Autore: Redazione CISE

  • Portogallo al voto per la terza volta in tre anni: boom della destra e fine del bipolarismo?

    Portogallo al voto per la terza volta in tre anni: boom della destra e fine del bipolarismo?

    Una vittoria senza maggioranza per il centrodestra, un crollo rovinoso per i socialisti, un’ascesa ormai consolidata per la destra radicale: cosa racconta davvero il voto in Portogallo? A chi ha parlato Chega e da dove ha preso i suoi consensi? Che prospettive si aprono per una sinistra in crisi identitaria? Un nuovo ciclo politico sta cambiando il volto della democrazia portoghese? Nella nuova puntata di Telescope approfondiamo le recenti elezioni lusitane, grazie alle presentazioni – svolte lo scorso 16 giugno in un webinar dedicato sul tema – degli accademici dell’Institute of Social Sciences dell’Università di Lisbona Pedro Magalhães e Hugo Ferrinho Lopes. Ringraziamo entrambi per il loro contributo. 

    La terza elezione in tre anni 

    In Portogallo si è votato per la terza volta in tre anni. La caduta del governo Montenegro, travolto da uno scandalo dovuto a pagamenti che un’azienda guidata dal primo ministro (Spinumviva) aveva continuato a ricevere dopo l’inizio del suo mandato, ha riportato il Paese alle urne il 18 maggio. Malgrado l’instabilità, la campagna elettorale si è svolta in un contesto economico (aggregato) favorevole: crescita del PIL al 2,2%, discesa dell’inflazione sotto il 2%, avanzo di bilancio l’anno scorso. Tuttavia, quasi la metà dei portoghesi continuava a percepire un peggioramento delle proprie condizioni economiche, segno di una persistente disconnessione tra i dati macroeconomici aggregati e l’esperienza quotidiana della maggior parte dei cittadini. A febbraio del 2024, cioè poche settimane prima del precedente voto del 10 marzo, quasi il 60% degli elettori riteneva fosse “tempo di cambiare”. A maggio del 2025, in una nuova e ravvicinata campagna elettorale, la percentuale era solo leggermente inferiore. 

    In queste ultime elezioni il centrodestra (Alleanza Democratica), il cui perno è il Partito Social Democratico, è riuscito a confermare il primato con circa un terzo dei voti e 90 seggi su 230; nonostante la vittoria, non ha ottenuto tuttavia la maggioranza assoluta. Ma il vero terremoto è arrivato da Chega (“Basta!”): il partito di destra radicale ha conquistato 60 seggi, superando per la prima volta i socialisti (58 seggi) e diventando la principale forza di opposizione. In soli sei anni, Chega è passato dall’1,3% al 24%: una crescita poderosa che sta mettendo in crisi il bipolarismo portoghese, seguendo una dinamica simile a quanto visto in altri Paesi, dove la crescita della destra radicale ha ristrutturato i sistemi partitici in senso tripolare (Francia, Spagna, Austria, Svezia e forse nel prossimo futuro anche il Regno Unito).  

    Una campagna segnata da scandali, proteste e blackout 

    La campagna elettorale si è giocata su temi come l’economia, la sanità pubblica e l’emergenza abitativa. Su questi ultimi due, i dati di opinione mostrano come i cittadini portoghesi li ritengano problemi più urgenti rispetto a quanto registrato nella media europea. Hanno pesato anche le vicende che hanno riguardato i leader politici. Il caso Spinumviva ha colpito direttamente il premier uscente, mentre il candidato socialista è finito sotto i riflettori per sospette speculazioni immobiliari. Anche la destra radicale ha avuto i suoi scossoni: il leader di Chega, André Ventura, è svenuto in due comizi, ed è finito sotto inchiesta per incitamento all’odio dopo dichiarazioni contro le comunità rom. Nel mezzo della campagna, un blackout elettrico ha paralizzato il Paese, con effetti simbolici forti su una campagna sempre più digitalizzata. Anche la disinformazione ha avuto un ruolo chiave: secondo i dati, Chega è stata il principale canale di fake news, soprattutto su corruzione e immigrazione, amplificate da una rete massiccia di bot. Circa il 70% dei portoghesi ha dichiarato di temere l’impatto della disinformazione sulle elezioni. Infine, sebbene non occupi ancora una posizione particolarmente elevata in termini relativi, sia rispetto ad altri Paesi che ad altre tematiche, l’immigrazione è stata una presenza costante nei notiziari e sui social media, in seguito al rinnovato insistere di Chega su questo tema. Come accaduto altrove, il governo di centrodestra si è adeguato difendendo un approccio più restrittivo e regolamentato, e persino i Socialisti sono arrivati ad ammettere errori nelle politiche adottate durante il loro recente periodo di governo.  

    Un sistema partitico sempre più frammentato 

    Le elezioni del 2025 confermano una tendenza già emersa nel 2024: il Parlamento portoghese è oggi più frammentato che mai. La somma dei seggi di PS (Partito Socialista) e AD non raggiunge i due terzi dell’Assemblea: un dato storico, che impedisce anche la modifica costituzionale senza il consenso di altri attori. La formula bipartitica è finita: oltre a Chega, anche forze minori come Iniciativa Liberal, Livre e il partito regionalista di Madeira JPP hanno trovato spazio, segnando un pluralismo più marcato ma anche più instabile. 

    Geograficamente, Chega ha vinto in 60 municipi, molti dei quali storicamente rossi, ed è risultato il partito più votato in Algarve e nei distretti di Beja, Portalegre e Sétubal. È diventato un partito nazionale, radicato nelle zone rurali ma capace di attrarre consensi diffusi. I socialisti, invece, hanno perso terreno ovunque. L’analisi dell’inferenza ecologica basata su dati a livello municipale sembra confermare che Chega abbia guadagnato soprattutto da ex elettori di sinistra del PS, e non dalla coalizione di centrodestra AD, smentendo l’idea di una semplice ricomposizione del campo più conservatore. Chega ha attratto anche voti da astensionisti nel 2024, molti meno nel 2025.  

    Chi vota chi: divari generazionali, di genere e di istruzione 

    Il voto portoghese evidenzia divari sociopolitici marcati. Chega ottiene più voti tra gli uomini e tra gli elettori non laureati. Il Partito Socialista resiste tra le donne, ma perde sostegno su tutta la linea. L’elettorato con basso livello d’istruzione appare particolarmente sensibile a un discorso culturalmente conservatore, terreno su cui Chega ha costruito parte del proprio consenso. I socialisti, che attraevano questi elettori, si trovano ora penalizzati: stanno perdendo voti a favore di una forza che ha spostato il conflitto politico su dimensioni identitarie e valoriali. A differenza di altri contesti europei, il Portogallo presenta ancora una relazione tradizionale tra istruzione e voto: le persone più istruite tendono a votare di più per i partiti conservatori. Le ragioni sembrano essere almeno due: da un lato lo sviluppo limitato di una classe media istruita, dall’altro l’effetto della crisi economica che aveva ridefinito i riferimenti culturali e politici delle fasce popolari. Il centrodestra, infatti, ottiene ora risultati migliori tra gli elettori più anziani e istruiti recuperando il terreno perduto durante la crisi economica iniziata nel 2008, quando le misure di austerità penalizzarono maggiormente i pensionati. I giovani si dividono tra Livre e Iniciativa Liberal, mentre il Blocco di Sinistra perde consensi anche tra gli under 35.  

    Che governo ci aspetta? 

    Luís Montenegro resta premier, ma guida ancora una volta un governo di minoranza. Ha escluso qualsiasi accordo con Chega, mantenendo un “cordone sanitario”, e si prepara a negoziare sui singoli provvedimenti. Lo scenario è quindi quello di un esecutivo fragile, costretto a cercare sponde da una parte e dall’altra. Chega, divenuto leader dell’opposizione, potrà cavalcare una visibilità mediatica inedita, mentre il Partito Socialista affronta una crisi identitaria e di leadership. 

    In sintesi, il voto del 2025 segna un cambio di fase: la fine del bipolarismo, la normalizzazione della destra radicale, la fragilità strutturale di maggioranze parlamentari. In questo scenario, l’interrogativo non è solo su chi governerà, ma su come reggere l’urto di un sistema sempre più instabile e polarizzato.  

  • Referendum e flussi elettorali: vota (quasi) solo il centrosinistra, ma sulla cittadinanza Pd e M5s si dividono

    Referendum e flussi elettorali: vota (quasi) solo il centrosinistra, ma sulla cittadinanza Pd e M5s si dividono

    L’affluenza ai referendum sul lavoro e sulla cittadinanza è stata un flop? Quali spunti di riflessione possono trarre partiti e coalizioni? Cosa emerge dai flussi elettorali rispetto alle europee dell’anno precedente? E come si spiegano le differenze territoriali? In questa puntata di Telescope proviamo a rispondere con un’analisi dei primi dati disponibili. Infine, tireremo anche le somme del secondo turno delle amministrative, che non ha cambiato granché gli equilibri esistenti nel complesso dei 32 Comuni superiori al voto. 

    Il quorum: un obiettivo fallito 

    L’affluenza ai referendum si è fermata al 30,58%, ben lontana dal 50% necessario per superare il quorum. La soglia – tranne che in due casi – non viene più raggiunta ormai dal 1995. Il risultato apre interrogativi sulla tenuta dello strumento referendario in Italia e alimenta la riflessione su un possibile abbassamento del quorum: al 40%, come proposto tra gli altri da Roberto D’Alimonte, o anche alla metà più uno dei votanti delle ultime elezioni politiche, come proposto da altri studiosi. La mobilitazione, come ci dimostrerà l’analisi dei flussi elettorali, è rimasta quasi completamente confinata a una sola parte politica. Le differenze territoriali nella partecipazione, invece, sono risultate meno marcate che nelle elezioni più recenti. Basti vedere il confronto tra Nord e Centro-Sud (con le isole), col dato che varia di appena 2 punti in favore del primo (30,3% contro 28,2%). Alle politiche e alle europee la differenza era stata ben più alta, pari cioè a 11 punti. La zona in cui si è votato di più, anche stavolta, è stata l’ex Zona Rossa (37%), comunque al di sotto della soglia richiesta dal quorum. 

    L’Italia del sì: Sud e città 

    La mappa del voto restituisce alcune differenze territoriali. Nei referendum sul lavoro i sì prevalgono nettamente nelle regioni del centro-sud: qui tutti e quattro i quesiti a livello complessivo oltrepassano il 90%, con uno scarto medio di 6-7 punti rispetto al Nord, che si riduce a 3-4 nel confronto con l’ex Zona Rossa. Nel referendum sulla riduzione dei tempi necessari per ricevere la cittadinanza italiana, invece, le percentuali maggiori si registrano nei grandi centri con oltre 100.000 abitanti: qui la differenza con i Comuni meno popolosi (sotto i 5.000 abitanti) è di ben 10 punti. Questa dimensione demografica riflette un conflitto valoriale tra il nativismo, diffuso nei piccoli comuni più periferici, e il cosmopolitismo proprio delle aree maggiormente urbanizzate.  La mappa successiva utilizza come unità territoriali i comuni capoluogo di ciascuna provincia o città metropolitana e il restante territorio provinciale permettendo di distinguere tra centri urbani principali, spesso caratterizzati da maggiore diversità sociale, presenza di maggiori servizi, popolazione più istruita e aree provinciali, che includono centri minori, aree rurali e suburbane, spesso con caratteristiche socioeconomiche diverse. Essa incrocia due dimensioni. La prima dimensione, quella “partecipativa” o “di mobilitazione”, misura l’astensionismo aggiuntivo, ovvero la differenza tra i tassi di partecipazione alle elezioni politiche del 2022 e ai referendum del 2025 e rivela quindi quanto ciascun territorio si sia mobilitato specificamente su queste tematiche, oltre alla sua normale propensione al voto. La seconda dimensione, che potremmo definire “laburista-cosmopolita”, è costruita confrontando due quesiti referendari specifici. Il primo, sui licenziamenti illegittimi e il contratto a tutele crescenti, rappresenta una posizione tipicamente “laburista”, orientata verso maggiori tutele per i lavoratori; il secondo, sulla cittadinanza, rappresenta invece una posizione di apertura verso l’integrazione degli stranieri. La differenza tra i voti favorevoli a questi due quesiti crea un asse che distingue territori con orientamenti più “cosmopoliti” (favorevoli sia ai diritti del lavoro che all’inclusione degli stranieri) da quelli più “nazionalisti” (favorevoli alle tutele del lavoro ma meno aperti all’integrazione). Il risultato è una mappa che combinando le due dimensioni identifica territori con alta mobilitazione e orientamento “cosmopolita”, territori con mobilitazione alta ma orientamento “nazionalista” e aree che tengono assieme maggiore smobilitazione (cittadini meno interessati al referendum) e orientamenti più favorevoli o meno favorevoli sulla cittadinanza agli stranieri

    I flussi: centrodestra astenuto, centrosinistra mobilitato 

    Ma il dato forse più eclatante, ancorché parziale, riguarda i flussi elettorali: oltre il 90% di chi aveva votato centrodestra alle precedenti elezioni europee si è astenuto nei referendum di quest’anno. Una scelta strategica, promossa dai leader della coalizione, che ha avuto un impatto rilevante sul risultato. A votare sono stati quasi esclusivamente elettori di centrosinistra, rendendo la consultazione più un termometro interno al campo progressista che una consultazione aperta. Anche qui, però, non sono mancate le divergenze. 

    Compatti sul lavoro, spaccati sulla cittadinanza 

    Sul primo quesito relativo al Jobs Act, l’elettorato Pd si è mostrato sorprendentemente compatto: il 79% ha votato Sì, nonostante la misura fosse stata approvata dal governo Renzi a guida Pd, provocando non poche tensioni interne nel corso della campagna referendaria. La compattezza è risultata altissima tra gli elettori di AVS (97%), un po’ inferiore nel M5S (69%) dove un elettore su tre si è astenuto. Sul tema della cittadinanza, invece, il fronte di centrosinistra si è incrinato: nel Nord il 59% dei votanti 5 Stelle ha detto No, come ha fatto il 52% nell’ex Zona Rossa. Nel Centro-Sud, suo storico fortino elettorale, i Sì (23%) al contrario sono di più dei no (18%), anche se in questa zona ben il 59% dei pentastellati si è astenuto. In particolare, i favorevoli all’abbreviazione dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza nel M5S sono massimi nei centri (i Poli) e si riducono nel resto del territorio: succede al Nord, nell’ex Zona Rossa e nel Sud. Una fotografia che riflette la pluralità interna al Movimento, ma anche la sua diversità di posizionamento sulle politiche relative all’immigrazione. Il partito non a caso non aveva dato un’indicazione esplicita di voto, anche se Giuseppe Conte aveva dichiarato la sua scelta per il sì. Peraltro, anche l’elettorato Pd registra una minore unanimità sul tema: segno che il tema dell’immigrazione è delicato anche per il Pd, e che probabilmente la strategia ottimale per una futura possibile coalizione di centro-sinistra potrà puntare in modo più affidabile sui temi economici che su quelli legati all’immigrazione. Tra i pochi elettori di centrodestra andati al voto, è interessante notare che, nei grandi centri, esiste una quota – pari al 19% – di elettori di Fratelli d’Italia che hanno votato a favore del referendum 1 sul lavoro 

    Il secondo turno: equilibrio generale 

    Infine, nello stesso fine settimana si è svolto anche il turno di ballottaggio delle elezioni amministrative. Turno che ha confermato un equilibrio numerico rispetto alle elezioni precedenti. Al ballottaggio il centrodestra ha vinto in quattro città che non amministrava – tra cui Matera e Lamezia Terme – restando però fermo a quota 8 Comuni. Il centrosinistra, che al primo turno aveva ottenuto l’importante vittoria di Genova, dopo il ballottaggio riconferma Taranto. In totale, governa ora in 13 Comuni (prima delle elezioni erano 15). Il quadro politico locale, nel complesso dei 32 Comuni superiori al voto, è rimasto quindi sostanzialmente invariato, nonostante alcuni passaggi significativi di amministrazione tra un blocco e l’altro. 

  • Elezioni amministrative: al centrosinistra il primo round (ma senza sfondare)

    Elezioni amministrative: al centrosinistra il primo round (ma senza sfondare)

    Ai nastri di partenza: il quadro prima del voto

    Le elezioni del 25 e 26 maggio hanno coinvolto 126 Comuni, di cui 32 con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Ci focalizziamo su questo gruppo perché la competizione politica è più strutturata e le coalizioni si presentano in forme che, con i dovuti distinguo, ricalcano maggiormente gli schieramenti nazionali. Ben 22 Comuni su 32 si trovano al Sud, 6 al Nord e 4 nella Ex zona rossa. I capoluoghi di provincia sono 4: Genova, Ravenna, Taranto e Matera. La fotografia delle amministrazioni uscenti conferma la prevalenza del centrosinistra, con 14 sindaci, seguito dal centrodestra (8), civiche (7), Movimento 5 Stelle (1) e sinistra radicale (1). Una mappa frammentata, dove i confini ideologici talvolta sono sfumati, in particolare al Sud. 

    Il centrodestra arretra, ma non è una valanga rossa

    Un primo dato che si può trarre da queste elezioni è sull’affluenza, in linea con le scorse amministrative a livello aggregato, ma con significative eccezioni. In alcune città la partecipazione è cresciuta in modo rilevante: su tutte Genova (+7,7 punti) e Taranto (+4,4), segnale di una competizione più sentita. In altre si registrano al contrario dei cali netti, col caso emblematico di Giugliano (-18,8%), il terzo comune più popoloso della Campania. Sul piano dei risultati, il centrosinistra è il polo che esce meglio da questo primo turno, anche se – visto il basso numero di elettori interessati dalla tornata (circa 2 milioni) – occorre prudenza nel generalizzare al territorio nazionale le dinamiche di questa consultazione. Ha conquistato 9 comuni, lo stesso numero che aveva, sempre dopo il primo turno, nelle elezioni amministrative precedenti (anche se in Comuni diversi). Ha tenuto alcune sue roccaforti, come Ravenna e Assisi, ma soprattutto strappato 5 Comuni al centrodestra, su cui spicca proprio Genova. Nel capoluogo ligure, già alle ultime regionali di ottobre, il campo progressista era risultato il più votato (52,2%), staccando di quasi 8 punti quello di centrodestra a sostegno del candidato presidente (poi eletto) Marco Bucci, che della città in quel momento era sindaco. Il centrodestra per ora arretra: in attesa dei ballottaggi, mantiene solo 3 dei suoi 8 Comuni e ne guadagna uno (Sulmona). Si conferma la difficoltà della coalizione nel consolidare il suo consenso nelle città più popolose. Ancora oggi, infatti, governa solo 4 delle 20 città più grandi d’Italia (Palermo, Catania, Venezia e Trieste). Trae la sua forza dai Comuni più piccoli con meno di 15.000 abitanti: è l’Italia dei paesi, in cui vive il 40% degli elettori italiani.  

    Infine, in questa tornata è sceso il livello di bipolarizzazione: le liste civiche hanno raddoppiato il loro bottino (da 3 a 6). 

    Le sfide ai ballottaggi

    L’8 e 9 giugno si terranno i ballottaggi nei restanti 12 comuni superiori. In gioco ci sono sfide importanti come Taranto, Matera e Lamezia Terme. I duelli principali vedranno contrapporsi centrosinistra e centrodestra in 5 di questi 12 Comuni. 

    Il centrosinistra parte con un leggero slancio, ma molto dipenderà dalla mobilitazione dell’elettorato in un secondo turno che, storicamente, registra un ulteriore calo di partecipazione e che avverrà contestualmente al voto per i referendum sul lavoro e la cittadinanza. Proprio per questo sarà interessante capire se le dinamiche emerse al primo turno – la vitalità in città come Genova, il peso crescente delle civiche, la frammentazione dell’offerta – saranno confermate o se assisteremo a nuovi equilibri. Sarà un test significativo, anche in vista delle elezioni regionali del prossimo autunno. 

  • Elezioni in Romania: Dan vince in rimonta in un Paese diviso

    Elezioni in Romania: Dan vince in rimonta in un Paese diviso

    Una sentenza senza precedenti, un’affluenza come non c’era da 29 anni e un Paese spaccato su più livelli tra chi vive in patria e all’estero: l’elezione a presidente della Romania di Nicușor Dan verrà ricordata a lungo. Il sindaco di Bucarest ha vinto grazie al successo nelle aree più giovani, urbanizzate e riformiste. Ha recuperato i 20 punti che lo separavano al primo turno da George Simion pescando a piene mani dall’elettorato degli altri candidati e mobilitando persone che prima si erano astenute. Questa nuova puntata di Telescope indaga le dinamiche istituzionali e politico-elettorali del recente voto rumeno grazie al contributo prezioso di tre studiose di primo piano: la giurista Cristina Fasone (Luiss) e le scienziate politiche Alina Mungiu-Pippidi (Luiss) e Sorina Soare (Università di Firenze). Le ringraziamo per la loro disponibilità e le analisi puntuali che hanno condiviso con noi.

    La sentenza della Corte: un pericoloso precedente? 

    Le elezioni presidenziali in Romania del 2025 si sono svolte in un contesto eccezionale. Il 6 dicembre 2024, per la prima volta nella storia del Paese, la Corte costituzionale si era attivata d’ufficio – ossia senza ricorso da parte di attori politici – per annullare il primo turno delle elezioni tenutesi il 24 novembre. Lo aveva fatto in seguito a documenti dei servizi segreti che denunciavano interferenze straniere nella campagna di Călin Georgescu. Una mano esterna che, tra le altre cose, avrebbe agito orchestrando una massiccia disinformazione online, in particolare su TikTok, così da alterare la genuinità del voto dando a Georgescu una visibilità mediatica non giustificata, vista l’assenza di spese elettorali. Come ci riassume efficacemente Cristina Fasone (professoressa associata presso la Luiss Guido Carli, dove insegna Comparative Public Law), la decisione ha aperto un acceso dibattito a livello internazionale. La Commissione di Venezia – organo consultivo del Consiglio d’Europa – ha pubblicato un rapporto urgente in cui ha sottolineato come decisioni del genere, prese d’ufficio, debbano avere natura straordinaria, essere chiaramente motivate e rispettare i principi del giusto processo che richiedono di sentire le parti in causa. Regolare la materia a livello europeo è complicato. Un punto su cui si può lavorare, per non creare un pericoloso precedente, può essere però quello di individuare criteri condivisi per valutare quando l’influenza di un Paese straniero sia tale da rendere irregolare un’elezione. Il rischio, altrimenti, è che i cittadini perdano la legittima aspettativa che il loro voto sia finale e decisivo.

     

    Cosa dicono i flussi 

    Nonostante le tensioni istituzionali, la nuova tornata ha visto una mobilitazione popolare straordinaria. Al ballottaggio ha votato il 64,7%, con una crescita di 11 punti rispetto al primo turno. È il dato più alto dal 1996. Un’analisi esclusiva CISE dei flussi elettorali, che abbiamo condotto sui dati delle quasi 20.000 sezioni elettorali dell’intera Romania (separatamente per ciascuno dei 42 distretti), mostra che entrambi i candidati sono stati capaci di rimobilitare elettori astenuti al primo turno, ma Dan ci è riuscito meglio. Soprattutto, a fare la differenza sono state le seconde preferenze degli elettori i cui candidati sono rimasti esclusi dal ballottaggio: circa 8 elettori su 10 che al primo turno avevano votato Antonescu hanno scelto Dan due settimane più tardi, e la stessa scelta è stata compiuta da 7 elettori su 10 di Ponta. Simion, al contrario, è andato poco oltre il proprio bacino originario. Di fatto, c’è stata una chiamata alle armi per fermare il candidato di destra. 

    Come mette in evidenza Sorina Soare (professoressa associata presso l’Università di Firenze, dove insegna Scienza Politica), una partecipazione significativa si è registrata nei giovani, con lunghe file ai seggi delle città universitarie. La mobilitazione è stata favorita da iniziative civiche, eventi pubblici e dall’intervento di figure simboliche come il polacco Adam Michnik. Anche il sostegno internazionale – con dieci ex ambasciatori statunitensi e l’endorsement della presidente moldava Maia Sandu – ha rafforzato la legittimità del fronte riformista che sosteneva Dan. 

    Il voto opposto nella diaspora 

    Un altro dato rilevante riguarda la diaspora, che ha visto votare 1.645.458 romeni che vivono all’estero. A prevalere in questo gruppo ampio ed eterogeneo – sottolinea ancora Sorina Soare – è stato Simion, grazie ai risultati nei grandi Paesi dell’Europa occidentale. Su tutti spicca l’Italia, dove ha sfiorato i 190.000 voti. Non è un successo casuale: Aur, il partito di Simion, ha costruito nel tempo una rete capillare tra gli emigrati, con iniziative e alleanze condivise con partiti di destra come Fratelli d’Italia e Vox. Inoltre, l’orientamento dei rumeni che si trovano in questi territori è storicamente anti-comunista e, di riflesso, ostile al Partito Social Democratico, ritenuto espressione di un establishment politico macchiato da diversi episodi di corruzione. Negli ultimi anni il loro profilo ideologico è diventato marcatamente conservatore, con intere comunità emigrate per lavorare in agricoltura, spesso in contesti rurali, attivi in campagne amplificate sui social media, come ad esempio quella contro i vaccini. 

    Una geografia dove conta il benessere 

    Il risultato interno al Paese restituisce una Romania politicamente spaccata. Dan ha vinto nei grandi centri urbani e nelle aree economicamente avanzate, come Cluj, Timișoara, Iași, Sibiu e Bucarest. Simion ha invece conquistato le aree rurali e i distretti del sud e dell’est, territori un tempo roccaforti del Partito Social Democratico. Non si registra solo la tradizionale frattura nel voto tra grandi città e piccoli centri, ma anche quella tra luoghi con un migliore o peggiore accesso a servizi pubblici essenziali: nelle aree dove ha vinto Dan c’è in media un medico ogni 700 residenti, contro uno ogni 1.900 in quelle in cui ha prevalso Simion. Colpisce infine il sostegno plebiscitario per Dan nelle zone a maggioranza magiara – Harghita e Covasna – grazie anche all’appoggio del partito ungherese locale, in contrasto con le ambiguità del premier Viktor Orbán su Aur. Questa divisione riflette una frattura storica, come ricorda Alina Mungiu-Pippidi (professoressa ordinaria presso la Luiss Guido Carli, dove insegna Comparative Public Policy): già negli anni della transizione post-comunista, gli elettorati urbani e filo-occidentali si contrapponevano a quelli rurali, conservatori e religiosi. Si pensava che la modernizzazione, favorita anche dalla migrazione temporanea, avrebbe colmato il divario. Ma negli ultimi anni, specialmente dopo la pandemia, il voto rurale è tornato con forza ad affermarsi dentro e fuori dal Paese. 

    La crisi dei partiti mainstream 

    Chi esce in crisi profonda da queste elezioni è il Partito Social Democratico, dominus in Parlamento della politica romena. Il partito non riusciva già da tempo a vincere i ballottaggi nelle presidenziali, come nel 2009, 2014 e 2019. Nel 2024 e nel 2025, non c’è neppure arrivato. Parte del problema, spiega nella sua analisi Sorina Soare, deriva dalla storia politica recente della Romania: a partire dal 2012 si è consolidata una formula di alleanze tra socialdemocratici e forze anti-comuniste (in primis i liberali) che hanno impedito una vera democrazia dell’alternanza. I partiti mainstream hanno risentito dell’ascesa di nuove forze politiche, aumentando la frammentazione in Parlamento. Il sistema politico romeno è figlio di una transizione originale: gli anticomunisti non hanno mai avuto maggioranze assolute, mentre i post-comunisti, pur con tratti nazionalisti, hanno guidato il processo di adesione all’Ue. La democratizzazione del Paese dopo la dittatura di Ceaușescu è così avvenuta senza una piena de-comunistizzazione, come il processo di europeizzazione [Mungiu-Pippidi, 2006]. 

    Dan, pur vincente, affronta ora un compito difficile: nominare un premier e formare un governo con l’obiettivo dichiarato di ridurre spesa pubblica e tasse. Nel ruolo vorrebbe il capo del Partito Nazionale Liberale, Ilie Bolojan. Qualsiasi esecutivo, visti i numeri, richiederà comunque l’appoggio – da valutare con quali modalità – dei socialdemocratici. 

    Una lezione per il futuro 

    Queste elezioni hanno rappresentato un passaggio storico per la Romania, ma soprattutto un test critico per l’intero sistema democratico europeo, intrecciato con fattori nuovi e complessi: l’integrità delle informazioni, la trasparenza delle piattaforme digitali e la capacità degli Stati di regolare fenomeni globali con strumenti nazionali. In questo quadro, afferma Cristina Fasone, il caso romeno ha messo a nudo i limiti strutturali di un approccio frammentato: le piattaforme digitali, per loro natura transnazionali, non possono essere disciplinate efficacemente con regole diverse da Stato a Stato. La Commissione europea ha iniziato a muoversi con cautela, proponendo strumenti come il “Democracy Shield” per le elezioni europee, ma resta ancora lontano un quadro normativo efficace per le elezioni nazionali.  

    Un orizzonte diverso potrebbe aprirsi, però, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che negli ultimi anni ha mostrato un’attitudine crescente a intervenire su temi finora considerati di esclusiva competenza statale. Dalla tutela dell’indipendenza dei giudici nazionali alla regolazione delle condizioni di candidatura alle elezioni locali, fino alla concessione della cittadinanza, si intravede una traiettoria giurisprudenziale che, seppure cauta, tende ad affermare principi comuni. Un’estensione di questa logica anche alle dinamiche elettorali non è più da escludere. Ma ogni passo dovrà tenere conto di un equilibrio fragile: l’attivismo giudiziario, se percepito come invasivo, rischia di generare reazioni politiche contrarie, e di compromettere l’efficacia stessa della tutela europea e la fiducia dei cittadini nella democrazia.