Autore: David W. Brady

  • Midterm elections alla Camera: le previsioni a pochi giorni dal voto

    Midterm elections alla Camera: le previsioni a pochi giorni dal voto

    David W. Brady detiene la cattedra Bowen H. e Janice Arthur McCoy di Scienze Politiche presso la Graduate School of Business (GSB) della Stanford University ed è il Davies Family Senior Fellow presso l’Hoover Institution. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.

    Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University e assistente di ricerca presso la Hoover Institution.

    Traduzione di Elisabetta Mannoni.

    In merito alle elezioni della Camera del 2018, la stampa si è per lo più soffermata sul tentativo di individuare le sfide più incerte e predirne i risultati. Alcuni modelli accademici hanno utilizzato lo stesso approccio, basando le loro conclusioni su un’analisi dei collegi altamente competitivi. Altri ancora hanno optato per modelli di regressione, usando una combinazione di giudizi di approvazione del Presidente in carica, sondaggi sul voto al Congresso, ed altri fattori di vario tipo tra cui il reddito.

    L’approccio che proponiamo noi è diverso e si basa sulle ultime tre elezioni che hanno generato nuove maggioranze alla Camera. Se le riduciamo alla loro essenza, le elezioni del Congresso statunitense sono definite da tre variabili: (1) Quanti Democratici, Repubblicani ed Indipendenti ci sono tra gli aventi diritto al voto nella popolazione? (2) In che percentuale ciascun gruppo voterà per i Democratici/Repubblicani? E (3) chi andrà a votare? Una volta data una stima ragionevole di questi valori, si possono fare delle previsioni abbastanza veritiere sul risultato. (fleshbot.com)

    La prima di queste variabili è piuttosto facile da stimare[1]. Ogni settimana, una serie di sondaggisti chiede ai cittadini statunitensi con quale partito si identifichino, fornendo un costante flusso di dati sulla distribuzione dell’identificazione di partito da parte dei cittadini. Analogamente, predire come voteranno i cittadini identificati con un partito risulta, dal 1990, abbastanza intuitivo – circa il 90% vota per il partito a cui è affiliato senza alcuna deviazione. Tuttavia, l’ultima variabile, l’affluenza, è notoriamente la più difficile da definire con precisione. In parte perché in molte elezioni di midterm i Repubblicani hanno ottenuto percentuali di affluenza più alte di quelle dei Democratici, mentre in altre sono stati i Democratici ad avere la meglio. Comunque, usando la storia più recente come punto di riferimento, è evidente che, perché i Democratici possano conquistare la Camera, devono ripetere, o quantomeno avvicinarsi, al risultato ottenuto nel 2006. L’affluenza è dunque l’elemento cruciale di qualsiasi modello di previsione.

    I Democratici sono entrati in ogni moderno ciclo elettorale con un vantaggio in termini di cittadini identificati con il partito, cosa che garantiva loro una certa protezione contro la scarsa affluenza a midterm. Dal New Deal fino alla seconda metà degli anni ’80, i Democratici sono stati il partito dominante in termini di cittadini espressamente identificati con uno dei partiti, garantendosi sempre distacchi di circa venti punti. A partire dal 1990 però, tale margine è andato riducendosi in maniera sostanziale. La Tabella 1 mostra il cambiamento. Occorre sottolineare come l’identificazione di partito venga scomposta in due modalità. La tabella mostra anzitutto la distribuzione delle risposte alla domanda: Ti consideri un Democratico, Repubblicano o Indipendente? Inoltre, riporta anche la distribuzione delle risposte considerando tra gli identificati con i partiti anche coloro che colore che si definiscono indipendenti ma che però indicano di propendere verso uno dei partiti piuttosto che verso l’altro. Tra il 1950 e il 1990, i Democratici avevano la meglio, qualsiasi sia la modalità di scomposizione adottata, con un vantaggio medio di 18 punti percentuali. Dal 1990, però, tale valore si è contratto fino a soli 6 punti percentuali, in media. Di fatto, i Repubblicani sono diventati molto più competitivi nelle elezioni del Congresso di quanto non fossero prima – anzi, hanno ottenuto la maggioranza alla Camera in ogni elezione di midterm dal 1990 ad oggi (salvo nel 2006). Col ridimensionamento del vantaggio democratico nell’identificazione di partito (e la sua riduzione ad un terzo rispetto agli anni precedenti il 1990), i Repubblicani sono stati in grado, facendo leva su un’affluenza maggiore, di ottenere il controllo del Congresso.

    Tab. 1 – Identificazione di partito prima e dopo il 1990, valori percentualiUS18_2_1I sondaggi settimanali di YouGov suggeriscono che nel 2018 l’identificazione per i Democratici è leggermente più alta rispetto al suo livello medio post-1990. A settembre, i Democratici avevano raggiunto un distacco di 8 punti percentuali senza gli Independent-leaners (32,3% vs. 24,2%), e di 6,7 punti includendoli. Ad ottobre, i Repubblicani hanno accorciato le distanze, portandosi a 7,8 punti dai Democratici, leaners esclusi – ma stavolta il gap sale a 7,3 una volta che le propensioni di questi ultimi vengono prese in considerazione. Dunque, i risultati di ottobre suggerirebbero che i Democratici siano in una posizione di particolare forza in termini di identificazione rispetto alle recenti elezioni di midterm.

    Tab. 2 – Identificazione di partito nel 2018, valori percentualiUS18_2_2

    Se da una parte hanno registrato un calo nella loro identificazione di partito, i Democratici hanno però guadagnato molto, recentemente, in termini di lealtà da parte dei loro sostenitori. Prima del 1990, infatti, i Democratici tendevano a votare per il loro candidato alla Camera meno del 90% delle volte. Tra il 1994 e il 2002, questa percentuale è crollata ulteriormente, ma oggi si assesta attorno al 90%. Nel frattempo, anche la lealtà dei Repubblicani è fortemente aumentata. Prima del 1990, poco più dell’80% dei Repubblicani votava per il candidato del proprio partito alla Camera, tra il 1990 e il 2002 questo dato è salito all’85%, e si è sempre aggirato attorno al 90% da allora. In questo caso, includere o meno gli Independent-leaners non altera il quadro.

    La Tabella 3 contiene stime di sondaggio circa la lealtà nel voto nei confronti del proprio partito di identificazione (e le intenzioni di voto degli Indipendenti) dopo la Festa dei lavoratori del 2018. A metà settembre, circa l’89% dei Democratici (con o senza leaners) aveva detto che avrebbe votato Democrat, mentre il 4-5% aveva dichiarato che avrebbe votato Republican. I Repubblicani mostravano un livello di lealtà leggermente inferiore, con una percentuale dei propri identificati pronti a votare a favore del candidato GOP che si aggirava attorno all’86-87,4% – con o senza leaners, rispettivamente. A ottobre, identificarsi con un partito piuttosto che l’altro comporta una differenza ancor più marcata: più del 91% tanto dei Democratici quanto dei Repubblicani si è detto intenzionato a votare per il candidato del proprio partito.

    Cosa possiamo dire degli Indipendenti? Nelle ‘elezioni terremoto’ (wave elections) del 1994, 2006 e 2010, il partito vincitore aveva conquistato il favore degli Indipendenti e i loro voti potrebbero fare la differenza ancora una volta quest’anno. A settembre, erano divisi quasi equamente, con i Democratici attorno ad un 38,1% e i Repubblicani attorno al 38,2%. Tuttavia, i sondaggi di ottobre mostrano i Democratici in vantaggio tra gli Indipendenti di circa 6,4 punti percentuali.

    Tab. 3 – Intenzioni di voto per identificazione di partito dopo il Labor day (3 settembre), valori percentualiUS18_2_3Questo cambiamento non presagisce niente di buono per i Repubblicani, i quali, avendo meno identificati, possono prevalere nelle elezioni nazionali solo conseguendo il supporto degli Indipendenti o un livello di affluenza dei propri identificati più alto di quello dei Democratici. Pertanto, esaminare l’affluenza è cruciale per capire se i Repubblicani possono arginare le loro perdite nel 2018.

    Dal momento che la domanda cruciale di queste elezioni è se i Democratici riconquisteranno la maggioranza alla Camera, è utile considerare i trend di affluenza delle precedenti tornate elettorali. La Tabella 4 fornisce questi dati, indicando l’affluenza dei fortemente identificati, i debolmente identificati e gli indipendenti che tendono verso un partito nelle ultime tre elezioni terremoto. Nella Rivoluzione Repubblicana del 1994, gli elettori del partito conservatore lo hanno supportato, a tutti i livelli, in misura maggiore rispetto ai democratici– quanto bastava per superare il vantaggio numerico che i questi avevano. Analogamente, nel 2010 i Repubblicani hanno schiacciato i Democratici in termini di affluenza, raggiungendo dei distacchi impressionanti (15 punti tra fortemente identificati, 16 tra gli Indipendenti con una propensione, e 24 punti tra i debolmente identificati).

    L’unica recente ondata blu è stata quella del 2006. In quel caso, l’affluenza dei Democratici ha più o meno pareggiato quella dei Repubblicani – abbastanza da garantire ai Democratici la vittoria nella Camera dato il loro vantaggio numerico di partenza in termini di identificati.

    Tab. 4 – Partecipazione elettorale alle elezioni terremoto di midterm  dopo il 1994 per identificazione di partito, valori percentualiUS18_1_1Assemblando quanto finora considerato, sembrerebbe che i Democratici abbiano una possibilità di vincere alla Camera nel 2018, se la loro affluenza raggiungerà i valori del 2006. Il nostro modello di affluenza – che presenta una regressione dei tassi storici di affluenza su variabili indipendenti quali approvazione del presidente e altre variabili di tipo economico – mostra come questa sia una possibilità reale. In questo momento, prevediamo che l’affluenza dei Democratici si assesterà attorno al 70% per i fortemente identificati, al 58% per i debolmente identificati e al 61% per gli Indipendenti tendenti democratico. Quanto ai Repubblicani, prevediamo affluenze rispettivamente pari al 68%, 58% e 74%. Queste divergenze implicherebbero di fatto una replica dell’entusiasmo mostrato nel 2006 da parte dei Democratici.

    Unendo le stime di affluenza sopra citate insieme ai dati circa la relazione fra il voto al Congresso e l’identificazione di partito presentati nelle Tabelle 1-3, emerge che i Democratici vincerebbero, con approssimativamente un 52% dei voti alla Camera nel 2018. Una cifra del genere normalmente sarebbe sufficiente a garantire 226 seggi ai Democratici, e quindi la maggioranza nella Camera; tuttavia, i Repubblicani hanno solitamente ottenuto un ‘bonus seggi’ alla Camera come risultato del disegno dei collegi e della grande concentrazione di elettori democratici nelle aree urbane. Di conseguenza, un vantaggio di soli 4 punti percentuali nel voto complessivo tra i due partiti potrebbe non essere sufficiente a far prevalere i Democratici nella Camera.

    Crediamo, tuttavia, che i Democratici possano probabilmente ottenere un risultato addirittura migliore di questa previsione iniziale. Il dato del 52% è basato su un 15% di cosiddetti Indipendenti “puri”, un dato storicamente di rara realizzazione. Il numero di Indipendenti che tendono verso l’uno o l’altro partito aumenta mano a mano che le elezioni si avvicinano, e, come indicato dalla Tabella 1, solo il 12% degli individui si dichiara un “Indipendente Puro” il giorno del voto. Prendendo in considerazione questo dato, la nostra previsione per i Democratici sale al 52,3% dei voti.

    Inoltre, c’è motivo di credere che il livello di approvazione del Presidente Trump tra i Repubblicani sia relativamente basso. Per fare un esempio, del 77% dei Repubblicani ‘deboli’ che approvano il lavoro di Trump, solo il 30,3% lo approva convintamente; il resto di loro, lo approva ‘abbastanza’. Analogamente, tra i Democratici più entusiasti, il 30,1% indica l’affiliazione partitica dei candidati come il fattore più importante nella determinazione del proprio voto (contro un più basso 22,7% tra i Repubblicani più entusiasti). E, in particolare per le donne, la percentuale sale al 32%. Infine, quanto alla capacità di raccogliere fondi elettorali, i Democratici sono nettamente in vantaggio – 850 milioni di dollari, contro i soli 577 raccolti dai Repubblicani. Di fatto i Democratici hanno un vantaggio di 3 a 2 in termini di denaro con riferimento ai collegi competitivi, che mette in luce una ancor più forte debolezza della posizione dei Repubblicani.

    In un’ottica generale, quello che questi dati suggeriscono è che i Repubblicani difficilmente supereranno l’affluenza ottenuta nel 2006. Se assumessimo quindi che i loro sostenitori replichino l’affluenza registrata dodici anni fa – e i Democratici si rechino alle urne secondo le percentuali sopra menzionate – il nostro modello prevede che i Democratici vinceranno con il 54% dei voti in loro favore. In proporzione, in termini di seggi, lo scenario sarebbe di 235 seggi per i Democratici, contro i 200 dei loro oppositori. Se il bonus seggi dei Repubblicani sarà inferiore al solito (ipotesi ragionevole, data la probabile correlazione tra i risultati dei collegi), ci aspettiamo che i Democratici prevarranno con una piccola maggioranza nella Camera. Per le ragioni discusse sopra, pensiamo che questo sia il risultato più probabile. È, ovviamente, possibile che negli ultimi giorni di campagna qualche evento possa muovere di uno o due punti percentuali le tendenze degli elettori rispetto ad un partito o all’altro, e a seconda di quale partito sia oggetto della loro nuova preferenza, i Democratici potrebbero avere un margine più grande o i Repubblicani potrebbero finire per avere la maggioranza della Camera. Dato il poco tempo rimasto e l’intensità del clima di opinione, crediamo che la nostra previsione su una Camera Democratica sia la corretta.

    Riferimenti bibliografici

    Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.

    Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.

    Gambini, Bert (2018), ‘UB expert’s election forecasting model predicts big House gains for Dems’. https://www.buffalo.edu/news/releases/2018/09/004.html

    Kondik , Kyle (2018), ‘Five days to go. Where we’re leaning in the House, Senate, and governors’. https://crystalball.centerforpolitics.org/crystalball/

    Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.

    Tien, Charles, e Michael S. Lewis-Beck  (2018), ‘Congressional Forecasts for 2018: Structure-X Models’. https://crystalball.centerforpolitics.org/crystalball/articles/congressional-forecasts-for-2018-structure-x-models/


    [1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).

    Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 1). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.

    Fig. 1 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)scala_7_PID_ITA

  • Verso un terremoto elettorale nelle midterm elections?

    Verso un terremoto elettorale nelle midterm elections?

    Traduzione di un articolo in inglese originariamente e pubblicato su Real Clear Politics.
    Copyright © 2018 RealClearHoldings, LLC.

    David W. Brady detiene la cattedra Bowen H. e Janice Arthur McCoy di Scienze Politiche presso la Graduate School of Business (GSB) della Stanford University ed è il Davies Family Senior Fellow presso l’Hoover Institution. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.

    Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University e assistente di ricerca presso la Hoover Institution.

    Se definiamo le ‘elezioni terremoto’ (‘wave elections’) a midterm  quelle in cui si registri una perdita di almeno 30 seggi per il partito politico del presidente in carica, dal 1932 ci sono state nove elezioni di questo tipo, su un totale di 21 – anche se in cinque di esse il controllo del Congresso non è cambiato. Tuttavia i democratici quest’anno, per conquistare la maggioranza alla Camera, non hanno bisogno di avanzare di 30 seggi. Gliene bastano 24 – rispetto a quelli conquistati due anni or sono, 23 se guardiamo ai seggi democratici oggi, alla vigilia del voto, compreso quindi il 18° distretto della Pennsylvania (conquistato in elezioni suppletive nel marzo di quest’anno).

    I democratici hanno controllato la Camera per 60 dei 64 anni tra il 1930 e il 1994. Nell’era post-1994, caratterizzata invece dalla competitività fra i due partiti, ci sono state tre elezioni terremoto, due a vantaggio dei repubblicani (1994, 2010) e una per i democratici (2006). In tutti e tre, la Camera ha cambiato colore politico.

    Nelle due elezioni terremoto a favore del GOP, gli elettori repubblicani di tutte i tipi – fortemente identificati con il partito, debolmente identificati e indipendenti tendenti verso il partito[1] – si sono recati alle urne a livelli più alti rispetto ai simmetrici tipi democratici, il che mitigava il vantaggio del Partito Democratico nel numero di elettori registrati come propri partisan.

    La Tabella 1 mostra i risultati dell’affluenza nelle elezioni terremoto di midterm a partire dal 1994. I numeri indicano la percentuale di elettori che si dichiaravano fortemente o debolmente identificati con il partito o indipendenti tendenti verso quel partito, che hanno votato. Sebbene sia 1994 che nel 2010, i repubblicani di tutte le categorie siano andati alle urne in numero maggiore rispetto ai democratici, ciò era particolarmente vero nel 2010. L’affluenza più alta è risultata cruciale per i repubblicani, poiché in entrambe le elezioni dovevano superare il vantaggio numerico dei democratici – nel 1994 il 46% di elettori registrati contro il 42%, nel 2010 il 46% contro il 39%). Nell’elezione terremoto a favore dei democratici del 2006, la percentuale di partecipazione elettorale democratica e repubblicana era quasi pari, ma c’erano ancora una volta più democratici registrati rispetto ai repubblicani (47% contro il 41%), che diedero il vantaggio ai democratici.

    Tab. 1 – Partecipazione elettorale alle elezioni terremoto di midterm  dopo il 1994 per identificazione di partito, valori percentualiUS18_1_1Un altro fattore che aiuta il GOP nel cercare di compensare i suoi numeri più bassi rispetto ai democratici è che, in media, i repubblicani tendono a votare candidati del loro partito più spesso di quanto non facciano i democratici. Nel 1994, circa il 30% dei democratici identificati debolmente o indipendenti tendenti al partito ha votato repubblicano, mentre solo poco più del 20% degli analoghi gruppi repubblicani ha votato democratico. Nel 2010, il 20% dei democratici debolmente identificati ha votato repubblicano, come il 10% degli indipendenti tendenti democratico – il doppio rispetto agli analoghi gruppi repubblicani che hanno votato democratico. Nel terremoto pro-democratici del 2006, i repubblicani debolmente identificati e gli indipendenti tendenti repubblicano hanno votato candidati democratici a livelli del 25% e del 16%, rispettivamente; mentre i democratici debolmente identificati e gli indipendenti tendenti democratico erano più fedeli ai candidati del loro partito, accrescendo così l’iniziale vantaggio numerico dei democratici.

    Inoltre, in quell’elezione del 2006, c’era poco o nessun vantaggio nella partecipazione alle urne per il GOP. Così i democratici poterono avvantaggiarsi grazie ai numeri favorevoli circa gli elettori registrati, e al fatto che i propri identificati abbiano votato fedelmente al partito più di quanto non abbiano fatto i repubblicani.

    Questa analisi lascia fuori gli indipendenti puri, che risultano in numero inferiore rispetto agli identificati, ma sono ancora in numero sufficiente per decidere un’elezione. Nel 1994, l’affluenza degli indipendenti puri è stata del 34% e hanno diviso il proprio voto 50/50. Nel 2010, la loro affluenza è scesa leggermente (al 33%), ma tra quelli che hanno votato, poco più del 60% ha votato repubblicano.

    Alle elezioni di midterm del 2006 si è registrato un valore molto alto per l’affluenza degli indipendenti puri: il 44%. E il 62% di questi ha votato democratico. Insomma, nelle elezioni terremoto il partito che sale può contare su una partecipazione elettorale più alta dei propri elettori – e quelli che votano lo fanno fedelmente al partito; mentre gli indipendenti non influenzano il risultato (1994) o si aggiungono all’ondata in favore di quel partito.

    I democratici hanno preso parte a tutte le elezioni post-1992 post-anno con un vantaggio numerico in termini di elettori registrati, che i repubblicani devono mitigare aumentando l’affluenza alle urne e attraverso un voto più fedele dei propri identificati. I democratici, d’altra parte, devono solo approssimare l’affluenza repubblicana e i loro livelli di fedeltà partitica nel voto per vincere le elezioni. Gli indipendenti possono rinforzare la scossa di terremoto, come hanno fatto nel 2006 e nel 2010, seguendo quindi sia un terremoto blu che uno rosso, oppure possono dividere il loro voto come fecero nel 1994.

    A settembre di ognuna di queste elezioni terremoto, il grado di approvazione del presidente era inferiore al 50% e, nel caso di George W. Bush, inferiore al 40%. Inoltre, in due dei tre (2006 e 2010), l’economia era in recessione.

    Dati questi scenari, che aspetto ha il 2018 per i democratici, dal momento che nessuno (a parte Newt Gingrich) pensa che il 2018 sarà un’elezione terremoto a vantaggio dei repubblicani? Al momento della stesura di questo documento, il presidente Trump ha ottenuto un voto medio di approvazione del sondaggio RealClearPolitics del 44,2%, che lo colloca al di sotto di Bill Clinton nel 1994 e Barack Obama nel 2010 ma al di sopra di Bush nel 2006. Uno sguardo ai sondaggi settimanali YouGov mostra che i democratici sono più numerosi dei repubblicani (tra i 5 e i 6 punti percentuali), e dal 1° agosto i democratici hanno mantenuto un vantaggio sui repubblicani nell’intenzione di partecipare al voto con circa il 45% contro il ​​40% – e con l’attuale ripartizione per livellodi identificazione con in partito indicata nella Tabella 2.

    In tutte le categorie di intensità dell’identificazione di partito, i democratici stanno segnalando che voteranno fedelmente al partito per il Congresso a tassi più alti rispetto ai repubblicani. I numeri per i democratici sono sostanzialmente uguali a quelli del 2006, mentre i numeri per i repubblicani sono al di sotto dei loro nelle elezioni del 2010 e del 1994. Il vantaggio democratico sia nel numero di elettori registrati che nelle intenzioni di voto sono buoni segnali per il partito.

    Tab. 2 – Intenzione di voto per il proprio partito alle elezioni di midterm per identificazione di partito, valori percentualiUS18_1_2Il tempo e gli eventi di qui al 6 novembre potrebbero cambiare questi indicatori. Tuttavia, le probabilità che il voto o l’identificazione del partito passino ai repubblicani tra oggi e il giorno delle elezioni non sono buone. Un gruppo che potrebbe influenzare questi risultati è quello degli indipendenti puri, che votano meno degli identificati con un partito e decidono come votare durante la campagna elettorale. Nell’ultimo sondaggio, questi si dichiarano per il 28% intenzionati a votare democratico, contro il 26% percento per i repubblicani, e con il 29% che afferma di non essere sicuro. Se queste percentuali rimarranno fino all’election day, il vantaggio numerico dei democratici prevarrà.

    Guardando al 2018 a una settimana dalle elezioni, i democratici sono in vantaggio in termini numerici, in vantaggio nell’intenzione di voto degli identificati e in (lieve) vantaggio tra gli indipendenti puri, tutti punti che suggeriscono un’acquisizione democratica della Camera dei rappresentanti. La variabile mancante è, ovviamente, l’affluenza.

    Se più repubblicani voteranno in numeri superiori al previsto, i vantaggi dei democratici saranno ridotti. Nei nostri sondaggi, abbiamo fatto due domande che tentano di discernere i probabili livelli di affluenza. La prima chiede agli intervistati se, rispetto alle precedenti elezioni del Congresso, sono più o meno entusiasti; la seconda chiede chiaramente se hanno in programma di votare nelle elezioni di quest’anno. Finora, i repubblicani hanno ottenuto un punteggio un po’ più alto nell’entusiasmo, mentre più democratici dicono che voteranno sicuramente nel 2018.

    Un evento che potrebbe influire sul risultato è la polemica nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, in particolare per quanto riguarda le percentuali di affluenza alle donne. Trump ha problemi con gli indipendenti e le donne, come abbiamo notato in un pezzo del RealClearPolitics del 22 marzo 2018. In un recente sondaggio YouGov, fra le donne istruite c’è un vantaggio per i democratici nel voto di poco più di 30 punti percentuali, da 57,3% a 27,2%, e oltre i tre quarti sono intenzionate a votare. In breve, anche se le indagini dell’FBI su Kavanaugh non ne hanno bloccato la conferma alla Corte Suprema, le donne e gli indipendenti hanno già dei dubbi su Trump e i candidati repubblicani. Vedremo tra una settimana quali saranno i numeri finali…

    Riferimenti bibliografici

    Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.

    Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.

    Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.


    [1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).

    Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 1). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.

    Fig. 1 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)scala_7_PID_ITA

  • La matematica delle elezioni di midterm

    La matematica delle elezioni di midterm

    David W. Brady detiene la cattedra Bowen H. e Janice Arthur McCoy di Scienze Politiche presso la Graduate School of Business (GSB) della Stanford University ed è il Davies Family Senior Fellow presso l’Hoover Institution. Da molti anni, attraverso la Hoover Institution della Stanford University, è partner del CISE per ricerche comparate internazionali e transatlantiche su temi elettorali.

    Brett Parker è uno studente di dottorato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Stanford University e assistente di ricerca presso la Hoover Institution.

    Traduzione di Elisabetta Mannoni.

    Il periodo precedente le elezioni del 2018 è stato caratterizzato da un consenso generalizzato in merito ai probabili risultati. Gli analisti che scrivono per FiveThirtyEight, Sabato’s Crystal Ball, Cook Political Reports e altri siti web dediti alle previsioni elettorali attribuiscono ai democratici un’alta probabilità di assumere il controllo della Camera, mentre invece alte sono le chance che il Senato resti repubblicano.

    Perché analisti, giornalisti, sondaggisti e altri sono così convinti che questo 2018 porterà una Camera democratica? Uno dei fattori più frequentemente citati è lo scarso apprezzamento di cui gode il Presidente Trump, che negli ultimi due mesi si è mantenuto poco sopra al 40%. Tassi di approvazione così bassi sono stati storicamente forieri di notevoli arretramenti nel Congresso per il partito del Presidente. Se definiamo come ‘terremoto’ (‘wave‘) di metà mandato una perdita netta di almeno 30 seggi alla Camera per il partito del Presidente, allora una approvazione presidenziale inferiore al 50% è stato spesso il segnale di un terremoto incombente. I presidenti Truman, Johnson, Nixon, Clinton, Bush II e Obama avevano tutti livelli di approvazione inferiori al 50% durante le elezioni di metà mandato in cui i loro partiti hanno subito perdite superiori ai 30 seggi. Quindi, la bassa valutazione dell’operato di Trump suggerisce caldamente un terremoto in arrivo.

    L’altro onnipresente barometro dei risultati a midterm è la domanda circa il ‘Generic Congressional Ballot’ (GCB, d’ora in avanti). Questa chiede agli intervistati “se le elezioni si svolgessero oggi, voteresti Democratico o Repubblicano per il Congresso?” Alla vigilia delle tre più recenti ‘elezioni terremoto’ (1994, 2006 e 2010) il sondaggio Gallup attribuiva al partito poi risultato prevalente un cospicuo vantaggio nel GCB (Repubblicani +7 punti nel 1994, Democratici +7 punti nel 2006 e Repubblicani +15 punti nel 2010). A metà settembre, RealClearPolitics segnalava i Democratici in vantaggio di circa 8 punti nel GBC – più o meno nello stesso periodo, nel ciclo elettorale del 2010, i Repubblicani avevano un vantaggio di soli 4 punti circa. Preso insieme al livello di approvazione ben poco brillante del Presidente Trump, il GCB ha contribuito al posizionamento dei Democratici come favoriti.

    Sia l’approvazione presidenziale che le intenzioni di voto sono correlati ad una serie di altre variabili, tra cui il coinvolgimento degli Stati Uniti in guerre, la crescita economica e la disoccupazione, tutte cose a loro volta correlate agli esiti elettorali. In particolare, la condizione dell’economia in generale era una volta un eccellente rivelatore di come avrebbero votato i cittadini statunitensi. Infatti, fino agli inizi degli anni ‘90, gli scienziati politici potevano stimare i risultati di un’elezione presidenziale senza sbagliare di più di qualche punto percentuale, usando una serie di semplici misure economiche (Lewis-Beck 1988). Tuttavia, la rilevanza di indicatori economici oggettivi è diminuita durante l’era moderna, in cui è l’identificazione di partito ad aver assunto un ruolo sempre più importante nel determinare gli atteggiamenti degli elettori e le scelte di voto (Nivola e Brady 2008)[1]. Dal 2000 in poi, Democratici e Repubblicani hanno più volte favorito alle elezioni candidati del proprio partito con percentuali superiori al 90%, e i loro stessi atteggiamenti verso l’economia sembrano essere strettamente legati al partito che è al governo. Come mostra la Figura 1, la percentuale di Democratici e Repubblicani che ritengono che l’economia stia migliorando è quasi interamente determinata dal partito del Presidente. Oggi più dell’80% dei Repubblicani pensa che l’economia stia migliorando, mentre solo il 20% dei Democratici ha la stessa impressione. In larga misura, l’identificazione di partito, e la sua distribuzione tra tutti i cittadini, sembrano aver preso, nella maggior parte delle elezioni, il ruolo dapprima rivestito da fattori di tipo economico.

    Fig. 1 – Percentuale dei diversi gruppi per identificazione di partito che ritiene che l’economia stia migliorandoUS18_3_1La solidificazione della forte relazione tra identificazione di partito e comportamento elettorale può essere fatta risalire all’inizio degli anni ‘90. Il controllo della Camera da parte dei Repubblicani nel 1994 portò infatti a termine una trasformazione della politica statunitense. I Democratici erano stati il partito di maggioranza nel Congresso nei precedenti 40 anni, oltre ad aver sempre avuto un numero superiore di elettori identificati con il partito rispetto ai Repubblicani. All’inizio degli anni ‘60 i Democratici erano il doppio dei Repubblicani; e all’inizio degli anni ’80 i Democratici conservavano ancora un vantaggio di quasi 20 punti nell’elettorato americano (vedi Figura 2). Nel 1994, tuttavia, i Democratici si trovarono di fronte a un nuovo sistema partitico. Uno in cui vi era una sostanziale parità tra Democratici, Repubblicani e Indipendenti. Il divario tra Democratici e Repubblicani si era ridotto ad un margine di 4/6 punti che è poi quello odierno, mentre gli Indipendenti erano già sulla buona strada per raggiungere lo status di maggioranza relativa di cui godono oggi.

    Fig. 2 – Identificazione di partito negli Stati Uniti, 1937-2014US18_3_2Questo nuovo sistema di partito ha le seguenti caratteristiche: 1) voto polarizzato al Congresso, 2) Presidenti che sono divisivi, non unificanti e 3) elezioni incerte in cui in gioco c’è il controllo del governo. Dal 1992, tre delle sei elezioni di midterm sono state elezioni terremoto, con il controllo della Camera che è cambiato ogni volta da un partito all’altro. Inoltre, le elezioni di midterm del 1994, del 2006 e del 2014 hanno cambiato colore politico alla maggioranza in Senato. Al contrario, nei 60 anni compresi tra il 1932 e il 1992 solo sei delle quindici elezioni off-year furono elezioni terremoto, e solo una (1946 – l’ottantesimo Congresso) portò al cambiamento del partito di maggioranza alla Camera. Tutte le altre aumentarono la maggioranza democratica (1958 – ottantaseiesimo Congresso e 1974 – il novantaquattresimo Congresso) o la ridussero (1938 – il settantaseiesimo Congresso, 1942 – il settantottesimo Congresso e il 1966 – il novantesimo Congresso).

    Una conseguenza naturale dell’aumento del voto basato sull’identificazione di partito è che l’economia ha perso il grosso del suo potere predittivo rispetto alle elezioni. Malgrado ciò, determinare i risultati delle elezioni è diventato più semplice sotto alcuni aspetti. Come accennato in precedenza, è abbastanza facile prevedere come la maggior parte dei Repubblicani e dei Democratici voterà alle elezioni contemporanee. Il 90% (all’incirca) tenderà a favorire al Congresso il candidato del proprio partito, e relativamente pochi divergeranno dal loro orientamento partitico. Questa intuizione suggerisce una formula semplicistica ma potente per calcolare la quota democratica del voto bipartitico: prendere la proporzione di democratici e repubblicani nell’elettorato, moltiplicare per le percentuali di ciascun partito che intende votare democratico, quindi aggiungere la frazione di Indipendenti che intendono fare lo stesso. Sebbene forse non così preciso come i vari modelli proposti online, questo metodo ha dalla sua il vantaggio di essere parsimonioso e di poter produrre una stima nazionale piuttosto accurata avvalendosi di informazioni limitate. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno per produrre la stima è (1) le quote di elettori che si identificano con uno dei due partiti e degli Indipendenti; (2) l’affluenza alle urne di ciascuno di questi gruppi; e (3) la distribuzione approssimativa del voto bipartitico all’interno di ciascun gruppo.

    La prima di queste tre misure è abbastanza facile da ottenere: alcune imprese di sondaggi nazionali producono stime settimanali delle percentuali di Democratici, Repubblicani e Indipendenti nella popolazione. Quello che queste organizzazioni spesso fanno è anche interrogare i cittadini identificati e non sul GCB, fornendo una stima ragionevole del punto (3) di cui sopra. Calcolare l’affluenza è la difficoltà più grande. Nelle elezioni di midterm, determinare quali persone si sentiranno sufficientemente motivate per esprimere un voto è un compito arduo, pur aggregando i dati a livello nazionale. Per risolvere questo problema, siamo tornati su due delle misure che abbiamo discusso in precedenza: l’approvazione presidenziale e lo stato dell’economia. Sebbene meno potenti di un tempo nel determinare il voto dell’elettore, le circostanze economiche possono ancora influenzare la decisione di individuo di andare o meno a votare. I cittadini identificati con il partito opposto a quello al governo, che credono che l’economia stia andando male, potrebbero essere particolarmente motivati a voler cambiare la situazione. Al contrario, coloro che si sentono a proprio agio con lo stato dell’economia potrebbero avere meno incentivi ad attendere in fila alle urne. Se considerati insieme all’approvazione o meno del Presidente e del suo partito, le attitudini rispetto all’economia possono aiutarci a calcolare i probabili tassi di affluenza.

    Usando quest’intuizione, abbiamo deciso di creare una formula che stimasse l’affluenza sulla base dell’approvazione dell’operato del Presidente e delle attitudini rispetto alla situazione economica. Grazie all’American National Elections Study e al Cooperative Congressional Survey, abbiamo a disposizione dati sulle valutazioni di approvazione dell’operato del Presidente e sull’affluenza alle urne, che risalgono al 1982. Inoltre, ANES e CCS forniscono anche stime su come gli statunitensi hanno percepito l’economia in ogni annata elettorale degli ultimi 35 anni. In questi sondaggi viene chiesto agli intervistati “Nei prossimi 12 mesi, ti aspetti che l’economia, nel paese nel suo insieme, peggiori, rimanga più o meno la stessa o migliori?” Abbiamo calcolato la percentuale, per ciascuna categoria di identificazione  di partito, di intervistati che hanno risposto “migliorerà”, in ogni particolare anno, e abbiamo usato questi dati come indice di ottimismo economico. Servendoci delle valutazioni di approvazione presidenziale, di questa stima di fiducia economica e della conoscenza di quale partito controllasse la Casa Bianca, abbiamo creato equazioni che stimano le percentuale di ciascuno dei diversi gruppi per identificazione di partito voterà in una particolare elezione di midterm. La Figura 3 presenta i risultati di questo calcolo. Per aumentare la precisione, abbiamo stimato l’affluenza sulla scala di identificazione di partito completa, a sette punti, anziché sulla struttura semplificata a tre punti (vedi nota [1]). Cioè, invece di valutare l’affluenza tra (1) Democratici, (2) Repubblicani e (3) Indipendenti, stimiamo l’affluenza tra (1) ‘Fortemente democratici’, (2) ‘Debolmente democratici’, (3) ‘Indipendenti tendenti democratico’, (4) ‘Indipendenti puri’, (5) ‘Indipendenti tendenti repubblicano’, (6) ‘Debolmente repubblicani’, e (7) ‘Fortemente repubblicani’. Come i grafici nella Figura 3 chiariscono, i nostri modelli di affluenza sono abbastanza precisi, divergendo solitamente di appena qualche punto dagli effettivi tassi di affluenza osservati.

    Fig. 3 – Partecipazione elettorale per identificazione di partito, prevista (in nero) e reale (colorata)US18_3_3Inoltre, questi grafici corroborano l’idea secondo cui in generale è più probabile che nelle elezioni di midterm vadano a votare i Repubblicani che non i Democratici. Con l’eccezione del 2006, i Repubblicani di ogni tipo (tendenti, deboli e forti) hanno dimostrato di votare a tassi più alti rispetto al corrispondente gruppo Democratico durante il periodo in esame. Questo vantaggio ha aiutato il GOP a compensare il suo ritardo nell’identificazione di partito: per quanto ci siano meno Repubblicani, sono generalmente più propensi dei Democratici a votare.

    Procuratici quindi un modello adeguato per l’affluenza, siamo ora in grado di fare valutazioni sul probabile esito delle elezioni di midterm del 2018. Il sondaggio settimanale di YouGov ci fornisce i valori di tutte le variabili necessarie per stimare l’affluenza alle urne; ci consente anche di approssimare la distribuzione dell’identificazione di partito nell’elettorato americano, e delle intenzioni di voto di ciascuna categoria di identificati. Questi numeri vengono visualizzati nella Tabella 1 di seguito. Moltiplicando per riga, possiamo calcolare la quota di voto che ciascun partito dovrebbe aspettarsi di ricevere da ciascun gruppo. Sommando in verticale questi numeri si ottiene la percentuale complessiva di voti che ciascun partito dovrebbe ottenere, e da queste due cifre si può ottenere una stima del voto popolare nazionale per la Camera. Questo calcolo ci porta a suggerire che il Partito Democratico riceverà all’incirca il 52,9% del voto questo autunno.

    Tab. 1 – Previsioni di affluenza e comportamento elettorale per identificazione di partitoUS18_3_4Il 52,9% sembra essere una stima molto favorevole per i Democratici. Dopotutto, se catturassero il 52,9% dei seggi della Camera, finirebbero con circa 230 deputati eletti, sufficienti per una maggioranza di 13 seggi. Tuttavia, come hanno osservato numerosi studiosi, questa semplice matematica dipinge quasi certamente un quadro troppo roseo per i Democratici. Dall’ultima riorganizzazione del Congresso del 2010, i Repubblicani hanno sempre ricevuto un ‘bonus di seggi’ alla Camera, cioè una percentuale di seggi conquistati che supera la loro quota di voti. Ad esempio, nel 2016 i candidati Repubblicani hanno vinto circa il 51,3% del voto bipartitico per la Camera. Tuttavia, hanno finito con il conquistare 241 seggi, un bonus di 18 seggi rispetto alla loro quota di seggi prevista. Allo stesso modo, nel 2014 il GOP ha catturato il 52,9% dei voti, ma ha vinto 247 distretti congressuali, per un bonus di 17 seggi. Infine, nel 2012, i Repubblicani hanno vinto solo il 49,4% dei voti, ma hanno comunque ottenuto la maggioranza della Camera con 234 seggi, un bonus di 19 seggi. L’origine di questo bonus è controversa: alcuni lo attribuiscono principalmente al gerrymandering repubblicano nelle assemblee legislative statali, mentre altri incolpano la grande concentrazione di elettori democratici nelle aree urbane. Tuttavia, indipendentemente da quale ne sia la causa, questo fenomeno di sovra-rappresentazione fornisce indubbiamente ai Repubblicani un vantaggio sostanziale nelle elezioni per il Congresso. Di conseguenza, anche se i Democratici probabilmente vinceranno il voto popolare per la Camera nel 2018, le loro possibilità di conquistarne la maggioranza sono assai inferiori.

    Questo è il quadro della situazione a metà settembre. Tuttavia, con le elezioni a circa un mese e mezzo di distanza, i Democratici hanno ancora un ampio margine di tempo per migliorare le loro prospettive. In particolare, hanno ampi margini di miglioramento tra gli elettori Indipendenti. In questo momento, i Repubblicani hanno un vantaggio tra gli Indipendenti Puri che hanno espresso un’intenzione di voto. Questo dato è in linea con le recenti tendenze elettorali: il GOP ha infatti ricevuto il voto della maggioranza degli elettori Indipendenti in ognuna delle ultime quattro elezioni legislative, con i Democratici che hanno invece prevalso nel 2008. Tuttavia, vi è motivo di ritenere che nel 2018 i Democratici interromperanno questo ciclo di fallimenti alla Camera. L’approvazione del Presidente Trump tra gli Indipendenti Puri è stata costantemente bassa, non riuscendo a superare il 40% nei sondaggi YouGov in nessuna rilevazione settimanale dalla metà di luglio. Inoltre, mentre i candidati Democratici sono stati mediamente molto indietro rispetto ai Repubblicani tra gli Indipendenti puri, hanno sostanzialmente raggiunto la parità all’interno di tale gruppo tra metà agosto e inizio settembre (vedi Tabella 2).

    Tab. 2 – Evoluzione delle intenzioni di voto degli Indipendenti PuriUS18_3_5Se i Democratici fossero in grado di pareggiare con i Repubblicani o addirittura superarli tra gli Indipendenti Puri, allora la loro quota di voti prevista salirebbe a circa il 53,5%, fornendo loro altri 2-3 seggi. Questo aumento marginale potrebbe essere sufficiente per aiutare i Democratici a superare il bonus in termini di seggi dei Repubblicani e conquistare la Camera.

    L’altro sviluppo che potrebbe potenzialmente aiutare i Democratici è un calo sostanziale nei giudizi di approvazione del Presidente Trump. Il nostro modello suggerisce che l’affluenza democratica aumenta di circa 2 punti percentuali con ogni calo di 1 punto nei giudizi di approvazione del Presidente, mentre l’affluenza Repubblicana diminuisce di 1 punto percentuale per ogni punto di calo dell’approvazione dell’operato d Trump. Quindi, se l’approvazione di Trump diminuisse di tre punti complessivamente, la prevista quota democratica dei voti aumenterebbe fino a circa il 53,9%, cifra più che sufficiente per garantire una maggioranza ai Democratici alla Camera. E data la volatilità del Presidente, un simile calo nei giudizi di approvazione rientra nel campo delle possibilità.

    Solo il tempo saprà dire se qualcuno di questi sviluppi si verificherà, e la progressione delle udienze politicamente esplosive di Kavanaugh potrebbe facilmente interferire con il nostro calcolo elettorale entro novembre (in particolare dato che il 29% degli Indipendenti Puri si dichiara indeciso a questo punto della campagna). Al momento, tuttavia, mentre i Democratici sono fortemente favoriti per catturare la maggioranza del voto popolare nazionale nelle elezioni di midterm, le loro probabilità di conquistare una maggioranza di seggi alla Camera sono all’incirca pari al 50%. Salvo grossi cambiamenti di qui a novembre, qualunque partito finisca per avere il controllo della Camera, avrà una maggioranza estremamente esigua.

    Riferimenti bibliografici

    Campbell, Angus, Philip E. Converse, Warren E. Miller, e Donald E. Stokes, (1960). The American Voter, New York, Wiley.

    Dalton, Russell J. (1984), ‘Cognitive Mobilization and Partisan Dealignment in Advanced Industrial Democracies’, The Journal of Politics, 46(01), pp. 264–84.

    Lewis-Beck, Michael S. (1988), ‘Economics and the American voter: Past, present, future’, Political Behavior, 10(1), pp. 5-21.

    Lewis-Beck, Micheal S., Helmut Norpoth, William G. Jacoby, e Herbert F. Weisberg (2008), The American voter revisited, Ann Arbor, University of Michigan Press.

    Nivola, Pietro S., e David W. Brady, (a cura di) (2008), Red and Blue Nation?: Consequences and Correction of America’s Polarized Politics, Washington, Brookings Institution Press.


    [1] Pochi concetti sono stati cruciali nello studio del comportamento elettorale come quello di identificazione di partito sviluppato da Campbell e dai suoi colleghi (1960). L’idea di fondo è che gli individui sviluppino un attaccamento socio-psicologico nei confronti di un partito politico, attraverso l’ambiente familiare o attraverso esperienze chiave durante il processo di socializzazione alla politica. Questo paradigma si è rapidamente affermato come una chiave per interpretare gli atteggiamenti politici e il comportamento di voto soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante l’emergere di cambiamenti strutturali nelle configurazioni dell’identificazione a partire dagli anni ’80 (Dalton 1984), questa conserva ancora un ruolo centrale negli studi elettorali, particolarmente in riferimento al caso americano (Lewis-Beck et al. 2008).

    Negli Stati Uniti, l’identificazione di partito viene rilevata attraverso una misura standard, che coincide con il concetto stesso, e forma una scala a 7 punti (Fig. 4). Nei sondaggi, agli intervistati viene chiesto se, parlando in generale, si considerino democratici, repubblicani, indipendenti o qualcos’altro. A chi si identifica con uno dei due maggiori partiti viene quindi chiesto se si definiscono un democratico/repubblicano forte o non forte. In questo modo sono formate le quattro categorie estreme della scala. Gli intervistati che dicono di essere indipendenti (o altro), ricevono una domanda diversa, che chiede loro se sono tendono verso il Partito Repubblicano o il Partito Democratico. Quelli che rispondono di propendere per uno dei due partiti formano le categorie degli indipendenti tendenti verso un partito, gli altri sono gli indipendenti puri.

    Fig. 4 – La scala a 7 punti dell’identificazione di partito e la sua costruzione (clicca per ingrandire)scala_7_PID_ITA