Trump e Il prezzo delle uova

Sarà il prezzo delle uova a decidere l’esito delle presidenziali USA ? Potrebbe essere così. E in fondo non sarebbe una grande novità. E’ un fatto ben noto che le elezioni USA sono da tempo profondamente influenzate dall’andamento della economia. It is the economy, stupid ! è l’espressione diventata proverbiale con cui si usa far riferimento al peso del fattore economico sul voto. Questa volta però siamo di fronte a un apparente paradosso. L’economia americana va bene. Ma gli americani non sono contenti. Quasi il 70 % pensa che il paese vada nella direzione sbagliata. Tutto ciò in un momento in cui l’ecomia cresce a tassi ben superiori a quelle di Germania, Giappone,Italia- Il Pil Usa è salito del +8,7% dai livelli prepandemici-la disoccupazione è ai minimi storici, il numero degli occupati segna un record:biden ha creato15 milioni di posti di lavoro contro i 6 milioni di Trump. La borsa di New York continua a macinare rialzi:dal 20 Gennaio 2021 data di insediamento del presidente Biden a giovedì scorso 24 ottobre, l’indice Dow Jones è salito del 50,7%, l’S&P500 del 35,7% e il Nasdaq del 51,9%. Eppure la percezione diffusa soprattutto tra le classi più deboli è che si stava meglio quattro anni fa quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump. Ed è qui che entra in gioco il prezzo delle uova. Agli elettori e alle elettrici che vanno a fare la spesa quotidianamente non interessano i dati macroeconomici che vengono utilizzati per dimostrare il successo della Bidenconomy. Per loro conta il prezzo dei beni essenziali come le uova per l’appunto. Una dozzina di uova costava $ 1,60 a Gennaio 2017, quando si è insediato Trump, a Settembre di questo anno è arrivato a costare $ 3,8 , più del doppio e ben più del tasso di inflazione registrato nel periodo. Quello che è successo al prezzo delle uova è successo al prezzo della pancetta ed altri beni dii largo consumo, compresa la benzina. Ed è successo al costo del denaro che ha inciso pesantemente sul costo dei mutui e dei debiti contratti con le carte di credito. La conseguenza è stata la riduzione del potere di acquisto delle classi più deboli. Una riduzione che non è stata al momento ancora compensata da un aumento dei salari che pure c’è stato, ma in misura insufficiente e non uniforme. E allora non c’è da sorprendersi se agli operai bianchi degli stati del Midwest che hanno da tempo abbandonato il partito democratico si stanno aggiungendo, come rivelano da tempo, anche pezzi dell’elettorato nero e ispanico. Anche per loro far quadrare i conti della spesa è diventato difficile. Insomma è un dato di fatto che l’inflazione è uno dei fattori che spinge il consenso verso Trump. Ed è difficile per la Harris controbattere che inflazione e tassi di interesse sono scesi e continuano a scendere, ma non è così per il livello dei prezzi dei beni essenziali. Il prezzo delle uova oggi è ancora ben superiore a quello dei tempi di Trump. Né serve l’argomento che il governo non ha responsabilità specifiche per una inflazione che è lo strascico della pandemia. Per una larga fetta dell’elettorato la loro colpa è di essersi trovati al potere quando il problema è scoppiato. Il fatto che il governo non avesse strumenti per gestirlo è irrilevante. Lo strumento era in mano alla banca centrale che ha aumentato il costo del denaro a livelli che non si vedevano da moltissimo tempo con le conseguenze politiche negative di cui abbiamo già detto. E anche questo viene addebitato a chi era al potere senza tener conto che il governo non può condizionare la banca centrale. It’s politics, stupid!

E poi c’è l’immigrazione, altro grave problema per la Harris e il partito democratico. Insieme alla inflazione il tema è in cima alle preoccupazioni dell’elettorato. I dati ufficiali, come si vede nella tabella in pagina, sono impietosi. Durante l’amministrazione Trump gli immigrati illegali non hanno mai superato i 150.000 ingressi mensili. Per la maggior parte del periodo sono stati meno di 50.000 e la media è stata largamente sotto le 100.000 unità. Durante gli anni di Biden la media degli ingressi si è alzata notevolmente fino a quando, a Giugno di questo anno, Biden si è deciso ad adottare una politica più restrittiva che ha drasticamente ridotto gli ingressi probabilmente anche grazie alla cooperazione del governo messicano. Troppo tardi però per far cambiare idea a tanti elettori per cui l’immigrazione è un problema cruciale. La credibilità non si può conquistare con repentini cambi di direzione, eseguiti tra l’altro dagli stessi leader che fino a ieri sostenevano una politica diversa.

Arrivati a questo punto la conclusione sembrerebbe scontata. In realtà lo è solo per gli scommettitori che danno Trump vincente con il 60 % di probabilità. I dati di sondaggio raccontano una altra storia. Che siano attendibili o meno lo scopriremo la notte del 5 Novembre. In passato non lo sono stati perché hanno sistematicamente sottovalutato Trump. Questa volta potrebbe essere il contrario. In questo momento la partita sembra ancora aperta e si giocherà in Nevada, Arizona, Georgia , North Carolina, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Sono questi i ‘magnifici sette’ che decideranno chi sarà il prossimo presidente USA. In questi sette stati la media aggiornata dei sondaggi calcolata da Real Clear Politics dà Trump davanti con margini un pochino più ampi nei primi quattro e meno ampi negli altri, quelli del Midwest. Se li conquistasse tutti, la sua vittoria sarebbe nettissima, come è stato nel 2016. Ma potrebbe succedere che Harris vinca in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, oltre che negli altri stati tradizionalmente democratici (vedi Sole 2 e 12 Aprile 2024). in questo caso arriverebbe a 269 seggi. Le mancherebbe un voto per diventare presidente. E questo potrebbe venire dal Nebraska, uno stato decisamente repubblicano. Questo è uno dei due stati (l’altro è il Maine) dove i seggi del collegio elettorale non vengono assegnati con un sistema completamente maggioritario. Quattro dei cinque seggi a disposizione andranno sicuramente a Trump. Ma il quinto seggio, quello della città di Omaha, la città di Warren Buffet , è possibile che vada alla Harris. Sarebbe un risultato clamoroso che creerebbe una situazione molto delicata in un paese profondamente diviso.

Roberto D’Alimonte (1947) è professore ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli dove insegna Sistema Politico Italiano. Dal 1974 fino al 2009 ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato come visiting professor nelle Università di Yale e Stanford. Collabora con il centro della New York University a Firenze. I suoi interessi di ricerca più recenti riguardano i sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto in Italia. A partire dal 1993 ha coordinato con Stefano Bartolini e Alessandro Chiaramonte un gruppo di ricerca su elezioni e trasformazione del sistema partitico italiano. I risultati sono stati pubblicati in una collana di volumi editi da Il Mulino: Maggioritario ma non troppo. Le elezioni del 1994; Maggioritario per caso. Le elezioni del 1996; Maggioritario finalmente? Le elezioni del 2001; Proporzionale ma non solo. Le elezioni del 2006; Proporzionale se vi pare. Le elezioni del 2008. Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli apparsi su West European Politics, Party Politics, oltre che sulle principali riviste scientifiche italiane. E’ membro di ITANES (Italian National Election Studies). E’ editorialista de IlSole24Ore. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.