Autore: Redazione CISE

  • Dalle elezioni al nuovo governo: un’analisi sulla Germania

    Dalle elezioni al nuovo governo: un’analisi sulla Germania

    Quelle in Germania sono state elezioni da record: l’affluenza più alta di sempre dalla Riunificazione (82,5%), un partito di estrema destra (l’AfD) che supera per la prima volta il 20%, il peggior risultato da fine Ottocento nella storia ultrasecolare della Spd. Com’è potuto succedere? Quali temi si sono rivelati decisivi nella campagna elettorale? Cosa dovrebbe fare, con una maggioranza risicata al Bundestag, la Grosse Koalition (Cdu e Spd) a guida Merz per recuperare il consenso perduto? Nella nuova puntata di Telescope diamo risalto a spunti e interventi raccolti nel nostro evento alla Luiss dello scorso 6 marzo, apertosi con la relazione della Professoressa Sorina Soare (Università di Firenze) e a cui è seguita la discussione con i Professori Lorenzo De Sio e Roberto D’Alimonte (Luiss Guido Carli), Sylvia Kritzinger (Università di Vienna) ed il giornalista Michael Braun (Die Tageszeitung).

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    Riunificata, ma ancora divisa

    Nel giro di pochi anni, la Germania ha visto sgretolarsi le proprie certezze: l’energia prodotta col gas a basso costo della Russia, l’economia trainata (anche) dagli stretti rapporti commerciali con la Cina, la difesa garantita dagli Stati Uniti. In tutto ciò il sistema politico – incentrato su due grandi partiti mainstream (Cdu/Csu e Spd) – aveva cominciato, già molto tempo prima, a perdere pezzi ed indebolirsi. Fino al 2005 la stabilità infatti era garantita da uno schema fondamentalmente bipolare, in cui cristiano-democratici e socialdemocratici governavano alternandosi, forti di una rete di alleati intercambiabili o esclusivi. Un antidoto all’iper frammentazione, inoltre, è sempre stata l’alta soglia di sbarramento per le liste al 5%. A partire dal 2005, all’inizio dell’era Merkel, le cose cambiano: i due grandi partiti perdono voti, scendendo sotto al 70% e trovandosi costretti a formare insieme una grande coalizione. Da lì in poi prima la Spd e dopo la Cdu finiranno per ridimensionarsi. Alle ultime elezioni hanno preso insieme meno del 45%. Un risultato su cui pesa in particolare la débâcle della Spd al 16,4%: 9,3 punti in meno rispetto al 2021, mai così in basso dal 1890. La Cdu invece, pur recuperandone 4,4, registra comunque il proprio secondo peggior risultato di sempre (28,5%). Il centro si è eroso e la polarizzazione è aumentata, con la crescita di partiti challenger, ormai non più periferici, nella sinistra (Die Linke, Bsw) come nella destra (AfD) radicale, specialmente nei Länder dell’ex Germania dell’Est. La mappa elettorale del 2025 ne dà una chiara dimostrazione, segno che, se pure riunificate da 35 anni, le due Germanie continuano ad essere due mondi a sé. I cittadini dell’Est guardano con risentimento all’Ovest a causa delle politiche di privatizzazione e deindustrializzazione adottate dopo il 1990, che hanno generato malcontento e disoccupazione. La fiducia nella politica tradizionale è bassa: basti pensare che, nella zona orientale, la metà dei sindaci non è affiliata ad alcun partito.

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    Una campagna nel segno dell’immigrazione

    Negli anni ’80 appena il 15% dei tedeschi decideva per chi votare all’ultimo minuto, una percentuale salita ora a quasi il 50%. L’opinione pubblica, come visto nell’ultima campagna elettorale, sa rivedere in fretta le proprie priorità. Quando a dicembre 2023 il governo Scholz giunge al capolinea il tema ritenuto più importante dai cittadini era l’economia (34%), con l’immigrazione al secondo posto ma con ampio distacco (23%). A febbraio, ormai in prossimità del voto, quest’ultima aveva acquisito tuttavia molta più rilevanza (42%), per poi scendere nuovamente ad elezioni finite (26%). Nessuna forza come l’AfD ha saputo capitalizzare così bene la questione migratoria, divenuta centrale nel dibattito politico tedesco dopo che nel 2015 Merkel decise di accogliere centinaia di migliaia di stranieri, per lo più profughi siriani. L’AfD era nato come partito anti-euro e nelle sue prime elezioni federali (2013) aveva mancato per poco l’accesso al Bundestag (4,7%). In quelle successive (2017), le prime dopo l’apertura delle frontiere voluta dall’ex cancelliera, finirà per triplicare i propri voti (12,6%), usando come cavallo di battaglia proprio l’immigrazione. Oggi alla Cdu di Merz, che si trova su posizioni culturalmente più conservatrici di quanto fosse con Merkel, spetta il compito di dare una risposta al fenomeno in linea col maggior rigore richiesto dall’opinione pubblica. Lo stesso vale per il partner di governo, la Spd, sulla scia dell’esempio dei socialdemocratici danesi, capaci di rivincere le elezioni affrontando il tema con una narrazione diversa e una gestione più severa dei flussi. Sarà uno dei banchi di prova fondamentali per il nuovo governo di Berlino. Una questione che non tocca solo la sicurezza, ma anche il dibattito relativo a diritti e integrazione di chi è già nel Paese: in Germania 11,4 milioni di cittadini stranieri residenti non possono votare alle elezioni federali.

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    Flussi di voto: il caso degli elettori rimobilitati

    Le elezioni tedesche del 2025 verranno ricordate anche perché l’affluenza, al contrario di quanto generalmente avviene in Europa, è aumentata, e pure in modo sensibile (+5,9% sul 2021). Guardando ai flussi elettorali vediamo che diversi partiti sono stati capaci di rimobilitare ex elettori astenuti. L’AfD lo ha fatto più di tutti, e la ragione è presto detta: un partito challenger, dopo essere comparso sulla scena e aver acquisito riconoscibilità, riesce spesso a catalizzare meglio una parte di non elettori che in quel partito vedono una soluzione per rompere gli schemi. È successo, ad esempio, in Italia col Movimento Cinque Stelle, la cui affermazione ha contribuito a contenere l’astensione sia alle elezioni del 2013 che del 2018. Un effetto poi svanito negli anni successivi, dopo essersi “normalizzato” stando al governo. 

    Scendendo nel dettaglio del voto per fasce socio-economiche, l’AfD ha conquistato il 38% tra gli operai e il 35% tra i disoccupati, andando sotto al suo risultato (20,8%) tra pensionati e impiegati pubblici. Il voto per età presenta invece le differenze più profonde: tra i 18-24enni l’Afd ha preso il 21% e la Linke addirittura il 25%, cioè quanto Cdu (13%) ed Spd (12%) messe insieme. I due grandi partiti mainstream, al contrario, toccano quasi il 70% tra gli over 70, dove AfD (10%) e Linke (5%) si fermano al 15%. Per cristiano-democratici e socialdemocratici, questi dati non possono che costituire un campanello d’allarme sulla loro futura appetibilità elettorale.

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    La cultura del compromesso e le risposte che servono  

    La Germania ha dimostrato, ancora una volta, di possedere una risorsa politica estranea ad altri Paesi europei: la disponibilità al compromesso. Se Berlino avrà presto un nuovo governo è perché la Spd, dopo averlo guidato per quattro anni, è disposta ora – nonostante due milioni di voti persi – a tornarci come partner della Cdu, anziché andare all’opposizione. Non era affatto scontato. Ma attenzione: questa cultura politica del saper venire a patti è una risorsa, non un valore in sé. In democrazia i governi costruiscono la propria legittimità se riflettono un orientamento chiaro che emerge dal voto. Il governo Scholz è naufragato tra le divisioni della coalizione semaforo formata da socialdemocratici, verdi e liberali. La nuova Grosse Koalition di Merz avrà in Parlamento una maggioranza limitatissima, di appena 13 seggi, resa possibile perché un partito – il nuovo Bsw di Sahra Wagenknecht – non è entrato nel Bundestag per un soffio (lo 0,03%, pari a 13.344 voti). Ecco perché, come già anticipato, la strada maestra non potrà che essere quella di incorporare nell’azione di governo alcune delle domande degli elettori dei partiti challenger (in primis l’AfD). L’addio all’austerity, con la riforma costituzionale appena approvata che toglie il freno al debito stanziando, tra le altre cose, un fondo speciale di 500 miliardi di euro in 12 anni per modernizzare le infrastrutture, è un primo segnale che va in questa direzione. Ed è curioso che a farsene carico sia stato proprio Merz, ovvero l’erede politico dell’ex ministro delle finanze rigorista Wolfgang Schäuble. Si tratta di scelte politiche inimmaginabili fino a ieri, il cui impatto – come sempre accade con la Germania – non sarà contenuto ai suoi confini nazionali, ma avrà ripercussioni sul futuro e le politiche dell’Europa.

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  • Alleanze, legge elettorale e riforme costituzionali: intervista al Prof. D’Alimonte

    Alleanze, legge elettorale e riforme costituzionali: intervista al Prof. D’Alimonte

    Professor D’Alimonte, ha suscitato clamore l’intervista a Repubblica di Dario Franceschini. Secondo l’ex ministro, per battere la destra alle prossime elezioni politiche i partiti di opposizione dovranno presentarsi da soli. “È sufficiente” – ha spiegato – “stringere un accordo sul terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali per battere i candidati della destra”. Col Rosatellum, l’attuale legge elettorale, è tecnicamente fattibile? E lo è politicamente? 

    Il punto di partenza del ragionamento di Franceschini è che a sinistra l’unità prima del voto è una chimera. Quindi tanto vale rinunciarci invece di perdere tempo in estenuanti mediazioni su programma, leader, ecc. Meglio dunque presentarsi alle elezioni divisi, ognuno per conto proprio. Dopo il voto, se la somma dei seggi ottenuti da tutti i partiti del centro-sinistra fosse la maggioranza assoluta, si vedrà che fare. Allora ci si siederà attorno a un tavolo e si cercherà di trovare la quadra su programma, presidente del consiglio, ecc. Ma visto che ci sono i collegi uninominali una qualche forma di accordo prima del voto va trovata per non ripetere la brutta esperienza del 2022, quando grazie alle divisioni del centrosinistra il centrodestra ha vinto l’80% dei collegi. Quindi, secondo Franceschini, nella arena maggioritaria gli attuali partiti di opposizione dovrebbero presentare dei candidati comuni spartendosi i collegi, come si faceva ai tempi della Mattarella. Ma allora c’era L’Ulivo che proiettava l’idea di una coalizione unita destinata a governare in caso di vittoria. Adesso l’accordo sarebbe solo tecnico, non politico. Nella sostanza la proposta di Franceschini servirebbe a ‘proporzionalizzare’ del tutto l’attuale sistema elettorale. Ci farebbe fare un passo indietro sulla strada della governabilità. Come si può pensare che gli stessi partiti che non riescono a mettersi d’accordo prima del voto su un programma e una leadership comuni possano farlo dopo garantendo una efficace azione di governo? L’attuale governo può piacere o meno, ma il Paese oggi ha trovato una stabilità che tanti in Europa ci invidiano. Questo è un valore da consolidare.  

    Fig. 1 – Confronto tra la percentuale di voti e la percentuale di seggi uninominali ottenuta dalle coalizioni alla Camera nel 2022

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    Se il Rosatellum prevedesse allora, com’era col Mattarellum, schede elettorali diverse per il voto ai partiti nel proporzionale e per quello ai candidati nel maggioritario, se ne avvantaggerebbe il centrosinistra, proprio come ai tempi dell’Ulivo? 

    Ai tempi del Mattarellum la possibilità di esprimere due voti su due schede diverse nella elezione della Camera (ma non quella del Senato) ha penalizzato la coalizione di centrodestra. Questo dicono i dati. Le coalizioni di Berlusconi sia nel 1996 che nel 2001 hanno preso più voti nella parte proporzionale rispetto alla parte maggioritaria, circa un milione e mezzo. Tra l’altro questo è il motivo principale della riforma elettorale del 2005 voluta fortemente da Berlusconi, che ha eliminato i collegi introducendo il proporzionale con premio di maggioranza. Allora il fenomeno era dovuto alla scarsa coesione dei partiti del centrodestra e al relativamente basso tasso di fedeltà dei loro elettori. Oggi le cose sono cambiate ma a livello di elezioni regionali si vede ancora una tendenza per cui i candidati presidenti del centrodestra a volte prendono meno voti delle liste che li sostengono, ma tutto sommato si tratta di un fenomeno più limitato. 

    I giornali parlano del piano del governo di cambiare la legge elettorale. L’ipotesi di partenza è il Tatarellum, il sistema in vigore in molte Regioni: proporzionale con turno unico e premio di maggioranza che dà il 55% dei seggi alla coalizione vincente che supera il 40%. Vada per la Camera, ma come potrebbe applicarsi un premio assegnato su base nazionale al Senato, che da Costituzione è eletto invece su base regionale?  

     Questa sembra essere effettivamente l’idea verso cui si sta orientando la maggioranza di governo, anche se è tutto ancora avvolto nella nebbia. Diciamo subito che il sistema non può ricalcare in toto quello delle elezioni regionali perché la sentenza della Corte sulla riforma Calderoli ha stabilito che non si può assegnare un premio di maggioranza senza una soglia minima di voti per ottenerlo. La Corte non ha fissato una soglia ma si presume che il 40 % sia compatibile con la sua sentenza. Cosa succede però se nessuno arriva a questa soglia? Le soluzioni sono due. Una è il ballottaggio tra le due liste o le due coalizioni con più voti. La seconda è la assegnazione del 100% dei seggi con formula proporzionale. È presumibile che la maggioranza di governo si orienti sulla prima soluzione.  

    Quanto al problema del Senato mi pare di capire che ormai la maggior parte dei giuristi si sia rassegnata al fatto che si possa introdurre un premio nazionale, così come è già stata introdotta una soglia di sbarramento nazionale, a patto che ci siano altri elementi che soddisfino il requisito della regionalizzazione del sistema. 

    Si parla di soglia al 40 %, ma ci sembra di ricordare che la sua idea è diversa. 

    È così. Io penso che la soglia corretta sia il 50 %. Solo con questa soglia si può essere ragionevolmente certi che il vincente sia la vera preferenza della maggioranza degli elettori. Inoltre con questa soglia è praticamente certo che ci sarebbe un ballottaggio. E con il ballottaggio si farebbe il premierato. Infatti, in questo modo gli elettori sarebbero messi di fronte a una scelta netta e facilmente comprensibile tra due sole alternative e sarebbero in grado di scegliere il premier e la sua maggioranza. Si realizzerebbe una sorta di elezione ‘diretta’, appunto il premierato, senza modificare la Costituzione e quindi la forma di governo parlamentare, e senza toccare i poteri del capo dello Stato. Il candidato pur eletto ‘direttamente’ dai cittadini potrebbe essere comunque rimosso con un voto di sfiducia delle camere. Tra l’altro con il ballottaggio si valorizzano le seconde preferenze degli elettori. 

    Perché il centrodestra avrebbe interesse ad accantonare il Rosatellum, di cui ha fortemente beneficiato nel 2022? Viene da pensare soprattutto a Lega e Forza Italia: entrambi sono sovra rappresentati in Parlamento grazie ai molti seggi ottenuti in collegi uninominali blindati per il centrodestra. Un risultato figlio del maggior peso politico dei due partiti all’interno della coalizione prima delle elezioni 2022, che oggi non esiste più. Forse che, allora, possano trarre vantaggi dalla possibile riforma? I seggi in più che avrebbero nel nuovo sistema col premio di maggioranza potrebbero “pareggiare” quelli ottenuti col Rosatellum nei collegi uninominali? 

    Credo che le ragioni siano altre. Il Rosatellum è un sistema complicato che costringe i partiti a faticosi accordi di spartizione dei collegi. Il proporzionale con premio semplificato tutto. Ma c’è dell’altro. Il Rosatellum non può garantire che dalle urne esca una maggioranza assoluta di seggi. È successo nel 2022 per la ragione di cui abbiamo parlato sopra, e cioè le divisioni del centrosinistra. Ma se nel 2027 il centrosinistra si presentasse unito, o nella versione Ulivo 2.0 (coalizione vera) o nella versione franceschiniana (coalizione fittizia), non è detto che accada o comunque potrebbe essere una maggioranza fragile. Con il proporzionale a premio questo non succederebbe. 

    Una riforma del sistema elettorale potrebbe convenire anche al centrosinistra, visto che il Rosatellum non è conveniente per un’alleanza asimmetrica come quella tra Pd e M5s? 

    Per certi aspetti potrebbe convenire per le stesse ragioni discusse prima. Per altre no. Un proporzionale con premio di maggioranza elimina la possibilità di coalizioni fittizie del tipo proposto da Franceschini. Ogni partito si presenterebbe con la sua lista e con il suo simbolo. Ma per puntare al premio e quindi a vincere i partiti coalizzati devono dare l’idea di essere una coalizione vera, con un programma e una leadership condivisi. Questo è il nodo che il centrosinistra deve sciogliere. La riforma elettorale sarebbe una spinta in questa direzione. Se non lo facessero in maniera credibile il centrodestra ne sarebbe fortemente avvantaggiato.  

    Capitolo candidati: l’ipotesi caldeggiata da Antonio Tajani è che vengano eletti con le preferenze, eccetto il capolista. A quali partiti converrebbe di più? 

    Dipende. Per i piccoli partiti che hanno pochi seggi non cambierebbe niente. Quasi tutti i loro candidati eletti sarebbero i capilista scelti dalle segreterie di partito. Per i partiti più grandi si creerebbero due categorie di candidati: i privilegiati, che essendo capilista avrebbero il seggio garantito, e i peones, che dovrebbero conquistarsi il seggio raccogliendo preferenze. In sintesi la riforma ridurrebbe l’attuale potere assoluto dei segretari ma in misura diversa per i diversi partiti. 

    In generale cosa pensa del progetto di riforme istituzionali del governo Meloni? 

    È un progetto disorganico. Premierato, autonomia differenziata, legge elettorale sono questioni che andrebbero affrontate in maniera sistematica. A mio avviso sono tre le riforme su cui si dovrebbe puntare: superamento del bicameralismo paritario, voto degli italiani all’estero e sistema elettorale. Sono riforme collegate tra loro. La trasformazione del Senato in Camera delle Regioni servirebbe a razionalizzare il rapporto Stato-Regioni, semplificare il processo legislativo e facilitare l’adozione di un sistema a premio di maggioranza. Il voto degli italiani all’estero eliminerebbe il rischio che l’elezione del premier dipenda dal voto di elettori che risiedono stabilmente all’estero e con labili legami con il Paese. La riforma elettorale servirebbe a favorire la stabilità dell’esecutivo. Aggiungo che sarebbe molto importante che questo pacchetto di interventi fosse concordato con l’opposizione. Solo riforme condivise sono riforme destinate a durare.  

    Lei parla di riformare il Senato ma quale sarebbe la reazione degli attuali senatori? Non pensa che sia una riforma difficile da far digerire? 

    Gli attuali 200 posti di senatore vanno spostati alla Camera che da 400 deputati dovrebbe passare a 600, in linea con la composizione delle camere basse in altre grandi democrazie europee. Tra l’altro questa modifica, oltre che facilitare l’approvazione della riforma, servirebbe a migliorare anche il lavoro delle commissioni parlamentari della Camera distribuendo meglio le responsabilità tra un maggior numero di deputati. 

  • Evento – Elezioni in Germania: il risultato e le prospettive future

    Evento – Elezioni in Germania: il risultato e le prospettive future

    Le ultime elezioni tedesche sono state elezioni da record: l’affluenza più alta di sempre dalla Riunificazione (82,5%), un partito di estrema destra (l’AfD) che supera il 20%, il peggior risultato da fine Ottocento nella storia ultra secolare della Spd.

    Com’è potuto succedere? Quali scenari politici si delineano con Merz cancelliere e il probabile ritorno della Grosse Koalition? Cosa cambia in Europa?

    Ne parleremo giovedì 6 marzo alle 11:30 in un nuovo evento organizzato alla Luiss, presso il Campus di Viale Romania 32. Qui il link per la registrazione: elezioni_germania_risultato_prospettive_future

    Elezioni in Germania: il riusltato e le prospettive future
  • Evento – Political Trust and Distrust in France and Italy

    Evento – Political Trust and Distrust in France and Italy

    Qual è lo stato della fiducia nella politica dell’opinione pubblica in Italia e Francia? Esistono differenze significative tra i due Paesi? Cos’è cambiato nell’ultimo anno rispetto a trend visibili già da tempo? Per rispondere a queste e ad altre domande, il dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, il CISE, e il BNP-BNL Paribas Chair in French and Italian Relations in Europe hanno deciso di organizzare una tavola rotonda. Nell’evento è stata presentata e discussa l’edizione 2025 del Barometro sulla fiducia politica, un’indagine annuale giunta alla sua 16° edizione pubblicata del CEVIPOF di Sciences Po e realizzata da Opinionway grazie alla partnership tra CEVIPOF, CESE, Intériale Mutuelle, CMA-France, EDF, l’Institut de l’entreprise e la Luiss.

    All’indomani delle elezioni tedesche e della visita del Presidente francese Macron negli Stati Uniti, all’Università Luiss sono stati presentati i risultati del nuovo (il 16°) Barometro sulla fiducia politica Sciences Po-Luiss con focus su Francia e Italia, ma che tiene conto anche di Germania e Paesi Bassi.

    La tavola rotonda è stata organizzata dal Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, il Centro Studi elettorali della Luiss (CISE), e la BNP-BNL Paribas Chair in French and Italian Relations in Europe: è la seconda volta che l’Ateneo intitolato a Guido Carli ospita la presentazione del rapporto, firmato dai ricercatori del Centro studi CEVIPOF dell’Università Sciences Po, con cui ha collaborato per realizzare l’indagine. Dopo il saluto di Luigi Gubitosi (Presidente Luiss), sono intervenuti Marc Lazar (BNP-BNL- Paribas Chair in French and Italian Relations in Europe, Luiss), Bruno Cautrès (CEVIFOP-Sciences Po), Lorenzo De Sio (Direttore del CISE – Centro italiano studi elettorali, Luiss) ed Elisabetta Mannoni (CISE e Università di Siena).

    I risultati del Barometro hanno rivelato che in Italia è leggermente cresciuta la fiducia nei confronti della politica, soprattutto verso le istituzioni nazionali. Dopo l’ultimo governo guidato da Mario Draghi, dalle elezioni politiche è scaturita una maggioranza chiaramente definita che conferisce stabilità al governo. Questa settimana si sono tenute in Germania le elezioni anticipate, con la più alta affluenza dalla riunificazione. I cittadini tedeschi guardano soprattutto a Bruxelles, verso cui cresce la fiducia nei confronti della politica.

    La Francia risulta, invece, tra i paesi analizzati, quello con il più alto tasso di sfiducia nei confronti della politica. Si registra, inoltre, un deciso malcontento verso le istituzioni, da quelle nazionali a quelle europee. Dopo l’exploit alle ultime elezioni europee dell’estrema destra guidata da Marine Le Pen, il Presidente Macron aveva indetto elezioni nazionali anticipate. Il fragile sistema politico d’oltralpe continua a dipendere dalla coabitazione di un esecutivo di centro-destra, sostenuto da una maggioranza che non riflette il colore politico del Presidente della Repubblica e i vincitori delle elezioni.

    In particolare, i trend visibili nella Figura 1 mostrano il netto peggioramento, negli ultimi due anni, dello stato d’animo dei francesi, con un aumento nettissimo di sentimenti negativi come sfiducia, stanchezza, tristezza e paura.

    Figura 1 – L’andamento nel tempo, in Francia, dello stato d’animo prevalente tra gli intervistati (in ordine delle etichette a lato: diffidenza, stanchezza, tristezza, paura, benessere, serenità, fiducia, entusiasmo)

    Marc Lazar, BNP-BNL- Paribas Chair in French and Italian Relations in Europe, Luiss, ha spiegato:

    “Per la seconda volta presentiamo all’Università Luiss i risultati del Barometro sulla fiducia politica. L’Europa si trova in un momento di estrema vulnerabilità, divisa al suo interno e sottoposta a pressioni dall’esterno. Alla luce della nuova Amministrazione americana, questo studio pone le basi per approfondire cosa pensano i cittadini europei su come funziona la democrazia nei loro Paesi e nell’Unione europea. Contrariamente al passato, cresce la percentuale dei cittadini italiani che credono nel governo, nella politica nazionale e nell’UE, mentre crolla la fiducia nelle istituzioni dei francesi”.

    E Lorenzo De Sio, Direttore del CISE – Centro italiano studi elettorali, Luiss, ha aggiunto:

    “Tendiamo a credere che l’Italia sia in fondo alle classifiche della fiducia verso la politica, ma in realtà registriamo alcuni valori in crescita. Una prima interpretazione è che, mentre in Francia c’è un governo con molte tensioni, in Italia, dopo la parentesi tecnocratica, l’elezione del 2022 ha dato un chiaro vincitore e un chiaro segno di un cambiamento di direzione politica in linea con il risultato elettorale. E questo è uno degli elementi chiave che danno fiducia nella democrazia. Quindi abbiamo registrato una lieve risalita dei livelli di fiducia rispetto a prima delle elezioni del 2022. Da ulteriori analisi condotte dal CISE, sugli stessi dati, risulta inoltre che i sentimenti negativi e la sfiducia nei confronti della politica sono maggiormente concentrati tra le persone in difficoltà economiche; un effetto che si estende a tutti e quattro i Paesi analizzati. Dietro questo risentimento per la politica sembra quindi esserci essenzialmente un disagio economico”.

    Principali risultati in sintesi (Il rapporto completo è disponibile qui): 

    • Intervistati che ritengono che la democrazia nel proprio Paese funzioni bene:
      • Germania: 51%.
      • Paesi Bassi: 45%;
      • Italia: 37%;
    • Intervistati che ritengono che non ci sia nulla di cui essere orgogliosi del sistema democratico del proprio Paese:
      • Francia: 54%;
      • Italia: 42%;
      • Germania: 33%;
      • Paesi Bassi: 31%.
    • Fiducia nei confronti delle istituzioni politiche:
      • Una larga maggioranza dei cittadini francesi non si fida dell’Unione europea (66%), del loro governo (76%) e dell’Assemblea nazionale (74%);
      • In Italia aumenta la fiducia nei confronti dell’Unione europea (+2%), del governo (+4%) e nel Parlamento (+4% la Camera, + 5% il Senato).
    • Sentimenti predominati tra gli intervistati:
      • Germania: serenità (33%), davanti la sfiducia (25%);
      • Italia: stanchezza e sfiducia rimangono più moderate (31%), davanti la serenità (26%);
      • Paesi Bassi: prevalgono fiducia (31%) e benessere (27%)
    • Legami sociali:
      • Solitudine: la maggior parte degli italiani (55%) ha spesso l’impressione di essere solo, secondo dato peggiore dietro solo a Germania (80%).
      • Rispetto: l’80% degli italiani ritiene di non ricevere il rispetto che merita.
  • “Stanchi delle guerre, contro l’immigrazione e non troppo convinti del clima che cambia: ecco gli italiani, nel nostro sondaggio”

    “Stanchi delle guerre, contro l’immigrazione e non troppo convinti del clima che cambia: ecco gli italiani, nel nostro sondaggio”

    Come la pensano gli italiani su guerre, immigrazione, magistratura ed altre questioni di stretta attualità? È cambiato qualcosa rispetto a maggio, quando eravamo nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee? Nella nuova puntata di Telescope pubblichiamo la prima parte dell’analisi del nostro nuovo sondaggio, realizzato con metodo CAWI su un campione di 1.200 italiani maggiorenni. Dopo una panoramica sugli orientamenti generali dell’opinione pubblica, abbiamo scelto di approfondire le opinioni su un argomento specifico: il cambiamento climatico. Se ne parla dal secolo scorso, ma da meno di un decennio in modo diffuso, specie quando accadono eventi catastrofici. In questo caso ci ha spinto un tema d’attualità: l’ennesima alluvione in Emilia-Romagna, che peraltro segue la siccità in Sicilia, dove almeno due milioni di abitanti hanno l’acqua razionata una volta a settimana. Queste calamità hanno inciso sulla più ampia percezione del fenomeno? Si crede che si tratti di variazioni naturali, oppure di un cambiamento climatico dovuto alle attività umane? Il governo, nell’affrontare tutto ciò, è stato giudicato all’altezza? Ecco cosa dicono i dati della rilevazione.

    Gli italiani, sei mesi dopo: cresce la polarizzazione

    L’opinione pubblica italiana, oggi più che a maggio, rigetta le endless wars, i conflitti che si prolungano per anni senza una fine apparente. Ciò è chiaro per gli scenari internazionali più importanti e attenzionati dai media: l’Ucraina e Gaza. Sulla prima, due terzi del campione vorrebbero che si arrivasse a una trattativa di pace con la Russia, al costo di riconoscere i territori annessi da Putin. In Medio Oriente, una fetta ancora maggiore – pari all’81%, ben 4 punti in più che in primavera – si dice contraria alla prosecuzione dell’intervento militare israeliano. Nel mezzo di queste posizioni, non sorprende che la variazione più significativa sia stata sulla creazione di un esercito comune europeo, il cui consenso perde 7 punti, scendendo sotto la soglia del 50% (49%). Ad essere contrari sono soprattutto i Millennials (52%), cioè chi ha tra 28 e 43 anni, e i Gen X (55%) ricompresi nella fascia d’età 44-59, mentre a favore restano i gruppi più anziani over 60 e, rispetto all’auto-collocazione politica, chi si definisce di sinistra (57%).

    Riguardo poi a vari altri temi, rispetto alla primavera varie opinioni che già erano maggioritarie hanno acquisito ulteriore forza. Due esempi su tutti: il negare l’ingresso ai movimenti anti-abortisti nei consultori, che ora raccoglie oltre il 70% delle preferenze (era il 66,4% in primavera), e il limitare l’accoglienza degli immigrati (67,7%, era il 62,9%). Quest’ultimo tema è, da almeno 15 anni, tra i più sentiti dalle opinioni pubbliche occidentali, dimostrandosi determinante in diverse elezioni. Giusto per citarne una, quella americana del mese scorso con la vittoria di Trump. L’evidenza ormai è tale per cui alcuni partiti di sinistra, o più largamente definibili “progressisti”, stanno rivedendo le proprie posizioni in merito all’argomento. Lo ha fatto, se pure tardivamente e con scarso profitto, Kamala Harris, candidata presidente del partito democratico negli Stati Uniti. Prima di lei, e con risultati fino ad ora migliori, era successo in Danimarca, ed è successo più di recente in Germania con Sahra Wagenknecht, leader del partito BSW, che ha scalzato la Linke a riferimento della sinistra radicale tedesca. Accadrà lo stesso in Italia?

    Completiamo la nostra panoramica con una delle questioni più divisive: i poteri della magistratura. Le opinioni su questo tema sono difficili da scalfire, perché ormai appare chiara una polarizzazione su linee partitiche. L’orientamento sul dare ai giudici più o meno poteri è rimasto pressoché invariato (appena mezzo punto in più rispetto a maggio), nonostante il dibattito politico con relative tensioni sul ddl Nordio approvato in estate, che ha eliminato l’abuso d’ufficio.

     

     

     

    Il cambiamento climatico? C’è un segmento non trascurabile di negazionisti

    C’è una questione però, visibile sopra nelle tabelle, su cui la maggioranza degli intervistati si dice d’accordo (56,3%, era il 57,8% in primavera): dare la priorità alla protezione dell’ambiente, anche a costo della crescita economica. È un tema che si ricollega al più generale tema dell’ambiente, che abbiamo voluto in particolare approfondire con una domanda chiave: di fronte all’intensificarsi di eventi meteorologici estremi degli ultimi anni, gli intervistati tracciano una connessione col cambiamento climatico oppure no?

    La risposta è essenzialmente “sì”, ma non unanime, e con alcune interessanti specificazioni. Intanto, abbiamo rilevato questa connessione con due domande diverse: una generica, che non faceva riferimento specificamente agli eventi di quest’anno, collocata dopo domande su altri temi; e poi una molto più specifica, alla fine di varie domande sul cambiamento climatico, e che faceva invece esplicito riferimento ai fenomeni estremi di quest’anno (alluvioni in Emilia-Romagna, siccità al Sud, ecc.). Ebbene, nel primo caso il 76% degli intervistati attribuisce gli eventi estremi degli ultimi anni a un processo di cambiamento climatico (invece che normali oscillazioni climatiche); nel secondo, l’81% degli intervistati imputa gli eventi di quest’anno in Italia al cambiamento climatico prodotto dall’uomo. Tuttavia i due dati indicano una tendenza coerente: a fronte di una stragrande maggioranza che lega i due fenomeni (in linea con il consenso unanime tra gli scienziati), esiste comunque un’area tra il 20 e il 25% degli intervistati che invece nega questo collegamento.

    Diventa quindi di grande interesse vedere in quali gruppi è più diffuso questo atteggiamento “negazionista”. Prendendo a parametro la domanda generale, ci sono molte conferme e qualche sorpresa. La parziale sorpresa viene da un dato generazionale: percentuali di negazionisti sopra la media si trovano tra i Millennials (28-43 anni, 34%) e nei più anziani Silent Gen (gli over 79, 25%), mentre i giovani della Gen Z (17-27 anni) sono i meno negazionisti con il 16%. Gli altri gruppi sociali mostrano invece sostanziali conferme: sono più negazionisti gli uomini delle donne (30 contro 18%), i meno istruiti (30% tra elementari e nessun titolo, 24% in tutti gli altri), i più agiati economicamente (56 e 60% nelle due categorie più agiate, rispetto a valori tra il 19 e il 27% in tutte le altre categorie); quest’ultima sovrapposizione di caratteristiche (agiatezza economica, ma minore istruzione) ricorda il profilo tipico degli elettori di centro-destra: e infatti l’auto-collocazione politica ha un effetto molto forte: la percentuale di negazionisti è solo del 7% tra chi si colloca a sinistra, mentre sale al 43% tra chi si colloca a destra. È peraltro verosimile che queste domande siano anche influenzate dalla posizione del proprio partito. Quando infatti chiediamo una questione più ampia e neutrale, ovvero se il cambiamento climatico abbia contribuito a cambiare il modo di vedere il futuro dell’intervistato, risponde di sì addirittura l’83% (rispetto al 69 di maggio): segno che alcuni che si dichiarano negazionisti forse poi alla fine credono al cambiamento climatico.

    E non a caso, essere colpiti da eventi climatici estremi ha un effetto sulle opinioni. Chi li ha vissuti sulla propria pelle nell’ultimo anno crede infatti molto di più al cambiamento climatico rispetto a chi invece non li ha affrontati (86 contro 70%). Inoltre, gli abitanti di una zona colpita credono maggiormente che questi fenomeni siano colpa delle attività umane (68%), rispetto a chi risiede altrove (59%). E peraltro, nella batteria di domande consultabile qui sotto, si vede che il 51,2% degli intervistati dichiara di avere fatto esperienza di alluvioni, siccità, ondate di calore. È una percentuale molto alta, che ci dà l’idea della rilevanza del fenomeno. Sui rimedi adottati, infine, il parere invece è netto, e boccia l’azione del governo Meloni: per l’81% i giudizi sono negativi o molto negativi.

    Quale conclusione possiamo trarre da tutto ciò? Per molti anni la protezione dell’ambiente è stato un tema politicizzato da una sola direzione, dal lato ambientalista. Negli ultimi anni, tuttavia, di fronte a provvedimenti con un rilevante impatto economico sui settori legati ai combustibili fossili, si è mobilitato un fronte contrario (con successo soprattutto tra gli elettori di destra). Il tema è quindi oggi più controverso e politicizzato, e i nostri dati ormai lo mostrano chiaramente. È una dinamica tipica della politicizzazione di questo conflitto, che a questo punto non riguarda più, ad esempio, solo gli Stati Uniti, ma sembra chiaramente presente anche in Italia.

     

     

     

     

    Nota metodologica

    Il sondaggio Cise-Telescope è stato somministrato con metodologia CAWI su un campione di 1.206 intervistati, tra il 20 e il 26 novembre 2024, dalla società Demetra. Il campione è rappresentativo della popolazione italiana in età di voto per combinazione di sesso e classe di età, titolo di studio e zona geografica. Successivamente il campione è stato ponderato per sesso, combinazione di classe ed età, zona geografica e ricordo del voto espresso nella precedente elezione del 2022. Il tasso di risposta in rapporto agli inviti è stato del 40%. Il margine di errore (al livello di fiducia del 95%) per un campione probabilistico di pari numerosità è di ± 2,8 punti percentuali.

  • Trump colpisce ancora, ed ora che succede?  Gli scenari per l’America e l’Europa

    Trump colpisce ancora, ed ora che succede? Gli scenari per l’America e l’Europa

    Donald Trump ha vinto le elezioni. Nessun presidente, dai tempi tardo ottocenteschi di Grover Cleveland, era tornato alla Casa Bianca dopo averle perse alla fine del primo mandato. Il tycoon ha battuto Kamala Harris in tutti e 7 gli Stati in bilico, conquistando il collegio elettorale con 312 grandi elettori e prevalendo pure, a sorpresa, nel voto popolare. Trump ha preso 2,6 milioni di voti in più della sua avversaria, come non succedeva ai repubblicani dal 2004 con George W. Bush. Il suo consenso si è nazionalizzato, come confermano gli ottimi risultati in roccaforti democratiche come la California e New York. La sua base elettorale si è allargata, specie tra giovani e latinos. Ha dimostrato, ancora una volta, di non essere un accidente della storia. Com’è stato possibile? Cosa faranno i repubblicani, che hanno anche il controllo del Congresso? E i democratici, in cerca di riscatto? Senza dimenticare i Paesi europei, in primis l’Italia.  A queste domande rispondiamo nella nuova puntata di Telescope, realizzata grazie agli spunti e alle analisi – raccolti nel corso del nostro ultimo evento – di John Ferejohn e Bruce Cain (Stanford University), Daniela Giannetti (Università di Bologna), Roberto D’Alimonte e Sergio Fabbrini (Luiss).

    Trump, un candidato diventato normale

    La vittoria di Trump non è in sé una sorpresa. Che fosse possibile e per certi versi probabile, lo sapevamo da tempo. Guardando al collegio elettorale, non registriamo cambiamenti epocali: è vero che il tycoon ha prevalso in tutti e sette gli Stati in bilico, ma in cinque di questi  (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina e Georgia) lo ha fatto in realtà con un margine minimo, tra lo 0,9 e il 2%. Significa che le elezioni, pure stavolta, sono state comunque competitive, anche se meno del solito. Il successo di Trump è però significativo, oltretutto consacrato dal primato nel voto popolare. Per capirlo dobbiamo partire proprio da lui. Dopo 8 anni in politica, il tycoon è diventato un candidato “normale”, ben conosciuto dagli americani che hanno dimostrato, in larga parte, di non considerarlo un pericolo per la democrazia. Peraltro, il presidente eletto si è dimostrato capace di spostarsi al centro su questioni come sicurezza sociale e assistenza sanitaria, e di mostrarsi più neutrale sull’aborto, che era costato caro ai repubblicani nelle ultime elezioni di midterm.

    Ma soprattutto Trump è stato considerato più credibile per gestire i temi prioritari dell’opinione pubblica americana: l’immigrazione e l’economia. Su quest’ultima, dati alla mano, occorre in particolare una riflessione. Sotto l’amministrazione Biden sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è scesa al 4,3%, il mercato azionario è andato a gonfie vele, sono aumentati persino i salari. Ma questo non è bastato, perché la crescita economica parrebbe non aver portato a benefici diffusi, anche perché l’inflazione ha colpito con durezza i ceti meno abbienti, a partire dal rincaro su alimenti di largo consumo come bacon e uova. La lezione per i democratici è dunque quella di prestare ancora più attenzione agli effetti delle politiche economiche (è vero che Biden ha speso moltissimo per creare lavoro, ma non è riuscito ad affrontare in modo convincente il problema del costo della vita) e per certi versi di rivedere ulteriormente la propria agenda, privilegiando tematiche economiche anziché identitarie. È evidente quanto sia diverso il loro impatto: Trump, come mostrato nel grafico in basso, ha guadagnato voti tra tutte le fasce di reddito.


    L’incognita Congresso: cosa succede col trifecta

    Come se non bastasse, il tycoon godrà anche del cosiddetto trifecta government, che si ha quando un partito, oltre a esprimere il presidente, controlla anche i due rami del Congresso. I repubblicani hanno ottenuto infatti la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Per Trump è un bene, ma non è affatto garanzia per la realizzazione del suo programma. I margini di maggioranza sui democratici infatti sono esigui in entrambe le camere, e per le proposte repubblicane più estreme venire a compromessi sarà un problema, specie con due partiti così polarizzati. Tutti gli ultimi presidenti che hanno goduto del trifecta lo hanno perso alle elezioni di midterm. C’è di più: per ogni inquilino della Casa Bianca il picco di potere si raggiunge il 20 gennaio, il giorno dell’insediamento, e la luna di miele col Paese dura circa 100 giorni. Trump allora, come i suoi predecessori, non può permettersi di “partire male”, pena una probabile sconfitta tra due anni nelle elezioni di midterm, col rischio di diventare un’anatra zoppa. Non è un elemento da sottovalutare, perché il controllo o meno della Camera o del Senato incide molto sull’azione dell’amministrazione. Il Senato ad esempio, dove i repubblicani hanno una maggioranza di tre seggi, è fondamentale per la politica estera.

    L’arma dei dazi contro l’Europa

    Dal 1948 tutti i presidenti americani hanno sostenuto il processo di integrazione europea, che altrimenti non sarebbe stato possibile. Tutti, appunto, tranne Trump. Il tycoon è riflesso della tradizione risalente a Lord Palmerston, premier inglese della seconda metà dell’Ottocento, secondo il quale “non ci sono alleanze permanenti, ma solo interessi permanenti”. Trump, per perseguire i propri obiettivi da deal maker, potrebbe dividere l’Europa rafforzando i dazi su singoli prodotti, così da colpire i Paesi che ritiene più opportuno. Un approccio unilaterale come il suo penalizzerebbe l’export del vecchio continente. Esiste una soluzione politica che possa evitarlo, proposta magari dal governo italiano di centrodestra? Allo stato attuale, se ci fosse, è quantomeno complicata, perché un’alleanza transatlantica tra nazionalisti non appare logica. Uno dei tratti che meglio caratterizza Donald Trump è peraltro l’imprevedibilità, tipica di un soggetto post ideologico che combina posizioni di destra e sinistra su diversi temi. E a differenza del suo primo mandato, il contesto è cambiato, con Francia e Germania politicamente deboli, e quindi un’Europa ancora più in difficoltà. Per l’Unione Europea è un’ora decisiva, perché le toccherà rispondere a chi, forse più di chiunque altro, si è affermato grazie alla sfiducia diffusasi gli ultimi 30 anni nei confronti delle élite tradizionali, quelle che negli Stati Uniti si trovano a Washington e in Europa proprio a Bruxelles e Strasburgo.

  • Elezioni in Liguria: crocevia d’autunno? Dati e scenari sullo scontro Bucci-Orlando

    Elezioni in Liguria: crocevia d’autunno? Dati e scenari sullo scontro Bucci-Orlando

    Lo scandalo giudiziario, le dimissioni di Giovanni Toti, le elezioni anticipate con lo scontro serrato tra Marco Bucci e Andrea Orlando: la politica nazionale guarda al voto di domenica e lunedì in Liguria, crocevia importante per il centrodestra, che vuole confermare una Regione dove governa dal 2015, e per il centrosinistra, presentatosi unito con la formula del campo largo, eccetto per Italia Viva rimasta fuori dopo i dissidi tra Conte e Renzi. Sono tanti gli spunti d’interesse: dalle strategie diverse (anzi, opposte) prese dalle coalizioni nella scelta del loro candidato presidente, alla storia politica della Liguria, terra di conquiste bipartisan come poche altre nella Seconda Repubblica, fino alle possibili ripercussioni del voto a medio termine, in vista delle prossime tornate in Emilia-Romagna e Umbria.

     

    Un’elezione bipolare? L’offerta politica e la legge elettorale

    Il sindaco di Genova Marco Bucci e l’ex ministro Andrea Orlando, stando agli ultimi sondaggi, vengono dati entrambi al 47%. Un acceso testa a testa. Eppure alla presidenza concorrono altri 7 candidati, tra cui diversi stimati allo 0,5%, con l’ex presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra intorno al 2,5%. Questi dati, se ribaditi dalle urne, confermerebbero la bipolarizzazione in corso nel sistema politico italiano: un fenomeno già evidenziato alle europee di giugno e, pochi mesi prima, alle regionali di Sardegna e Abruzzo. È un banco di prova rilevante in particolar modo per il centrosinistra: quanto può diventare competitivo con l’alleanza Pd-M5s? Alle precedenti regionali del settembre 2020 i due partiti si presentarono insieme a sostegno del giornalista Ferruccio Sansa, che perse però di 17 punti contro Giovanni Toti (56,1 contro 38,9%). Va ricordato che in quella tornata di regionali, svoltasi pochi mesi dopo lo scoppio del Covid, tutti i governatori uscenti candidati erano stati riconfermati (oltre Toti in Liguria, Zaia in Veneto, De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia). Stavolta il contesto è diverso. Quel che non è cambiato rispetto a quattro anni fa è che nessuna lista fuori dai due poli principali entrerebbe in consiglio regionale. La legge elettorale ligure prevede che 24 seggi su 30 siano ripartiti con metodo proporzionale tra le liste che abbiano superato il 3%, tranne se collegate ad un presidente con almeno il 5%. I restanti 6 seggi formano invece un premio di maggioranza ad assegnazione variabile per la coalizione del governatore vincente, garantendole però non più di 19 seggi in consiglio regionale.

     

    Com’è divisa la Liguria? L’analisi territoriale

    Durante la Seconda Repubblica la Liguria spicca come una delle Regioni elettoralmente più contendibili e meno blindate, sulla falsariga dell’Abruzzo. Ciò non significa che manchino delle specificità territoriali. Storicamente, una chiara linea di demarcazione divide le province di Ponente, Imperia e Savona, e quelle di Levante, Genova e La Spezia. Le prime, in passato, erano caratterizzate da un’impronta democristiana, poi diventata di centrodestra. È evidente, in particolare, a Imperia, provincia dove la coalizione oggi al governo è sempre stata dal 2001 la più votata alle elezioni politiche, registrando scarti notevoli sul centrosinistra persino in contesti bipolari fortemente competitivi come nella sfida Berlusconi-Prodi del 2006 (+23,1%). Il comune di Imperia, non a caso, è il feudo elettorale dell’ex ministro berlusconiano Claudio Scajola, sindaco della città dal 2018 dopo esserlo stato già una prima volta negli anni Ottanta ed una seconda negli anni Novanta.

    Le province a est invece mostrano un orientamento più favorevole al centrosinistra: oltre al Pd, anche il Movimento Cinque Stelle ottiene qui solitamente i suoi risultati migliori, come successo alle politiche del 2018 e del 2022. Un ruolo importante, vista la dimensione demografica, lo ricopre la provincia di Genova, da dove arriva ben oltre la metà di tutti i votanti della Regione (circa il 55%). Vien da chiedersi cosa accadrà nella città, che è amministrata dal candidato di centrodestra Marco Bucci ma alle ultime europee ha visto i partiti del campo largo schierati ora con Orlando sfiorare il 60%.

     

    Bucci vs Orlando: due diverse scelte strategiche

    I due principali candidati riflettono strategie molto diverse. Andrea Orlando, tre volte ministro, è un uomo fortemente di partito: guida una delle componenti del Partito Democratico, e aveva anche provato a diventare segretario nel 2017, perdendo contro Renzi. Il tema che si pone è se, oltre ai dem, gli altri partiti della coalizione lo sosterranno con la stessa forza, in primis il Movimento Cinque Stelle. La Liguria non è soltanto la terra del fondatore Beppe Grillo, ma l’unica regione del Nord Italia in cui alle ultime europee i pentastellati hanno oltrepassato il 10%. L’apporto del partito di Conte è quindi importante  e non va sottovalutato, nonostante una tradizione elettorale negativa nelle tornate locali. 

    Il ragionamento, al contrario, fatto dal centrodestra è stato di puntare su un federatore esterno ai grandi partiti: Marco Bucci, che forse potrebbe  rivelarsi, grazie a questo profilo, più attrattivo verso elettori indecisi e di orientamento moderato. Bucci, in passato, è stato sostenuto in giunta da liste centriste come Azione. I flussi elettorali ci diranno cosa accadrà, ora che Calenda sostiene Orlando. 

    Se il centrodestra vincesse, verrebbe depotenziato il valore nazionale dei successivi appuntamenti elettorali dell’autunno. L’Emilia-Romagna, per Meloni & Co., resta infatti un fortino difficilmente espugnabile, mentre l’Umbria da sola non stravolgerebbe granché. Se vincesse invece Orlando, la formula politica del campo largo, ancora lontana dall’essere praticata con continuità, verrebbe rilanciata, dando la “volata” alle altre due elezioni e aumentando le fibrillazioni politiche quando il dibattito sarà incentrato sulla legge di Bilancio. Nel tempo che rimane di questa legislatura il centrosinistra è chiamato a costruire un’offerta politica che lo renda competitivo alle prossime elezioni nazionali, di “farsi polo” come è riuscito al centrodestra negli ultimi anni, nonostante i cambiamenti nella leadership. È  prioritario evitare di ripetere gli errori del 2022, quando a prevalere fu proprio un Polo solo [Chiaramonte, De Sio 2024], quello di Meloni, Salvini e Berlusconi. Ancora una volta, quindi, una prova elettorale regionale ha importanti implicazioni nazionali.

  • Elezioni USA: testa a testa fino all’ultimo miglio. Analisi e scenari nella sfida Harris-Trump

    Elezioni USA: testa a testa fino all’ultimo miglio. Analisi e scenari nella sfida Harris-Trump

    Paese vasto e complesso, gli Stati Uniti. Gli abitanti sono 333 milioni, con una composizione etnica e demografica in rapida trasformazione. Alle ultime presidenziali gli elettori sono stati oltre 158 milioni, con un’affluenza in netta crescita rispetto al passato (66,6%, +7,4%). Eppure, in questa moltitudine, a decidere il risultato delle elezioni sono ormai poche decine di migliaia di voti sparse in una manciata di Stati chiave. È successo nel 2020 con la vittoria di Biden, e ancor prima con quella di Trump nel 2016. Tutto lascia presagire che sarà così pure nel 2024, in circostanze inedite dopo il ritiro del presidente e il lancio della candidatura della sua vice. “Non ho mai assistito ad un’elezione del genere in vita mia”, ha dichiarato Douglas Rivers, Chief Scientist di YouGov e professore a Stanford. La nuova puntata di Telescope è realizzata grazie ai dati presentati da lui e da David Brady, anche lui professore a Stanford, durante l’evento dello scorso 2 ottobre alla Luiss. Ringraziamo entrambi per averci permesso di utilizzarli in quest’articolo, che spiega perché gli americani sono così divisi e le elezioni presidenziali sistematicamente incerte, sondando possibili scenari relativi alla vittoria di Harris oppure  di Trump.

     

    Nel segno di Reagan: cos’è rimasto degli anni Ottanta?

    Non esistono più i democratici e i repubblicani di una volta. Gli elettorati dei due partiti (e la percezione dei partiti stessi) sono profondamente cambiati negli ultimi decenni. Guardando alla storia recente, la svolta più dirompente è avvenuta negli anni Ottanta sotto la presidenza di Ronald Reagan. Prima di allora, i presidenti democratici venivano considerati come quelli capaci di risolvere i problemi economici. Una convinzione, tuttavia, messa a dura prova sotto la presidenza di Jimmy Carter (1976-1980), quando il Misery Index – un indicatore che combina disoccupazione e inflazione – superò il 10%. Con Reagan il cambio di passo: i repubblicani hanno acquisito più credibilità sui temi economici, ed oggi a beneficiarne è Trump.

    La seconda ragione di questa trasformazione è culturale, legata a temi etici come ad esempio quello, di enorme attualità, dell’aborto. Nel 1972, ai tempi di Nixon, l’elettorato repubblicano era più pro choice (favorevole alla libertà di scelta delle donne) di quello democratico, tanto nel Nord quanto nel Sud del Paese. Sedici anni dopo, proprio al termine del mandato di Reagan (1988), questo rapporto si è invertito. 

    Il lascito principale degli anni Ottanta, dunque, è l’inizio dello spostamento a destra dei repubblicani, con molti meno elettori moderati e conservatori che dichiarano di identificarsi tra i democratici. La tabella 2 è in tal senso emblematica, mostrando il confronto tra 1980 e 1994, quando ormai alla Casa Bianca non sedeva più Reagan ma Clinton. Parallelamente, si osserva il fenomeno speculare: l’inizio dello spostamento a sinistra del partito democratico, a cui dichiarano di identificarsi molti meno moderati e conservatori (questi ultimi pian piano più vicini ai repubblicani).

     

    La super polarizzazione: quanto c’entra Trump?

    Quest’evoluzione maturerà poi negli anni successivi, in prossimità della discesa in campo di Trump. Il tycoon ha contribuito quindi ad un processo già esistente, perché ha acuito il solco tra gli elettorati dei due partiti spingendo i democratici a spostarsi più a sinistra. Lo si riscontra nei grafici sull’ideologia dei partiti tra 2012 e 2020. I democratici hanno perso ulteriormente elettori moderati e conservatori, passando dal 49 al 33%, mentre le varie componenti liberal sono cresciute dal 51 al 67%. Gli elettori americani diventano sempre più polarizzati, distanti anni luce sulle questioni più importanti, pieni di pregiudizi gli uni verso gli altri. I repubblicani credono che il 38% dei democratici appartenga alla comunità LGBT (lo è solo il 6%) e che il 36% sia ateo o agnostico (dato vero: 9%). Viceversa, i democratici credono che il 44% dei repubblicani sia composto da cittadini anziani (che pesano in realtà per circa la metà) e che guadagni più di 250.000 dollari all’anno (si tratta di appena il 2%). In un contesto del genere anche prendere decisioni al Congresso diventa difficile, vista la poca o nulla propensione al compromesso.

     

     

    Convinzioni inossidabili? Lo (scarso) peso dei dibattiti

    È chiaro, di conseguenza, che oggi chi si considera democratico o repubblicano voterà molto probabilmente per il candidato del suo partito, a prescindere dagli eventi della campagna elettorale. Prendiamo i dati di YouGov sui due dibattiti televisivi. Nel primo, andato in onda lo scorso 27 giugno, la perfomance di Biden è stata decisamente negativa, tanto da costargli la rinuncia alla candidatura dopo le forti pressioni subite dal suo partito. Eppure, a fronte di tutto ciò, dopo il dibattito il presidente aveva perso appena l’1% nelle intenzioni di voto dei democratici. Significa che Trump, grazie a quell’evento, non ha guadagnato pressoché nulla sull’avversario. Lo stesso poi è successo il 10 settembre nel secondo dibattito, ma con Kamala Harris. La vicepresidente ne è uscita molto meglio di Trump, ciononostante le intenzioni di voto non hanno fatto registrare alcun spostamento. Si noti che, tanto nel pre quanto nel post dibattito, la percentuale di indecisi o non elettori è rimasta identica: 7%. È una cifra molto bassa, che contribuisce a rendere questa un’elezione iper-competitiva. Sembrerebbe che gli americani, addirittura già a due mesi dalle elezioni, avessero le idee chiare su chi votare. Un comportamento, questo, diverso da quello che si registra in Italia, dove una quota non marginale di elettori decide invece il giorno stesso delle elezioni (Ceccarini e Diamanti 2013).

    Tab. 4 – Percentuale di quanti ritengono che il dibattito TV sarà vinto (o sia stato vinto) da Biden/Harris o da Trump

    Tab. 5 – Come sono cambiate le intenzioni di voto ai candidati presidenti prima e dopo ciascun dibattito

     

    Trump ed Harris: forze e debolezze

    Quel che cambia velocemente nella campagna elettorale americana sono le opinioni su specifiche caratteristiche dei due candidati. Su questo il dibattito ha influito. Trump ne è uscito venendo considerato più confuso (+4,2%) e radicale (2,1%), mentre Harris come più ambiziosa (+3%) e audace (+2,4%). Il problema di Harris, oltre a quello di far parte dell’impopolare amministrazione Biden, è di essere percepita very liberal, un’etichetta che si è rafforzata dopo essere stata designata candidata, come visibile nella seconda visualizzazione: a febbraio, quando era soltanto la vice di Biden, era definita così per il 36%, appena due punti in più del presidente. Ad agosto, a cambio ormai avvenuto, la cifra sale al 42%. La strategia di dipingere Harris come una pericolosa estremista potrebbe dunque giovare a Trump, dal momento che ancora oggi gli americani si considerano in maggioranza moderati (32%) o conservatori (20%).

    Tab. 6 – Percentuale di intervistati che ha menzionato ciascun aggettivo per descrivere i candidati prima e dopo il bibattito TV

    Possibili scenari nell’era dell’incertezza

    Gli Stati Uniti vivono questa elezione con fibrillazione. Per il Prof. Dave Brady due soli partiti non bastano in un Paese così vario, composito, con un’opinione pubblica sempre più cinica. Il rischio è di una reciproca delegittimazione tra i due schieramenti, che può sfociare persino nel non riconoscimento del risultato elettorale, come del resto è avvenuto con Trump nel 2020.

    Se volessimo tracciare degli scenari, potremmo semplificare l’analisi dicendo che “tutto” passa da Kamala Harris. Di Donald Trump ben conosciamo la forza, che verosimilmente gli permetterà di ottenere anche stavolta più di 70 milioni di voti ed essere in gioco negli Stati chiave. E sappiamo pure le debolezze, che lo rendono un candidato divisivo come nessun altro. Harris, quindi: continuerà o no il suo momentum, lo slancio che l’accompagna dall’estate dopo essere diventata candidata? Oppure, come parrebbe, l’entusiasmo diminuirà, assottigliando il suo vantaggio in diversi Stati cruciali? Ciò che è certo, è che se Harris dovesse far fatica nella Sun Belt (gli Stati della cintura meridionale), non prendendo il Nevada e senza spuntarla in almeno uno tra Arizona, Georgia e North Carolina, allora non potrà permettersi di perdere neppure uno degli Stati chiave del nel Mid-West. La partita decisiva è lì, in quegli stessi territori che avevamo individuato nella puntata Telescope di marzo: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Come con Trump e Clinton nel 2016. Come con Trump e Biden nel 2020. A quel punto Harris sarebbe ad un soffio dalla Casa Bianca: 269 grandi elettori. Gliene mancherebbe soltanto 1. Dove potrebbe ottenerlo? Dal 2° distretto del Nebraska, in passato repubblicano ma maggiormente conteso nelle ultime tornate (hanno vinto qui sia Obama nel 2008 che Biden nel 2020). La città di Omaha, dove è nato il miliardario Warren Buffett, risulterebbe decisiva, scrivendo il finale dell’elezione più serrata nella storia americana.

     


    nota: si ringraziano Doug Rivers e David Brady per aver messo a disposizione i dati con i quali sono stati costruiti grafici e tabelle di questo articolo

  • La sinistra, quando governa, fa ancora la “sinistra”? L’analisi sulle disuguaglianze di 20 Paesi in 150 anni

    La sinistra, quando governa, fa ancora la “sinistra”? L’analisi sulle disuguaglianze di 20 Paesi in 150 anni

    Militanti, dirigenti, commentatori, perfino avversari: in molti, sia in Italia che in Europa, rimproverano da anni ai partiti della sinistra al governo di non fare più cose di “sinistra”, cioè di non difendere e migliorare le condizioni dei meno abbienti. Ma è dimostrabile empiricamente? Vincenzo Emanuele e Federico Trastulli lo hanno verificato con una ricerca originale pubblicata ad agosto sulla rivista Perspectives on Politics, dei cui risultati diamo risalto in questa nuova puntata di Telescope. La sinistra, ci si chiede, è stata in grado di realizzare la propria missione di ridurre le disuguaglianze? Se sì, su che cosa e fino a quando? Se no, perché non lo fa più? È davvero tutta colpa di Tony Blair e della sua Terza via? Per rispondere l’articolo compie un’analisi storico-comparata che riguarda 20 paesi dell’Europa occidentale, 150 anni di storia e oltre 600 legislature. E le conclusioni non sono affatto scontate.

    Come misurare il potere?

    Per orientarsi con criterio lungo un secolo e mezzo di storia serve in primis valutare quanto potere sia stato in mano ai partiti della sinistra. Emanuele e Trastulli lo hanno fatto rivedendo e perfezionando l’‘indice di potere governativo’ [Bartolini, 1998]: un indicatore che varia da 0 a 10, composto da elementi essenziali come lo status del partito nel governo (in maggioranza o all’opposizione), e se sì in che ruolo (partner principale o secondario), distinguendo inoltre tra formule politiche diverse (partito unico, coalizione etc…). Questa misura permette di fotografare, nell’arco dei vari decenni, forza e rilevanza dei partiti della sinistra, come visibile nel primo grafico in basso. È interessante notare che dopo “l’età dell’oro” della socialdemocrazia degli anni ‘60 e ‘70 il declino dell’indice sia solo leggero, a fronte di un declino molto più marcato dei risultati elettorali (qui non mostrato). Com’è possibile? Una spiegazione è che questi partiti, una volta entrati nella stanza dei bottoni, acquistino una posizione di centralità nel sistema politico che fornisce loro una capacità negoziale tale da restare al governo anche senza grandi risultati nelle elezioni. La seconda visualizzazione, invece, mostra il valore medio dell’indice per Paese, con l’Italia che figura al quindicesimo posto su 20 (quindi tra i paesi con minore presenza di governo della sinistra).   

    Figura 1 – Potere governativo della sinistra in Europa occidentale (1871-2020)

    Figura 2 – Indice potere governativo della sinistra per Paese (valore medio 1871-2020)

    Le diseguaglianze: quali sono diminuite davvero?

    Il passaggio successivo è stabilire quali sono le diseguaglianze da valutare in questi 150 anni, non limitandosi a quelle di reddito tradizionalmente trattate dalla letteratura. Le diseguaglianze, infatti, non sono riducibili solamente alle condizioni economiche. Proprio per questo l’articolo ha individuato sette diverse forme di disuguaglianza (in ambito economico, sociale e politico): diseguaglianze di reddito e welfare; educativa e sanitaria; nella distribuzione del potere politico per posizione socioeconomica, gruppo sociale (etnico, linguistico, religioso) e genere (uomo/donna).

    Ebbene: la sinistra, quando è andata al governo, è riuscita a ridurle? Sì, ma non tutte. Ha indubbiamente contribuito a diminuire quelle legate al welfare e alla distribuzione del potere politico per gruppo sociale e status socioeconomico. Ha inoltre migliorato l’uguaglianza sociale relativamente a istruzione e assistenza sanitaria, seppure i dati mostrino che, al giorno d’oggi, ci sarebbero ancora ampi margini di miglioramento. Tuttavia, la sinistra al governo non è riuscita a ridurre davvero i divari di reddito, e di distribuzione del potere politico per genere. Insomma: in Europa occidentale, che pure è il luogo meno diseguale al mondo, esiste ancora ampio margine di intervento grazie a politiche pubbliche appropriate.

    Figura 3 –Disuguaglianze economiche, politiche e sociali in Europa occidentale (1871-2020)

     

     

     

    La svolta degli anni Ottanta: la forza dei vincoli esterni

    Ma c’è di più: la situazione è cambiata in modo significativo negli ultimi decenni. Se infatti è vero che la sinistra al governo ha certamente ridotto le diseguaglianze, ormai non lo fa più in maniera significativa dagli anni Ottanta. A partire da questo momento, infatti, la sinistra al governo appare indistinguibile dai partiti di centrodestra (che non hanno raggiunto obiettivi egualitari, non avendoli mai perseguiti). Questo ci permette di correggere il tiro su un tema di dibattito presente nel mondo progressista: non sono state per prime le soluzioni ispirate alla Terza via di Tony Blair a fermare improvvisamente il cammino della sinistra nella lotta alle diseguaglianze, bensì si è trattato di un processo politico lungo vari decenni. Tra le possibili spiegazioni discusse nell’articolo, quella che sembra emergere come più probabile è che la minore capacità della sinistra al governo di ridurre le disuguaglianze sia imputabile  soprattutto al peso crescente di vincoli esterni – come quelli richiesti dall’Unione Europea e dai mercati globali – sulle politiche nazionali, che limitano il margine di manovra dei partiti al governo in materia di politica economica e sociale, con effetti specialmente tangibili nelle aree di policy economica e sociale tradizionalmente associate alla sinistra.

    Figura 4 – Effetto marginale del potere governativo della sinistra sulle diverse diseguaglianze

     

    Conclusione

    Il risultato delle dinamiche pluridecennali descritte nell’articolo è che oggi i partiti di sinistra non sono più quelli giudicati più credibili nel correggere le diseguaglianze. Ad esempio, dati recenti sull’Italia (De Sio, Maggini e Mannoni 2024) ci dicono che il partito più credibile sulla lotta alle diseguaglianze (specie economiche) è stato negli ultimi anni il Movimento Cinque Stelle e ormai un’ampia letteratura vede i partiti populisti di destra sempre più premiati dai ceti più disagiati (anche se in realtà tra questi ultimi la sinistra è spesso ancora prevalente: Oesch e Rennwald 2018); addirittura alcuni studi hanno mostrano che importanti partiti populisti di destra hanno guadagnato voti, negli ultimi anni, per la loro credibilità su proposte economiche di protezione sociale, ovvero “di sinistra” (Angelucci e De Sio 2021). Quest’ultimo sviluppo non sorprende, anche alla luce del fatto che l’integrazione sovranazionale (sostenuta anche dalla sinistra) per certi versi ha tolto ai governi nazionali alcuni strumenti di governo dell’economia per combattere le diseguaglianze; di fronte quindi a una difficoltà a regolare l’economia, è inoltre anche il tema dell’immigrazione ad alimentare (tra i ceti più disagiati) il successo dei partiti populisti di destra (Bornschier e Kriesi 2012). Ma questa è un’altra storia.

    Riferimenti bibliografici

    Angelucci, D. e De Sio, L. (2021), “Issue characterization of electoral change (and how recent elections in Western Europe were won on economic issues)”, in Italian Journal of Electoral Studies (IJES)84(1), 45–67. https://doi.org/10.36253/qoe-10836

    BartoliniS. (1998),Coalition Potential and Governmental Power.” in Comparing Party System Changes, Vol. 2, eds. Jan-Erik Lane and Paul Pennings3656London, Routledge.

    Bornschier, S. e Kriesi, H. (2012), “The Populist Right, the Working Class, and the Changing Face of Class Politics.” In Class Politics and the Radical Right, edited by Jens Rydgren, 28–48. Routledge. https://doi.org/10.4324/9780203079546

    De Sio, L., Maggini, N., Mannoni, E. (2024), “Al cuore della rappresentanza. I temi in discussione, tra domanda dell’elettorato e offerta dei partiti”, in A. Chiaramonte e L. De Sio (a cura di.), Un polo solo. Le elezioni politiche del 2022, Bologna, Il Mulino, pp.47-76.

    Emanuele, V., Trastulli, F. (2024) “Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020)”, in Perspectives on Politics, 2024 pp. 1-20. https://doi.org/10.1017/S1537592724000628

    Oesch, D., Rennwald, L. (2018), “Electoral competition in Europe’s new tripolar political space : class voting for the left, centre-right and radical right”, in European journal of political research, 2018, Vol. 57, No. 4, pp. 783-807  – https://hdl.handle.net/1814/51132

     

     

     

  • Elezioni amministrative: il centrosinistra vince e fa meglio al 1° turno che al ballottaggio

    Elezioni amministrative: il centrosinistra vince e fa meglio al 1° turno che al ballottaggio

    Sul verdetto delle elezioni amministrative, come da consuetudine, gli schieramenti si dividono nel riconoscere chi ha vinto e chi ha perso. In questa puntata di Telescope, l’ultima prima della pausa estiva, commentiamo i risultati dei comuni superiori andati al voto a giugno, che riguardavano quasi 17 milioni di elettori. Nel farlo, analizziamo i dati delle 217 città che già nella precedente tornata raggiungevano i 15.000 abitanti. Questa scelta ci permette di confrontare comuni che sia in queste che nelle scorse elezioni hanno eletto il sindaco col sistema elettorale che prevede la possibilità del ballottaggio. Proprio lo strumento del ballottaggio è rientrato nella discussione del dibattito pubblico, dopo che il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, ne ha ventilato la sua cancellazione.

    Il bipolarismo si rafforza

    Sul totale dei 217 comuni superiori i risultati non registrano stravolgimenti dalle ultime consultazioni. Centrosinistra e centrodestra accrescono entrambi il proprio bottino, passando rispettivamente da 112 a 113 e da 76 a 78 comuni. Spicca subito un dato, analizzando il successo dei due schieramenti: il centrosinistra, nel complesso delle sue 113 vittorie, prevale di più al 1° turno (70, cioè il 62%) di quanto faccia invece il centrodestra (43, ovvero il 55%). Cosa significa? Che rispetto ai competitor non è stato il ballottaggio a incidere di più nelle vittorie progressiste, ma la capacità di chiudere subito la partita all’inizio superando la soglia del 50% (il 40% in Sicilia). Un fattore su cui può aver inciso l’alto numero di comuni andati al voto nella ex Zona rossa.

    Tab. 1 – Bilancio delle vittorie tra primo turno e ballottaggio

    Nota metodologica: in continuità con criteri già utilizzati dal CISE in passato, i civici risultano in numero inferiore rispetto a quello indicato da altre fonti. Diverse volte, specie nei comuni più piccoli, questi candidati ricevono infatti il sostegno di liste che altro non sono che partiti nazionali sotto mentite spoglie. Ecco perché allora, in queste situazioni, scegliamo di non etichettare il candidato come civico.

    Fig. 1 – Comuni in cui si è votato a giugno ed esito del voto

    Il territorio: il centrodestra progredisce al Nord, bene il centrosinistra al Sud

    Nel confronto per zona geopolitica emergono le differenze maggiori. Il centrodestra progredisce nel Nord (da 41 a 42 comuni) e nella ex Zona Rossa (da 18 a 19), all’opposto del centrosinistra che arretra sia nell’una (da 28 a 26) che nell’altra (da 61 a 55). Gli scostamenti più significativi si registrano però nel Centro-Sud (comprese le Isole): è qui che i sindaci progressisti crescono sensibilmente (da 23 a 32), specie a scapito dei civici, che risultano quasi dimezzati (da 14 a 8); mentre il centrodestra rimane a numeri invariati (sempre 17). Scompaiono, inoltre, i 2 primi cittadini con una coalizione segnatamente di sinistra. Sembrerebbe in tal modo consolidarsi ulteriormente il bipolarismo, già uscito rafforzato dal voto europeo.

    Fig. 2 – Bilancio delle vittorie per schieramento nei comuni del Nord (le tonalità più chiare indicano la precedente tornata e quelle più scure quella del 2024)

    Fig. 3 – Bilancio delle vittorie per schieramento nei comuni dell’ex zona rossa

    Fig. 4 – Bilancio delle vittorie per schieramento nei comuni del Sud

    E i capoluogo? Avanza il centrosinistra

    La vittoria del centrosinistra è stata invece evidente nei comuni capoluogo di provincia, (in particolare in quelli anche capoluogo di regione) con un netto 6 a 0 sul centrodestra, maturato quasi sempre al ballottaggio (Firenze, Bari, Perugia, Potenza e Campobasso). Si tratta di vittorie importanti, che contribuiscono ad aumentare il numero di amministrazioni progressiste nei comuni capoluogo di provincia (da 13 a 17). Il centrodestra passa da 12 a 10 comuni, strappando al centrosinistra Lecce e Rovigo. Limitato anche in queste città l’impatto dei candidati civici, di nuovo alla guida di Avellino ed ora anche di Verbania, dopo aver perso Sassari.