., Cataldi, C. and De Lucia, F. (eds), Le Elezioni Politiche 2013, Dossier Cise (4), Rome, CISE, pp. 83-88.

Emanuele, V. (2013b), ‘Il voto alle coalizioni nei comuni: sotto i 50.000 abitanti Berlusconi è davanti, Bersani vince grazie alle città’. In: De Sio, L., Cataldi, C. and De Lucia, F. (eds), Le Elezioni Politiche 2013, Dossier Cise (4), Rome, CISE, pp. 77-82.

Emanuele, V. (2015), ‘Vote (de)-nationalisation and party system change in Italy (1948-2013)’, Contemporary Italian Politics, 7(3): 251-272.

Emanuele, V. (2018), Cleavages, institutions, and competition. Understanding vote nationalization in Western Europe (1965-2015), London: Rowman and Littlefield/ECPR Press.

Kriesi, H., Grande, E., Lachat, R., Dolezal, M., Bornschier, S., e Frey, T. (2006), ‘Globalization and the transformation of the national political space: Six European countries compared’, European Journal of Political Research45(6): 921-956.

Parisi, A. e Pasquino, G. (a cura di) (1977), Continuità e mutamento elettorale in Italia: Le elezioni del 20 Giugno 1976 e il sistema politico italiano. Bologna: Il Mulino.

Spreafico, A. and Caciagli, M. (1990). Vent’anni di elezioni in Italia: 1968-1987. Liviana.



[1] Come mostra la Tabella 3, inoltre, il rapporto fra lo scarto tra massima (31,8%) e minima (6,5%) performance e la media nazionale del M5S (15,4%)  è di 1,64, la più alta fra i partiti italiani.