Quelle in Germania sono state elezioni da record: l’affluenza più alta di sempre dalla Riunificazione (82,5%), un partito di estrema destra (l’AfD) che supera per la prima volta il 20%, il peggior risultato da fine Ottocento nella storia ultrasecolare della Spd. Com’è potuto succedere? Quali temi si sono rivelati decisivi nella campagna elettorale? Cosa dovrebbe fare, con una maggioranza risicata al Bundestag, la Grosse Koalition (Cdu e Spd) a guida Merz per recuperare il consenso perduto? Nella nuova puntata di Telescope diamo risalto a spunti e interventi raccolti nel nostro evento alla Luiss dello scorso 6 marzo, apertosi con la relazione della Professoressa Sorina Soare (Università di Firenze) e a cui è seguita la discussione con i Professori Lorenzo De Sio e Roberto D’Alimonte (Luiss Guido Carli), Sylvia Kritzinger (Università di Vienna) ed il giornalista Michael Braun (Die Tageszeitung).
Riunificata, ma ancora divisa
Nel giro di pochi anni, la Germania ha visto sgretolarsi le proprie certezze: l’energia prodotta col gas a basso costo della Russia, l’economia trainata (anche) dagli stretti rapporti commerciali con la Cina, la difesa garantita dagli Stati Uniti. In tutto ciò il sistema politico – incentrato su due grandi partiti mainstream (Cdu/Csu e Spd) – aveva cominciato, già molto tempo prima, a perdere pezzi ed indebolirsi. Fino al 2005 la stabilità infatti era garantita da uno schema fondamentalmente bipolare, in cui cristiano-democratici e socialdemocratici governavano alternandosi, forti di una rete di alleati intercambiabili o esclusivi. Un antidoto all’iper frammentazione, inoltre, è sempre stata l’alta soglia di sbarramento per le liste al 5%. A partire dal 2005, all’inizio dell’era Merkel, le cose cambiano: i due grandi partiti perdono voti, scendendo sotto al 70% e trovandosi costretti a formare insieme una grande coalizione. Da lì in poi prima la Spd e dopo la Cdu finiranno per ridimensionarsi. Alle ultime elezioni hanno preso insieme meno del 45%. Un risultato su cui pesa in particolare la débâcle della Spd al 16,4%: 9,3 punti in meno rispetto al 2021, mai così in basso dal 1890. La Cdu invece, pur recuperandone 4,4, registra comunque il proprio secondo peggior risultato di sempre (28,5%). Il centro si è eroso e la polarizzazione è aumentata, con la crescita di partiti challenger, ormai non più periferici, nella sinistra (Die Linke, Bsw) come nella destra (AfD) radicale, specialmente nei Länder dell’ex Germania dell’Est. La mappa elettorale del 2025 ne dà una chiara dimostrazione, segno che, se pure riunificate da 35 anni, le due Germanie continuano ad essere due mondi a sé. I cittadini dell’Est guardano con risentimento all’Ovest a causa delle politiche di privatizzazione e deindustrializzazione adottate dopo il 1990, che hanno generato malcontento e disoccupazione. La fiducia nella politica tradizionale è bassa: basti pensare che, nella zona orientale, la metà dei sindaci non è affiliata ad alcun partito.
Una campagna nel segno dell’immigrazione
Negli anni ’80 appena il 15% dei tedeschi decideva per chi votare all’ultimo minuto, una percentuale salita ora a quasi il 50%. L’opinione pubblica, come visto nell’ultima campagna elettorale, sa rivedere in fretta le proprie priorità. Quando a dicembre 2023 il governo Scholz giunge al capolinea il tema ritenuto più importante dai cittadini era l’economia (34%), con l’immigrazione al secondo posto ma con ampio distacco (23%). A febbraio, ormai in prossimità del voto, quest’ultima aveva acquisito tuttavia molta più rilevanza (42%), per poi scendere nuovamente ad elezioni finite (26%). Nessuna forza come l’AfD ha saputo capitalizzare così bene la questione migratoria, divenuta centrale nel dibattito politico tedesco dopo che nel 2015 Merkel decise di accogliere centinaia di migliaia di stranieri, per lo più profughi siriani. L’AfD era nato come partito anti-euro e nelle sue prime elezioni federali (2013) aveva mancato per poco l’accesso al Bundestag (4,7%). In quelle successive (2017), le prime dopo l’apertura delle frontiere voluta dall’ex cancelliera, finirà per triplicare i propri voti (12,6%), usando come cavallo di battaglia proprio l’immigrazione. Oggi alla Cdu di Merz, che si trova su posizioni culturalmente più conservatrici di quanto fosse con Merkel, spetta il compito di dare una risposta al fenomeno in linea col maggior rigore richiesto dall’opinione pubblica. Lo stesso vale per il partner di governo, la Spd, sulla scia dell’esempio dei socialdemocratici danesi, capaci di rivincere le elezioni affrontando il tema con una narrazione diversa e una gestione più severa dei flussi. Sarà uno dei banchi di prova fondamentali per il nuovo governo di Berlino. Una questione che non tocca solo la sicurezza, ma anche il dibattito relativo a diritti e integrazione di chi è già nel Paese: in Germania 11,4 milioni di cittadini stranieri residenti non possono votare alle elezioni federali.
Flussi di voto: il caso degli elettori rimobilitati
Le elezioni tedesche del 2025 verranno ricordate anche perché l’affluenza, al contrario di quanto generalmente avviene in Europa, è aumentata, e pure in modo sensibile (+5,9% sul 2021). Guardando ai flussi elettorali vediamo che diversi partiti sono stati capaci di rimobilitare ex elettori astenuti. L’AfD lo ha fatto più di tutti, e la ragione è presto detta: un partito challenger, dopo essere comparso sulla scena e aver acquisito riconoscibilità, riesce spesso a catalizzare meglio una parte di non elettori che in quel partito vedono una soluzione per rompere gli schemi. È successo, ad esempio, in Italia col Movimento Cinque Stelle, la cui affermazione ha contribuito a contenere l’astensione sia alle elezioni del 2013 che del 2018. Un effetto poi svanito negli anni successivi, dopo essersi “normalizzato” stando al governo.
Scendendo nel dettaglio del voto per fasce socio-economiche, l’AfD ha conquistato il 38% tra gli operai e il 35% tra i disoccupati, andando sotto al suo risultato (20,8%) tra pensionati e impiegati pubblici. Il voto per età presenta invece le differenze più profonde: tra i 18-24enni l’Afd ha preso il 21% e la Linke addirittura il 25%, cioè quanto Cdu (13%) ed Spd (12%) messe insieme. I due grandi partiti mainstream, al contrario, toccano quasi il 70% tra gli over 70, dove AfD (10%) e Linke (5%) si fermano al 15%. Per cristiano-democratici e socialdemocratici, questi dati non possono che costituire un campanello d’allarme sulla loro futura appetibilità elettorale.
La cultura del compromesso e le risposte che servono
La Germania ha dimostrato, ancora una volta, di possedere una risorsa politica estranea ad altri Paesi europei: la disponibilità al compromesso. Se Berlino avrà presto un nuovo governo è perché la Spd, dopo averlo guidato per quattro anni, è disposta ora – nonostante due milioni di voti persi – a tornarci come partner della Cdu, anziché andare all’opposizione. Non era affatto scontato. Ma attenzione: questa cultura politica del saper venire a patti è una risorsa, non un valore in sé. In democrazia i governi costruiscono la propria legittimità se riflettono un orientamento chiaro che emerge dal voto. Il governo Scholz è naufragato tra le divisioni della coalizione semaforo formata da socialdemocratici, verdi e liberali. La nuova Grosse Koalition di Merz avrà in Parlamento una maggioranza limitatissima, di appena 13 seggi, resa possibile perché un partito – il nuovo Bsw di Sahra Wagenknecht – non è entrato nel Bundestag per un soffio (lo 0,03%, pari a 13.344 voti). Ecco perché, come già anticipato, la strada maestra non potrà che essere quella di incorporare nell’azione di governo alcune delle domande degli elettori dei partiti challenger (in primis l’AfD). L’addio all’austerity, con la riforma costituzionale appena approvata che toglie il freno al debito stanziando, tra le altre cose, un fondo speciale di 500 miliardi di euro in 12 anni per modernizzare le infrastrutture, è un primo segnale che va in questa direzione. Ed è curioso che a farsene carico sia stato proprio Merz, ovvero l’erede politico dell’ex ministro delle finanze rigorista Wolfgang Schäuble. Si tratta di scelte politiche inimmaginabili fino a ieri, il cui impatto – come sempre accade con la Germania – non sarà contenuto ai suoi confini nazionali, ma avrà ripercussioni sul futuro e le politiche dell’Europa.