Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 1 giugno 2023
L’elezione diretta del premier, invece della elezione diretta del presidente della repubblica, sembra essere l’opzione preferita del centro-destra in tema di riforma costituzionale. Per ora questa è la sola indicazione emersa. Per arrivare a un progetto compiuto ci sono da risolvere quattro problemi.
Il primo è il collegamento tra elezione del premier e quella del Parlamento. Questo chiama in causa il sistema elettorale. Senza questo collegamento si rischia di eleggere un premier senza una maggioranza di governo. Visto che l’obiettivo della riforma è la stabilità dell’esecutivo, come condizione necessaria di governabilità, la questione è molto rilevante. A livello di comuni e di regioni, dove il capo dell’esecutivo è eletto direttamente dai cittadini, il problema è stato risolto abbinando alla elezione diretta un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza tale da garantire, quasi sempre, alla lista o alla coalizione del sindaco e del presidente eletto la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio.
Il secondo problema è la modalità di elezione del premier e della maggioranza. Nei comuni per vincere occorre arrivare al 50% dei voti al primo turno. Se nessuno ce la fa, i due candidati più votati si affrontano in un secondo turno. Questo è il ballottaggio classico. Nelle regioni la situazione è più variegata ma in generale prevale il sistema a turno singolo. A livello nazionale quale sarà la formula? Se si adottasse il turno singolo si corre il rischio di avere un premier eletto da una minoranza, anche solo il 30% o meno. È ragionevole che si punti al doppio turno. Ma vista la opposizione del centro-destra al ballottaggio classico, la soluzione più realistica, ma non la migliore, è il ballottaggio eventuale. Si fissa una soglia, diciamo il 40%, e se nessuno ci arriva scatta il secondo turno cui accedono i due candidati più votati al primo.
Il terzo problema è il rapporto tra premier eletto e la sua maggioranza. Sia nei comuni che nelle regioni sindaco e presidente possono essere sfiduciati dai rispettivi consigli ma in questo caso si torna alle urne. È questo il meccanismo che effettivamente stabilizza l’esecutivo. Succede, ma molto raramente, che i consiglieri arrivino al punto di rinunciare al seggio e affrontare una nuova campagna elettorale pur di liberarsi di un sindaco o di un presidente diventati sgraditi. Ma questo meccanismo irrigidisce tutto il sistema. Né può essere sostituito dalla sfiducia costruttiva. Infatti se premier e maggioranza sono eletti insieme sarebbe comunque una violazione della volontà popolare la formazione di un governo con lo stesso premier e una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne. E se non andiamo errati il rispetto della volontà popolare è, insieme alla ricerca della stabilità, uno degli obiettivi della riforma. Aggiungiamo, in tema di rigidità del modello, che nei comuni e nelle regioni anche le dimissioni per qualunque motivo di sindaco e presidente comportano elezioni anticipate. Questo problema però si potrebbe risolvere prevedendo che ai candidati alla sindacatura e alla presidenza si affianchino al momento del voto dei vice che subentrerebbero in caso di necessità.
Il quarto problema sono i poteri del premier eletto direttamente. Questo chiama in causa il rapporto con il presidente della repubblica. Oggi tra i poteri del capo dello stato tra i più rilevanti ce ne sono due: il potere di nominare il premier e i ministri e quello di sciogliere le camere. In una forma di governo in cui il premier è eletto direttamente dai cittadini va da sé che il presidente perde il potere di nominare il premier. Ma perderebbe anche quello di nominare i ministri? Ma soprattutto cosa succederà al potere di scioglimento? Resta in capo al presidente della repubblica oppure verrà condiviso tra lui e il premier o addirittura verrà trasferito tout court al premier?
È evidente che fino a quando il centro-destra non darà una risposta a queste domande, oltre alle altre questioni sollevate sopra, non si potrà dare un giudizio sul suo progetto di riforma costituzionale. Quello che si può dire oggi è che l’orientamento è quello di adottare anche a livello nazionale quel “modello italiano di governo” che è stato introdotto a livello sub-nazionale negli anni novanta. È un modello originale che nei comuni e nelle regioni funziona, ma la sua trasposizione a livello nazionale comporta problemi di non facile soluzione. L’alternativa, una volta scartata la strada del presidenzialismo e del semi-presidenzialismo, è quella di una razionalizzazione del modello introdotto prima con la legge Mattarella e poi con la legge Calderoli. Questa razionalizzazione si chiama Italicum. Con questo sistema il premier è eletto ‘direttamente’ dai cittadini ma può essere sfiduciato dalle camere senza tornare necessariamente alle urne. È un modello quindi più flessibile e non comporta una revisione dei poteri del presidente della repubblica.