di Luigi Di Gregorio
Nei manuali di scienza politica e di politica comparata, l’Italia è sempre stata presentata come un paese caratterizzato da un sistema partitico con troppi partiti. E tale caratteristica è interpretata come una delle principali cause, se non la più importante, dello scarso rendimento delle nostre istituzioni democratiche. In una democrazia parlamentare il Parlamento decide in ultima istanza. E se in Parlamento (per di più con due Camere con pari poteri) ci sono troppi partiti, i governi sono necessariamente di coalizione – spesso troppo ampie ed eterogenee – e questo rallenta, quando non paralizza l’attività decisionale, a causa di ricatti, veti incrociati et similia.
Al di là dei manuali, diversi leader di partito sostengono da anni – Berlusconi in primis – di essere stati frenati dai “partitini” e che gli italiani “devono imparare a votare”, favorendo i partiti più grandi e non esprimendo il loro voto per i partiti minori. Più o meno lo stesso concetto è espresso da Grillo quando dice di puntare al 51%. Il Movimento 5 Stelle non vuole allearsi con nessuno e dunque punta alla maggioranza assoluta dei voti (e soprattutto dei seggi) per governare. Se non ci riesce, come per Berlusconi, è perché gli italiani non sanno votare, a differenza degli elettori delle democrazie consolidate, questa è la tesi.
Queste elezioni europee, però, ci dicono che tutto sta cambiando. E parecchio anche. Mentre i nostri leader politici – e la letteratura politologica meno aggiornata – ci dicono che l’Italia deve puntare alla riduzione dei partiti, tendendo al bipartitismo “come avviene negli altri paesi occidentali”, proprio in quei paesi accade che il bipartitismo – o il bipolarismo, per dirla à la Sartori il “pluripartitismo limitato e moderato” – è sempre più un lontano ricordo e di conseguenza cresce a dismisura anche il numero dei partiti “che contano”.
Al di là delle dichiarazioni basate su impressioni e su fotografie ormai sbiadite, facciamo parlare i numeri, sulla base delle ultime elezioni europee.
Come si calcola il numero dei partiti che contano? Un primo modo elementare, ma assolutamente impressionistico, è dare un’occhiata ai semplici risultati elettorali. Già questo ci farebbe capire che anche negli altri paesi storicamente caratterizzati da pochi grandi partiti lo scenario è cambiato completamente. Ma ci servono degli indici più precisi e sintetici per andare oltre il semplice “sguardo” ai risultati.
L’indice di frazionalizzazione
Il primo indice che utilizzerò è quello di Douglas Rae (1971), noto come indice di frazionalizzazione. Si tratta di un indice relativo (con valori dunque compresi tra 0 e 1) che ci dà una prima fotografia di quanto sia concentrato (oppure frazionalizzato) il consenso tra i partiti politici che competono alle elezioni. Più il suo valore si avvicina ad 1, più è alta la frazionalizzazione; più si avvicina allo 0, più ci approssimiamo alla massima concentrazione, ossia al monopartitismo. Il valore intermedio di 0,5 si ottiene in un sistema perfettamente bipartitico. Questo indice ci fa fare un salto di qualità rispetto al mero conteggio dei partiti che hanno preso voti, in quanto misura, cioè “pesa”, la loro forza relativa. In altri termini, in un sistema in cui concorrono 10 partiti, possiamo trovarci di fronte a scenari diversi: un partito potrebbe prendere il 90% dei voti, oppure i primi due potrebbero prendere il 45% dei voti, o ancora tutti e dieci potrebbero prendere il 10% dei voti. Pertanto, a parità di numerosità dei partiti, avremmo sistemi completamente diversi: dall’ipotesi monopartitica, alla bipartitica, fino alla massima frazionalizzazione. L’indice di Rae misura proprio questo: se ci dà 0 come risultato vuol dire che avremo un partito al 100%. Se ci dà 0,5 avremo due partiti al 50%. Con 10 partiti al 10% l’indice fa 0,9, e in caso di massima atomizzazione del sistema partitico l’indice tenderà ad approssimare il valore di 1.
È possibile effettuare questo calcolo sia a livello elettorale, sulla base cioè delle percentuali di voti ottenute dai partiti, sia a livello parlamentare, in base alle percentuali di seggi che derivano dal filtro del sistema elettorale. Nel caso delle elezioni europee, abbiamo un netto vantaggio nell’effettuare questa comparazione: in tutti i 28 sistemi elettorali è obbligatoria una formula proporzionale, per cui l’analisi si basa su dati tra loro comparabili. Il filtro elettorale è peraltro minimo (dove c’è, è rappresentato da una soglia di sbarramento mai superiore al 5%) e la logica di voto, di conseguenza, dovrebbe essere tendenzialmente simile da un paese all’altro, favorendo un voto sincero rispetto a un voto tattico, che sarebbe più plausibile attendersi con un sistema maggioritario e con la prospettiva di dover formare un governo sorretto da una maggioranza (cosa che non si dà nel caso delle elezioni europee).
Vediamo allora cosa ci dice l’indice di Rae applicato alle elezioni europee del 25 maggio, nella Figura 1.
Fig. 1 – Indice di frazionalizzazione in Europa nei 28 stati membri
Come si evince facilmente dal grafico, l’Italia presenta il 5° sistema partitico meno frazionalizzato sul totale dei sistemi di partito dei 28 Stati membri: solo Malta, Ungheria, Croazia e Lettonia presentano sistemi in cui il consenso ai partiti risulta più concentrato del nostro. Peraltro, si tratta di 4 paesi con cui normalmente non ci confrontiamo. Non sono quelli, per intenderci, i paesi richiamati da Berlusconi o da Grillo quando parlano di sistemi partitici da imitare.
Vediamo allora quale sarebbe la classifica se confrontassimo i nostri dati con quelli dei paesi a cui siamo soliti paragonarci, nella Figura 2.
Fig. 2 – Indice di frazionalizzazione in Europa in 13 stati membri
Se non consideriamo le democrazie più recenti (o meno mature, se volete) e i paesi piccoli quali Malta o Lussemburgo con cui non ha molto senso fare confronti, il risultato è che oggi l’Italia presenta il sistema dei partiti meno frammentato d’Europa. Quello cioè in cui la forza relativa tra i partiti è più concentrata, meno dispersa. Un esito a suo modo “rivoluzionario” che rende obsoleti pressoché tutti i testi di sistemi politici comparati.
Il Numero effettivo dei partiti
C’è un altro indice, più recente e più efficace rispetto a quello di Rae, che può darci una fotografia immediata della situazione partitica italiana ed europea. È il “numero effettivo dei partiti”, indice di Laakso-Taagepera (1979). Questo indice ci dice, con buona approssimazione, quanti sono i partiti “che contano” in ogni paese, sempre sulla base della concentrazione/dispersione del consenso.
La Figura 3 ci illustra la situazione nell’Europa a 28 e la Figura 4 quella nell’Europa a 13, ridotta ai paesi più “comparabili” al nostro.
Fig. 3 – Numero effettivo dei partiti in Europa nei 28 stati membri
Fig. 4 – Numero effettivo dei partiti in Europa in 13 stati membri
Con un numero effettivo dei partiti pari a 4,0, l’Italia per la prima volta presenta un numero di partiti minore rispetto al Regno Unito, che è storicamente e tradizionalmente l’emblema del bipartitismo, o all’Austria che Giovanni Sartori portava ad esempio come un sistema bipartitico nonostante adottasse una formula elettorale proporzionale. Oggi siamo, nel novero dei paesi europei a noi confrontabili, il paese che in assoluto può rivendicare il numero di partiti “che contano” più basso di tutti. Proprio l’Italia, che è sempre stata il simbolo dell’ingovernabilità favorita da un “eccesso di partiti”.
L’indice di bipartitismo
L’ultimo indice che prenderemo in considerazione è quello che più di tutti richiama il dibattito pubblico sulle riforme, nonché quello preelettorale: l’indice di bipartitismo. È un indice semplice, che deriva dalla somma dei voti ottenuti dai primi due partiti. Nelle Figure 5 e 6 possiamo vedere il solito confronto prima in un’Europa a 28 e poi in un’Europa ridotta a 13 Stati membri.
Fig. 5 – Indice di bipartitismo in Europa nei 28 stati membri
Fig. 6 – Indice di bipartitismo in Europa in 13 stati membri
Anche quest’ultimo dato, letto in un’ottica relativa, conferma il “riscatto” dell’Italia nella graduatoria europea dei sistemi di partito “semplificati”. E di converso, interpretato in assoluto, evidenzia quanto in tutt’Europa lo scenario partitico si stia sgretolando, dando vita a un proliferare di nuovi soggetti politici, spesso estemporanei e basati su leader altrettanto occasionali e su piattaforme programmatiche che magari oggi risultano appetibili, ma domani chissà…
Questi dati fotografano una situazione generalizzata molto fluida. Dalla fine delle ideologie, dei blocchi sociali e, di conseguenza del voto di appartenenza – ossia del voto “fedele” al partito – è scaturito un “liberi tutti” pressoché ovunque che ha di fatto reso altamente instabili e imprevedibili (i sondaggisti ne sanno qualcosa) gli scenari partitici europei, oltre ad aver favorito una progressiva disaffezione che ha generato cali di partecipazione politica costanti in tutt’Europa.
La politica di oggi, paragonata anche solo a quella di 20 anni fa, è tutt’un’altra storia. La volatilità elettorale (ossia la propensione a cambiare il proprio voto da un partito a un altro, anche da destra a sinistra, e viceversa) cresce inesorabilmente e la fedeltà degli elettori ai partiti appare come un lontano ricordo. Sembra mancare il “collante” di fondo, che una volta, appunto, erano le ideologie e i blocchi sociali/territoriali, in favore di una de-istituzionalizzazione generalizzata dei partiti e di un’altissima fluidità elettorale. Nella società liquida sembrano dunque prevalere le percezioni estemporanee, le emozioni sul ragionamento, i leader sui partiti, la fiducia “a pelle”, quasi prepolitica, sulle idee e sulle organizzazioni. E in questo scenario tutto può succedere, anche l’imprevedibile. Anche che l’Italia diventi il paese più prossimo al bipartitismo in tutt’Europa.
Riferimenti bibliografici
Rae, D. W., (1971), The Political Consequences of Electoral Laws, New Haven, Yale University Press.
Laakso, M. e Taagepera, R. (1979), Effective Number of Parties: A Measure with Application to West Europe, in Comparative Political Studies, vol. 12, pp. 3-27.