Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 14 giugno
Da molti anni a questa parte ad ogni tornata elettorale l’affluenza alle urne cala. Succede a tutti i livelli: politiche, europee, regionali, comunali. Non siamo il solo paese in cui questo accade. Questo fenomeno è una componente del più generale problema della crisi della democrazia. Anzi, a ben vedere, in Italia i livelli di partecipazione, quanto meno alle politiche, sono ancora tra i più alti in Europa. Tra i pochi paesi che stanno meglio di noi c’è la Germania.
Tanto per fare un esempio recente in Francia alle legislative svoltesi domenica 12 giugno ha votato il 47,5% degli aventi diritto. Da noi alle ultime politiche ha votato il 72,9% degli elettori. In queste nostre comunali ha votato una percentuale di elettori, circa il 55%, superiore alle politiche francesi. Questo per mettere in prospettiva il fenomeno.
Le ragioni del flop del referendum
Certo, fa impressione vedere che ai referendum sulla giustizia ha partecipato al voto solo il 20%. Ma questo dato, pur inquadrandosi in un contesto generale di crisi della partecipazione, ha una sua valenza specifica. L’astrusità dei quesiti ha certamente dissuaso dall’andare a votare. Uno strumento di democrazia diretta come il referendum può funzionare solo a certe condizioni.
La prima è che gli elettori capiscano per cosa sono chiamati a votare, la seconda è che la questione sia di rilevante interesse, la terza è che si fidino di chi li incoraggia a votare. Nessuna di queste condizioni era soddisfatta in questa occasione. Su questioni come quelle sollevate dai referendum è compito dei rappresentanti decidere. La democrazia diretta non può sostituire la democrazia rappresentativa. Ma perché questa funzioni bene occorre sempre e comunque che sia soddisfatta la terza condizione di cui sopra: il rapporto di fiducia tra elettori ed eletti. E qui entra in gioco il problema della crisi della partecipazione elettorale.
La crisi dei partiti
Non esiste un unico motivo per cui sempre meno elettori vanno a votare. Ma tra i vari fattori esplicativi occorre metterne in rilievo soprattutto uno che abbiamo indirettamente già citato a proposito dei referendum: la crisi dei partiti. Al tempo della Prima Repubblica i partiti svolgevano una funzione essenziale di socializzazione, di informazione e di mobilitazione. Non è un caso che l’astensionismo sia cominciato a crescere sensibilmente dall’inizio della Seconda Repubblica dopo il tracollo dei partiti che erano stati i protagonisti della Prima.
Il crollo della fiducia nei partiti ha portato con sé il crollo della partecipazione. A livello di elezioni politiche tra quelle del 1994 e quelle del 2018 l’affluenza è calata di quasi quattordici punti percentuali. A livello di elezioni europee è calata di più e lo stesso dicasi ai livelli inferiori. Vedremo cosa succederà alle prossime politiche nella primavera del 2023. È probabile che si sforerà al ribasso la soglia del 70%.
Il peso della demografia
La crisi dei partiti spiega molto ma non spiega tutto. Anche la demografia ha il suo peso.
Le
persone più anziane e socializzate in tempi in cui partecipare era una
abitudine radicata o addirittura un dovere escono di scena e i giovani
che entrano nel mercato elettorale sono meno interessati alla politica e
tendono ad astenersi.
Cosa si può fare per invertire o quanto meno arrestare la tendenza negativa? Il bel libro bianco commissionato dal ministro per i rapporti con il Parlamento «Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto» suggerisce una serie di misure. Ma il problema è difficilmente risolvibile solo con provvedimenti amministrativi.
Se i partiti non recupereranno credibilità e capacità organizzativa e se non si affronterà seriamente il tema della educazione alla democrazia la disaffezione nei confronti della politica è destinata a continuare e con essa l’astensionismo.