Autore: Federico De Lucia

  • Elezioni in Valle d’Aosta: benvenuto bipolarismo!

    di Federico De Lucia

    Coerentemente con la propria eccentricità culturale, la Regione speciale della Valle d’Aosta si configura come abbastanza anomala rispetto alle altre (sia ordinarie che speciali) dal punto di vista del proprio assetto istituzionale. Infatti, assieme alla Provincia autonoma di Bolzano, è l’unico ente territoriale subnazionale italiano che non prevede l’elezione diretta del proprio vertice monocratico. Gli elettori eleggono il Consiglio regionale, che poi elegge, fra i suoi membri, il Presidente della Regione, a maggioranza assoluta e con scrutinio segreto. Il Presidente propone al Consiglio una giunta di assessori, che deve essere approvata da una seconda votazione dell’assemblea. Il Presidente può essere sfiduciato, ma solo da una mozione di sfiducia costruttiva: la mozione di sfiducia coincide cioè con il voto di fiducia ad un nuovo esecutivo, che entra immediatamente in carica al posto di quello sfiduciato. Al contrario che altrove quindi, la caduta dell’esecutivo non comporta automaticamente il ritorno alle urne (quest’ultimo si verifica solo nel caso in cui il Presidente si dimetta e il Consiglio non riesca a sostituirlo entro due mesi). Il sistema elettorale è un proporzionale con premio di maggioranza. Tale premio di maggioranza è eventuale, nel senso che esso scatta solo nel caso in cui la coalizione vincente non abbia ottenuto da sola la maggioranza assoluta dei seggi (se questo poi avviene in un contesto in cui la coalizione vincente ha preso meno della metà dei voti è previsto addirittura un ballottaggio). È prevista una soglia di sbarramento molto alta, pari a al 5,7% dei voti (i 2/35 dei voti validi, ovvero due quozienti interi). Questo assetto istituzionale è entrato in vigore a partire dalla scorsa legislatura regionale, quella iniziata con le elezioni del 2008, ed ha preso il posto di un sistema basato ancora sui criteri puramente concertativi operanti sin dalla Prima Repubblica.

    Alle elezioni del 2008, le prime in cui in Valle si è sperimentata la competizione fra coalizioni pre-elettorali, si erano presentati tre blocchi politici. Sulla destra, la lista unica formata da PDL e Lega Nord, debolissima a livello di elezioni regionali. Al centro, la coalizione autonomista, imperniata attorno al partito di raccolta valdostano, l’Union Valdotaine (UV), e composta anche dai moderati cattolici e autonomisti di Stella Alpina (SAlp) e dai laici di Federation Autonomiste (FA). A sinistra, il centrosinistra locale, composto da PD e Sinistra Arcobaleno (SA), che si alleò con un gruppo di autonomisti fuoriusciti dall’UV, gli ecologisti di Autonomie-Libertè-Partecipation-Ecologie (ALPE). Nonostante questa scissione, il centro autonomista vinse con un risultato molto lusinghiero, vicino al 62% dei consensi, mentre i progressisti si fermarono ad un 27% scarso. Nonostante questo gap apparentemente incolmabile, un confronto con i dati precedenti rendeva già allora chiaro che gli incentivi introdotti dal nuovo assetto istituzionale avrebbero condotto ad una progressiva strutturazione del bipolarismo. E i risultati delle regionali 2013, mostrati nella tabella 1, lo dimostrano in modo inequivocabile: durante la legislatura sono sorte nuove e ancor più drammatiche rotture nel grande corpo politico dell’UV, e poco prima del voto si è consumata una nuova scissione, che ha dato vita (replicando un’operazione già avvenuta nei primi anni 70) all’Union Valdotaine Progressiste (UVP), nuovo soggetto politico che non ha tardato ad accordarsi con la coalizione di centrosinistra in occasione delle regionali.

    Tab. 1 – Elezioni regionali in Valle d’Aosta: confronto 2008-2013

     

    L’erosione elettorale che ha subito l’UV a favore dell’UVP è molto sensibile. Il partito di raccolta ha perso 11 punti percentuali di consenso, e la coalizione centrista/autonomista 14 punti. Lo schieramento al governo è riuscito ad ottenere la riconferma, nonostante sia sceso addirittura sotto il 50% dei voti. Il ballottaggio è stato evitato di un soffio, solo perché nella distribuzione dei seggi UV e SAlp sono riuscite ad ottenere già a livello proporzionale la quota minima di 18 seggi. Il gap che separava centristi e progressisti è calato di 28 punti percentuali: dai quasi 35 punti del 2008 ai poco più di 7 del 2013. Ad oggi, per la prima volta anche a livello di elezioni regionali, possiamo finalmente parlare di bipolarismo valdostano. L’UVP è divenuto di colpo il secondo partito della Valle e si candida a rappresentare il nuovo polo aggregatore di un centrosinistra locale in grado di puntare alla vittoria. Per il resto, i cambiamenti nelle prestazioni delle singole liste sono relativi: confermano le proprie prestazioni la SAlp, l’ALPE e il PD, che riescono a confermare i propri seggi. Scendono sotto soglia invece, i laici di FA (evidentemente penalizzati dalla nascita dell’UVP) e il PDL, che subisce un brutto colpo, e rimane, clamorosamente, addirittura fuori dal Consiglio.

    Per finire, il Movimento 5 Stelle, al suo debutto in Valle, ottiene il 6,6% dei consensi, supera di poco la soglia ed elegge due consiglieri. Si tratta di un risultato al di sotto delle attese, specie se si pensa al dato che i grillini avevano registrato alle politiche di febbraio: 13.400 voti assoluti, pari al 18,5% del totale dei validi. Tuttavia, vale per le regionali valdostane lo stesso discorso fatto per le comunali: scendendo a livello locale i candidati grillini, spesso sconosciuti e ancora molto poco radicati, perdono molto dell’appeal elettorale che la lista grillina aveva invece in occasione delle politiche, quando, spinta da Grillo, serviva a lanciare un messaggio molto preciso ai partiti al governo nazionale. Questa distinzione fra i due agoni vale a maggior ragione in un contesto come questo, in cui le dinamiche politiche locali si configurano come quasi del tutto slegate da quelle generali.

  • Comunali 2013: le percentuali di coalizioni e partiti nei comuni capoluogo

    di Federico De Lucia

    In questo articolo mostriamo le percentuali di consenso ottenute dalle coalizioni e dai partiti alle recentissime elezioni comunali. L’aggregato territoriale cui facciamo per il momento riferimento è l’insieme dei 16 comuni capoluogo in cui si è votato domenica e lunedì scorsi. Poiché in tale aggregato una componente demografica estremamente significativa è costituita dal comune di Roma, presentiamo i risultati della capitale separati da quelli degli altri 15 comuni.

    Nella Tabella 1 sono riportati i risultati della competizione maggioritaria, ovvero quella fra i candidati alla carica di sindaco. Il confronto è operato con la tornata amministrativa precedente, che nella metà dei casi (Roma compresa) si colloca nel 2008, e con le elezioni politiche dello scorso febbraio (in tal caso ovviamente i voti sono quelli proporzionali delle coalizioni). Riportiamo solo i valori percentuali perché le grandi differenze di partecipazione al voto rendono di scarso interesse il confronto fra dati assoluti.

    Tab. 1 – Percentuali di consenso ai candidati sindaco e alle coalizioni in tre tornate elettorali.

     

    Come si vede, i candidati di centrosinistra mantengono una posizione di assoluta predominanza, restando oltre il 40% dei voti sia nella capitale che negli altri capoluoghi. Si tratta di prestazioni che confermano o addirittura accrescono quelle dello scorso turno amministrativo, e questo nonostante una presenza piuttosto significativa (oltre il 5% nell’aggregato extra-capitolino) di candidati di disturbo appartenenti alla propria area politica. Tutt’altra cosa rispetto ai pessimi risultati delle politiche, che in questa tabella sembrano configurarsi come una sorta di sfortunata parentesi.

    Il centrodestra subisce invece un notevole calo rispetto al turno amministrativo precedente, perdendo 10 punti a Roma e quasi 13 negli altri capoluoghi: è vero però che in molti casi la tornata amministrativa precedente si collocava cronologicamente in un momento molto lusinghiero per la coalizione di Berlusconi (il triennio 2008-2010). Rispetto alle politiche di febbraio il centrodestra mostra un sensibile recupero a Roma, mentre conferma la propria performance negli altri capoluoghi. Rimane sotto il centrosinistra di almeno 15 punti.

    Il M5S evidenzia un andamento opposto a quello dei due poli maggiori. Rispetto alle politiche, le sue performance percentuali si riducono di oltre la metà a Roma e di ben due terzi negli altri capoluoghi. Poco significativo invece il confronto con il turno amministrativo precedente, nel quale i candidati di Grillo erano quasi ovunque assenti.

    I candidati di centro, infine, si contraggono molto nell’aggregato extra-capitolino rispetto alle politiche, tornando ad occupare quel 4/5% che occupavano nel turno precedente. A Roma, invece, la performance di Marchini è molto simile a quella ottenuta da Monti alle politiche di tre mesi fa.

    Nella Tabella 2 si mostrano invece i dati delle singole forze politiche. In questo caso si fa riferimento cioè alla competizione proporzionale fra liste: i voti delle varie liste vengono sommati per dare luogo ad un dato nazionale, senza tenere conto di quali sono le collocazioni coalizionali che esse occupano nei singoli contesti locali.

    Tab. 2 – Percentuali di consenso ai partiti in tre tornate elettorali: voti proporzionali di lista.

     

    Centrodestra (a Roma) e centrosinistra (ovunque) recuperano gran parte del consenso che avevano perso in occasione delle elezioni politiche di tre mesi fa. Ma la quasi totalità di tale recupero è dovuto alle ottime performance delle liste civiche d’area (voci “Altri csx”  “Altri cdx”), che crescono moltissimo anche rispetto alle tornate comunali precedenti, e che nell’agone elettorale amministrativo sembrano ormai costituire una vera e propria scialuppa di salvataggio per gli schieramenti tradizionali. Al contrario che nel recente passato, in cui eravamo abituati a sommare il risultato delle civiche d’area a quello dei partiti maggiori per ottenere cifre effettivamente confrontabili con quelle prese da questi ultimi alle elezioni politiche, oggi questa operazione sarebbe del tutto inappropriata: le liste del PD (ovunque) e del PDL (a Roma) ottengono alle amministrative risultati molto simili a quelli che avevano ottenuto alle politiche. Le liste civiche, per la prima volta, sembrano contribuire per qualcosa di ulteriore rispetto alle potenzialità elettorali dei partiti: sembrano cioè colmare, con il radicamento territoriale che indubbiamente hanno, quel crollo di legittimazione che aveva colpito le dirigenze nazionali dei partiti lo scorso febbraio. Radicamento territoriale di cui, evidentemente, difetta ancora il M5S, che esce molto penalizzato da questa consultazione, e che si riduce quasi ovunque a cifre di poco superiori a quelle che caratterizzano le altre, innumerevoli, liste civiche che caratterizzano il voto comunale italiano. (https://thefoundationspecialists.com/) Addirittura finisce per essere superato dalle liste di centro, al solito molto frammentate sul territorio e molto spesso collocate in schieramenti diversi, ma non certo sparite anche nella loro versione terzopolista.

    Altro fatto da segnalare è ovviamente il calo notevolissimo che si registra, ma stavolta rispetto alle amministrative precedenti, per il centrodestra. Quasi 12 punti percentuali in meno in entrambi gli aggregati che presentiamo. Le liste del PDL si dimezzano letteralmente, e nell’aggregato extra-capitolino finiscono persino con l’essere quasi raggiunte dall’aggregato composto dalle proprie liste civiche di supporto. Anche la Lega va incontro ad una sonora batosta, calando dal 7% al 3% in questo piccolo aggregato territoriale. Nel centrosinistra invece, pare in buona forma il partito di Vendola, Sinistra Ecologia e Libertà.

    Nel complesso dunque, il sistema partitico sembra essere tornato di colpo al periodo immediatamente precedente alle politiche, come se queste non avessero lasciato traccia. Un centrodestra in forte difficoltà di fronte ad un centrosinistra in grado di mantenere le proprie posizioni, anche se in un contesto di crescente astensionismo. Notevoli successi delle liste civiche, sia fuori che dentro i poli maggiori, e un terzo polo incapace di presentarsi come alternativa praticabile. Persino le percentuali del M5S sembrano tornate al 2012: quasi come se lo tsunami non ci fosse mai stato.  In passato, il ciclo della politica nazionale ha svolto sempre un ruolo potentissimo nell’indirizzare i comportamenti elettorali alle elezioni amministrative: oggi questo sembra molto meno vero che in passato, e in un astensionismo ormai diffusissimo, pare che siano sempre più le dinamiche locali ad esercitare il ruolo decisivo.

  • Comunali 2013: l’offerta politica nei capoluoghi del Sud

    di Federico De Lucia

    Fra i comuni nei quali si andrà a votare i prossimi 26-27 maggio, vi sono 6 comuni capoluogo del Sud Italia. Fra questi, una posizione di preminenza assoluta è occupata dalla capitale Roma, comune  di quasi 2,8 milioni di abitanti. Ad essa si aggiunge un secondo capoluogo laziale, Viterbo, il capoluogo molisano Isernia, quello campano Avellino, quello pugliese Barletta e quello sardo Iglesias. Di questi sei comuni capoluogo, tre sono amministrati da una giunta uscente di centrosinistra (Avellino, Barletta e Isernia) e tre da una giunta uscente di centrodestra (Roma, Viterbo, Iglesias). Solo nei due capoluoghi laziali i sindaci uscenti si ricandidano per tentare la riconferma.

    Dallo specchietto riepilogativo presentato in tabella 1 vediamo come, in questi 6 comuni capoluogo,  il livello della frammentazione dell’offerta elettorale sia veramente notevole, e di come esso sia aumentato rispetto alla precedente tornata elettorale amministrativa. Il numero medio di candidati sindaco è salito da 7,8 a 9,2, mentre il numero di liste, altissimo, è cresciuto da 19,2 a 21,2. L’incremento della frammentazione ha interessato in particolare le liste che si collocano al di fuori delle due coalizioni principali, che al contrario vedono il proprio numero medio di liste di sostegno o calare (centrodestra) o rimanere costante (centrosinistra). La gran parte dell’incremento della frammentazione dipende tuttavia dal peso esercitato da Roma su questo piccolo campione di comuni: nella capitale il numero di candidati sindaco è salito da 14 a 19 e le liste sono passate addirittura a 29 a 40.

    Tab. 1 –Offerta elettorale in 6 comuni capoluogo meridionali: candidati e liste

    A Roma il sindaco uscente Alemanno, dopo momenti di forte crisi che avevano caratterizzato il suo rapporto con i vertici nazionali del partito alla fine del 2012, è tornato ad aggregare la coalizione di centrodestra attorno al suo nome, nonostante qualche dissidio in merito alla opportunità di svolgere una consultazione primaria, che ha visto il PDL confliggere con Fratelli d’Italia e La Destra, forze politiche entrambe molto ben rappresentate a Roma. Dopo le elezioni politiche, tali dispute sono rientrate e la coalizione ha serrato i ranghi: a sostenere Alemanno sono PDL, FDI, La Destra e tre liste espressione di movimenti civici o locali. Nel centrosinistra invece le primarie ci sono state e hanno visto una partecipazione di 100.000 persone (un calo sensibile, ma abbastanza fisiologico, rispetto alle oltre 170.000 che avevano partecipato a quelle per il candidato premier). Alla fine la vittoria è andata nettamente ad Ignazio Marino, che ha sconfitto David Sassoli (esponente della corrente popolare), Paolo Gentiloni (sostenuto da Renzi), e altri tre esponenti minori della coalizione. A sostegno di Marino troviamo PD, SEL, PSI, Centro Democratico, Verdi e la lista civica del candidato. A questa coppia di candidati si oppongono Marcello De Vito, selezionato da una consultazione online degli iscritti romani del Movimento 5 Stelle e l’imprenditore immobiliare Alfio Marchini, sostenuto da una lista civica che contiene esponenti che provengono da molte forze politiche diverse. Stupisce l’assenza di una lista centrista: la stessa UDC si è trovata in gravissima difficoltà, perché mentre la segreteria nazionale sosteneva Marchini, la sezione locale del partito era apertamente schierata per Alemanno. Alla fine, il pupillo romano di Casini, Onorato, è candidato nella lista di Marchini mentre il noto esponente locale del partito Ciocchetti è il vicesindaco in pectore di Alemanno. Moltissimi i candidati minori: fra essi spiccano Sandro Medici, il Presidente del Municipio X, sostenuto dalla sinistra radicale e comunista,  i candidati dei movimenti di estrema destra CasaPound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore, e l’eccentrico Alfonso Luigi Marra.

    Anche a Viterbo la proliferazione dei candidati è stata molto significativa: saranno addirittura in 14 a contendersi lo scranno di primo cittadino del capoluogo della Tuscia. Il centrodestra, composto da PDL, FDI e tre civiche, sostiene il sindaco uscente Giulio Marini. Il centrosinistra, composto da PD, SEL e due civiche, sostiene il vincitore delle primarie Leonardo Michelini. Gianluca De Dominicis è invece il candidato del M5S. Tra i molti candidati secondari, ne spiccano poi tre di estrema destra (La Destra, CasaPound, Fiamma Tricolore), quello comune dei partiti comunisti, e Filippo Rossi, blogger ex finiano, a capo di una civica.

    Ad Avellino a farla da padrone è ancora una volta la frammentazione: del resto, agli altri fattori si aggiunge qui la consapevolezza del centro politico di avere un peso elettorale significativo. I candidati di spessore sono addirittura cinque: il centrosinistra, formato solo da PD, Centro Democratico e due liste civiche, candida Paolo Foti, che rinuncia all’appoggio della sinistra radicale; il centrodestra, composto da PDL, FDI e tre civiche, presenta Nicola Di Battista; il Movimento 5 Stelle la propria attivista Tiziana Guidi. A costoro si aggiungono due candidati centristi di caratura importante: la forte UDC locale, affiancata da ben tre liste civiche, presenta Dino Preziosi, mentre i montiani sostengono Virgilio Cicalese, forte dell’appoggio esplicito del sindaco uscente Galasso (che ha lasciato il PD dopo lo smacco della fine dell’anno scorso, quando dopo essersi dimesso dalla carica per candidarsi alle politiche, ha subito una debacle inaspettata alle parlamentarie di fine anno). Insomma, un quadro notevolmente complesso, e senza considerare altri quattro candidati minori.

    Ad Isernia si torna a votare dopo solo un anno: dodici mesi fa la coalizione di centrosinistra era uscita vincitrice a sorpresa dallo scontro con la sorella dell’allora presidente regionale Iorio. Ma in sede di composizione della Giunta l’accordo politico fra il sindaco neoeletto De Vivo e la sua coalizione è completamente saltato e le dimissioni in blocco dei consiglieri che sono seguite a tale strappo hanno portato ad un ritorno immediato alle urne. Ai nastri di partenza per questa nuova consultazione ci sono solo tre candidati. Il centrosinistra, in coerenza con la strategia coalizionale mostrata per le regionali di tre mesi fa, ai occupa di presidiare l’area centrista: a sostegno del vincitore delle primarie Brasiello c’è una coalizione che comprende PD, SEL-PSI, UDC, UDEUR e tre liste civiche. Il centrodestra risponde con una coalizione ancora più ristretta di quella formatasi per le regionali: la defezione dell’UDC lascia ancora più isolato il PDL, affiancato ormai solo da FDI, Grande Sud e Progetto Molise, oltre che da una civica, a sostegno del candidato D’Apollonio. Terzo incomodo Celeste Caranci, a capo di una lista di sinistra radicale. Manca, a sorpresa, il M5S, che si giustifica sul web dichiarando di non avere un numero di attivisti sufficiente a comporre la lista.

    Anche a Barletta l’amministrazione uscente ha dovuto interrompere il suo mandato con un discreto anticipo: anche in questo caso, dopo vari scandali giudiziari che hanno coinvolto il sindaco uscente Maffei, sono stati i consiglieri comunali a sancire, dimettendosi, il ritorno alle urne. Nonostante le faide interne alla coalizione di maggioranza, il centrosinistra è riuscito a mantenere un profilo abbastanza coeso in vista del nuovo turno elettorale. I progressisti coinvolgono nella propria coalizione la lista montiana, affiancandola a PD, Sinistra, Centro Democratico e due civiche, a sostegno di Pasquale Cascella; il centrodestra si esibisce invece nella creazione di addirittura 7 liste civiche (alcune delle quali piuttosto strutturate sul territorio pugliese, come ad esempio il Movimento politico Schittulli e la lista fittiana La Puglia prima di tutto), e le affianca ad una sola lista di partito, quella del PDL, a sostegno del candidato Giovanni Alfarano. Fuori dai poli, oltre al candidato del Movimento 5 Stelle, un candidato socialista, uno dell’UDC e uno di estrema sinistra.

    Infine, dopo due anni si torna a votare anche ad Iglesias. Qui è il sindaco Perseu ad aver rassegnato le dimissioni, costringendo i cittadini a tornare alle urne per la terza volta in tre anni (si era votato nel 2010 e nel 2011). La fortissima UDC locale, dopo aver dato un aspetto più civico alla propria lista, ha scelto di candidare, assieme al PDL, il proprio esponente Gianmarco Eltrudis, mentre il centrosinistra risponde con una coalizione molto composita: ben 6 liste fra PD, SEL, Casa Iglesias (montiani e liberali), Uniti per Iglesias (comunisti e socialisti) e due civiche. Al di fuori dai poli, Sandro Esu per il Partito Sardo d’Azione e un giovane dissidente dell’UDC locale, Dario Carbini. Stupisce molto, specie alla luce del grande successo registrato in zona alle politiche, l’assenza di una lista rappresentativa del M5S locale, che si è letteralmente spaccato a metà sulla questione della scelta dei candidati.

    Nel complesso il Sud Italia si conferma il contesto più frammentato del paese: in questi comuni le liste civiche e personali proliferano e, quel che più conta, sanno di poterselo permettere vista la quota di voti che generalmente prendono. In un contesto di maggioritario a doppio turno, dove al ballottaggio chiunque può essere decisivo, la tentazione di pesare le varie anime dei partiti e delle coalizioni è molto forte e la tenuta degli schieramenti è esposta a gravi rischi. Tuttavia, fare generalizzazioni è difficile perché molto importanti sono le dinamiche prettamente locali: se a Barletta, Isernia, Iglesias e Viterbo le due coalizioni maggiori sembrano comunque tenere, ad Avellino la forte presenza del centro politico ci consegna un contesto in cui a giocarsela per il ballottaggio sono addirittura in cinque. Mentre il centro, sia nella sua versione montiana che in quella tradizionale post-democristiana, è in queste zone più radicato, si registra qualche difficoltà per il M5S, che in ben due comuni su sei non è riuscito a presentare la lista. Discorso a parte merita Roma: qui la sfida è essenzialmente a due, si gioca fra personaggi ben conosciuti, e si configura come estremamente polarizzata. Vedremo che spazio riusciranno a ritagliarsi i due candidati che partono in seconda fila: quello grillino e quello civico-centrista. Per loro la battaglia sembra essere in salita.

  • Comunali 2013: l’offerta politica nei capoluoghi della Zona Rossa

    di Federico De Lucia

    I prossimi 26-27 maggio si recheranno al voto i cittadini di 4 comuni capoluogo della Zona Rossa. Si tratta del capoluogo marchigiano Ancona e dei tre capoluoghi toscani Massa, Pisa e Siena. In coerenza con le tradizioni politiche di questa zona del paese, tre di essi giungono a questo appuntamento elettorale con un’amministrazione uscente di centrosinistra (Pisa, Siena, Ancona), mentre uno (Massa) con una amministrazione uscente addirittura di sinistra radicale. Solo a Pisa il sindaco uscente si ripresenta alle elezioni.

    Dallo specchietto riepilogativo presentato in tabella 1 vediamo come, in questi 4 comuni capoluogo,  il livello della frammentazione dell’offerta elettorale sia aumentato rispetto alla precedente tornata elettorale amministrativa. Il numero medio di candidati sindaco è salito da 7,3 a 8,5, mentre il numero di liste è cresciuto da 14,2 a 16,5. L’incremento della frammentazione ha interessato in particolare le liste che si collocano al di fuori delle due coalizioni principali. Queste ultime al contrario vedono il proprio numero medio di liste di sostegno o calare (centrodestra) o rimanere costante (centrosinistra).

    Tab. 1 –Offerta elettorale in 4 comuni capoluogo della Zona Rossa: candidati e liste

     

    A Massa si è assistito ad una singolare dinamica politica: il sindaco uscente Pucci, che nel 2008 era stato candidato da una parte del centrosinistra e che era stato eletto dopo un ballottaggio contro l’allora uscente del PD, si è visto togliere l’appoggio politico anche dalla porzione di coalizione che sinora lo aveva sostenuto e ha dovuto dirottare la propria linea sul centro politico. Il candidato che si candida a proseguirne l’attività è l’attuale assessore Gabrielli, sostenuta da tre liste centriste (SC, UDC, API) e da tre liste civiche che fanno riferimento all’area del sindaco uscente. A questo schieramento si oppongono la coalizione di centrosinistra al completo a sostegno del vincitore delle primarie Volpi, una lista unica di centrodestra a sostegno del candidato Caruso,  il candidato del M5S e tre candidati minori, di cui due riconducibili all’area dell’estrema destra.

    Pisa il sindaco uscente Filippeschi, che nel 2008, in coerenza con le vicende nazionali, era stato eletto con il solo sostegno del PD e dell’IDV, ha ritenuto opportuno allargare i confini della propria coalizione sia verso sinistra (includendo SEL) che verso il centro (inserendo nella propria lista civica esponenti montiani e finiani). Tuttavia, questo non ha evitato la presentazione di alcuni candidati di disturbo in entrambe le due porzioni di spazio politico che il centrosinistra pisano ha tentato di colmare: sull’estrema sinistra sono presenti ben due candidati di ispirazione comunista, sul centro è presente il candidato dell’UDC. A Filippeschi si oppongono poi Mugnai, candidato del centrodestra (PDL, LN, La Destra) e Antoni, la candidata del M5S. Completano il quadro il candidato di Fratelli d’Italia e due candidati civici.

    A Siena, dopo l’anno di commissariamento seguito alle dimissioni del sindaco Ceccuzzi, ed in piena crisi per via delle vicende dal Monte dei Paschi, il PD locale si è trovato nel bel mezzo della tempesta nazionale. Dopo aver svolto una prima consultazione primaria che aveva visto la vittoria del ricandidato Ceccuzzi, quest’ultimo ha dovuto rinunciare alla corsa dopo che il suo nome è apparso fra gli indagati nell’inchiesta sulla banca senese. Il PD ha però reagito, organizzando nuove primarie a soli 35 giorni dal voto: la partecipazione popolare è stata addirittura doppia rispetto a soli tre mesi prima, e il successo stavolta è andato a Bruno Valentini, esponente della corrente renziana del partito. Valentini è sostenuto da PD, SEL, socialisti e una civica (che contiene anche candidati centristi). Gli si oppone, per il centrodestra, Eugenio Neri, sostenuto da una lista civica di ispirazione PDL, da FDI e da due altre civiche minori. Il M5S ripresenta il proprio candidato di due anni fa, Pinassi, e lo stesso vale per la sinistra radicale, che ripropone Laura Vigni. A chiudere l’insieme degli aspiranti sindaco, quattro candidati minori di ispirazione civica, fra i quali spicca l’ex vicesindaco Marzucchi, che nel 2011 aveva portato, con la sua lista civica, ben il 7% alla coalizione di centrosinistra.

    Passando nelle Marche, anche ad Ancona i cittadini tornano alle urne in anticipo, a seguito delle recenti dimissioni del sindaco Gramillano, del PD. Il centrosinistra ha scelto di ripercorrere la stessa strategia coalizionale utilizzata negli ultimi anni in questa regione: cercare accordi con il centro, anche a costo di perdere per strada la sinistra radicale. Così, la candidata del PD, Valeria Mancinelli, è sostenuta anche dall’UDC e da Scelta Civica, oltre che dai Verdi e da una lista civica. La sinistra radicale gli oppone un candidato comune, sostenuto sia da SEL che dai comunisti. Anche il centrodestra si presenta diviso: il PDL sostiene Italo D’Angelo, Fratelli d’Italia Stefano Benvenuti Gostoli. Andrea Quattrini è il candidato sindaco del Movimento 5 Stelle, mentre sono ben 5 gli altri candidati fuori dai poli. Fra essi, da segnalare David Favia, parlamentare uscente ex IDV, e referente marchigiano di Centro Democratico.

    Nel complesso si può dire che il contesto politico riscontrato in questi quattro capoluoghi si configura come nettamente più frammentato rispetto a quello settentrionale. Questo è dovuto sia alla sempre crescente presenza di candidati civici, che alla difficoltà che le coalizioni dimostrano di avere nel serrare i ranghi. Questo avviene ad entrambe le coalizioni principali. La coalizione di centrosinistra, fallisce quasi ovunque in questo tentativo. A Massa non è riuscita a far rientrare completamente la frattura consumatasi nel 2008; a Siena e ad Ancona deve fare i conti con candidature concorrenziali sul versante della sinistra radicale; a Pisa, dove pure il tentativo di unità giunge a risultati notevoli, non si riescono comunque ad evitare alcune piccole candidature di disturbo. Il centrodestra è messo ancora peggio: ad Ancona, Pisa e Massa, è la destra estrema a defezionare (in particolare la neonata formazione Fratelli d’Italia, che in Toscana assume caratteri fortemente conflittuali nei confronti di un PDL egemonizzato da Verdini), mentre a Siena sono solo alcuni esponenti singoli ad aver scelto di correre da soli. Per il resto, si nota anche in queste zone la costante presenza dei candidati del M5S, e la debolezza del centro politico, le cui liste, pur essendo qui presenti in modo abbastanza costante, tendono, per quanto possibile, ad accodarsi a quelle di centrosinistra (Ancona, Siena, in parte Pisa) o a formare coalizioni comunque più ampie del proprio perimetro politico (Massa).

  • Comunali 2013: l’offerta politica nei capoluoghi del Nord

    di Federico De Lucia

    Alle elezioni comunali dei prossimi 26-27 maggio si recheranno al voto i cittadini di 6 comuni capoluogo del Nord Italia. Si tratta del comune ligure di Imperia, dei tre comuni lombardi di Sondrio, Brescia e Lodi, e dei due comuni veneti di Vicenza e Treviso. Tre di essi giungono a questo appuntamento elettorale con un’amministrazione uscente di centrosinistra (Lodi, Sondrio, Vicenza) e tre di centrodestra (Imperia, Brescia e Treviso). In tre casi (Brescia, Vicenza, Sondrio) si ricandida il sindaco uscente.

    Dallo specchietto riepilogativo presentato in tabella 1 vediamo come, in questi 6 comuni capoluogo,  il livello della frammentazione della offerta elettorale sia rimasto simile rispetto alla precedente tornata elettorale amministrativa. Il numero medio di candidati sindaco è sceso da 8,2 a 7,2, mentre il numero di liste è solo lievemente aumentato, da 15,5 a 16. Tale trascurabile incremento è dovuto interamente ad una crescita del numero di liste a sostegno dei candidati di centrodestra.

    Tab. 1 –Offerta elettorale in 6 comuni capoluogo settentrionali: candidati e liste

     

    Ad Imperia, il feudo elettorale dell’ex ministro pdiellino Scajola, la giunta uscente di centrodestra è caduta a seguito di dissidi interni, specialmente al PDL. Il partito di Berlusconi si presenta infatti diviso a questo appuntamento elettorale: mentre la porzione ufficiale (e scajoliana) del partito ha ricostruito una coalizione di centrodestra omnicomprensiva (dalla Lega Nord ai centristi montiani) a sostegno del candidato Annoni, i sostenitori del sindaco uscente Strescino (Laboratorio per Imperia) hanno deciso di allearsi con il PD e con le altre liste civiche di centrosinistra, a sostegno del candidato Capacci. Al di fuori di quest’ultimo schieramento corre il candidato della sinistra radicale (SEL e comunisti), mentre, a completare l’affresco, si schierano ai nastri di partenza  il candidato del Movimento 5 Stelle e un altro candidato civico.

    Sondrio la coalizione di centrosinistra si presenta compatta a sostegno del sindaco uscente Molteni, mentre il centrodestra si presenta diviso: da una parte il PDL, che sostiene assieme a due liste civiche il candidato Fiumanò, dall’altra la Lega Nord a sostegno di Grillo Della Berta. Oltre a due minori, è poi presente il candidato sindaco del Movimento 5 Stelle.

    Brescia le due coalizioni maggiori si presentano nella loro configurazione estesa: il sindaco uscente Paroli è sostenuto da tutto il centrodestra (PDL, LN, UDC, FDI, più altre cinque fra liste civiche o minori), mentre il candidato del centrosinistra Del Bono (lo stesso sfidante del 2008) è sostenuto da PD, SEL, Verdi e liste civiche. Fuori dai due poli principali, alla candidata del M5S si aggiungono ben altri 6 candidati minori, fra i quali si identificano quello i Rifondazione comunista e quello di Forza Nuova.

    Pressappoco lo stesso panorama è quello che rintracciamo a Lodi. Anche qui le due coalizioni maggiori si mostrano coese: il centrosinistra (PD, SEL, tre civiche) a sostegno di Uggetti e il centrodestra (PDL, LN e tre civiche) a sostegno di Cominetti. Anche qui, si presentano inoltre il candidato del M5S e altri quattro candidati minori. Fra essi, un candidato di disturbo per la coalizione di centrodestra, quello di Fratelli d’Italia.

    Passando in Veneto, a Vicenza troviamo un assetto coalizionale leggermente diverso. Il sindaco uscente Variati, in quota PD, è sostenuto da una coalizione che esclude SEL (autonoma), e che al contrario contiene i centristi dell’UDC. A sfidarlo, il centrodestra presenta una candidatura di prestigio, la leghista ex presidente della Provincia, Manuele Dal Lago, sostenuta da PDL, LN e tre liste civiche. Oltre a quello del M5S, si contano poi altri 7 candidati sindaco, di cui almeno 3 facenti capo all’universo della sinistra più o meno estrema.

    Per chiudere, il caso di Treviso è senza dubbio il più interessante, poiché è l’unico nel quale si rintraccia lo scenario quadripolare che abbiamo visto in scena alle recenti elezioni politiche. Nella Marca, infatti, è presente lo schieramento di centro, che propone niente meno che il noto imprenditore del caffè, ed ex esponente di Forza Italia, Massimo Zanetti, sostenuto da montiani e civici. Il centrodestra ripropone lo “sceriffo” Gentilini, sostenuto da PDL, LN, e due civiche. Il centrosinistra gli contrappone Manildo, proposto da PD, sinistre e movimenti civici. Il candidato grillino Alessandro Gnocchi e altri due sfidanti minori completano il quadro.

    Nel complesso, le coalizioni di centrodestra e centrosinistra mantengono ovunque la propria centralità nel sistema politico e cercano di arricchire la propria offerta elettorale affiancando alle liste di partito liste civiche di ogni tipo e varietà. Non sempre riescono a monopolizzare il proprio spazio politico di pertinenza, lasciando spazio in alcuni casi a candidati minori loro concorrenti d’area (SEL per il centrosinistra a Vicenza e Imperia; la Lega per il centrodestra a Sondrio), ma nel complesso tengono le fila abbastanza serrate. La loro posizione di vantaggio è sfidata ovunque dai candidati del Movimento 5 Stelle, ma anche dalla consueta schiera di altri soggetti civici prettamente locali che caratterizza questo tipo di consultazioni. Il centro invece, con l’eccezione di Treviso, pare sostanzialmente assente dalla competizione nel Nord del paese: da una parte la formazione prettamente montiana è ben lungi dall’essere presente diffusamente sul territorio, dall’altra l’UDC, evidentemente preoccupato dal pessimo risultato delle politiche che rischia di tenerlo fuori da molti consigli comunali, sceglie la coalizione a cui apparentarsi (o la lista entro cui presentare i propri candidati) basandosi esclusivamente sulle convenienze locali, senza seguire logiche nazionali.

  • Friuli VG: vince di un soffio Serracchiani su Tondo, i 5 stelle non sfondano

    di Federico De Lucia

    Nello scorso fine settimana si è votato in Friuli Venezia Giulia per l’elezione del Presidente della Regione e del Consiglio regionale. Contrariamente rispetto alle attese, il voto, che si collocava a poche ore dalla “drammatica” elezione del Presidente della Repubblica, ha dato un esito positivo per i due blocchi politici tradizionali ed un esito tutto sommato negativo per il Movimento 5 Stelle.

    La vittoria è andata, per soli 2.000 voti, a Debora Serracchiani, europarlamentare del PD, che ha sconfitto il presidente uscente Renzo Tondo, del PDL. I due candidati hanno ottenuto poco meno del 40% dei voti a testa, mentre Saverio Galluccio, candidato del M5S si è fermato sotto il 20%. (https://www.smallhandsbigart.com/)

    Il primo dato importante da sottolineare è il massiccio decremento dell’affluenza: si è recato alle urne solo il 50,5% degli aventi diritto. Quasi 27 punti percentuali in meno rispetto alle politiche dello scorso febbraio. Va detto però che tale percentuale è in qualche modo falsata dal fatto che la base su cui il tasso di partecipazione è calcolato è diversa: alle regionali infatti votano anche gli stranieri comunitari iscritti alle cosiddette “liste elettorali aggiunte”, e sono inoltre conteggiati nel corpo elettorale i residenti all’estero. Il 50,5% registrato a queste regionali corrisponde pertanto al 57,6% se lo calcoliamo sulla stessa base di elettori delle politiche. Comunque si tratta di un calo notevolissimo, che diviene ancora maggiore se a parametro prendiamo le regionali 2008 (allora però si votò in contemporanea con le politiche): in questo caso il crollo supera i 23 punti. Infine, rispetto alle ultime regionali che si svolsero isolatamente rispetto alle politiche, quelle del 2003, il calo si attesta invece attorno ai 14 punti percentuali.

    Partiamo dal confronto con le scorse elezioni regionali. Nella Tabella 1 è possibile vedere i risultati del 2013 a confronto con quelli del 2008. In primo luogo, si noti come nel 2013 si sia registrata una significativa differenza fra la competizione maggioritaria (candidati) e quella proporzionale (liste).

    Tab. 1 – Confronto fra elezioni regionali 2008 e elezioni regionali 2013 in Friuli Venezia Giulia

    In un contesto in cui è possibile il voto disgiunto e in cui (con una ferrea costanza rispetto al passato, 2003 compreso) circa il 25% dei voti validi sono esclusivamente personali (sono cioè voti espressi al solo candidato presidente), le due arene possono essere considerate come distinte. Ebbene: mentre Serracchiani ottiene una percentuale di consenso simile a quella delle sue liste, Tondo registra una prestazione non proprio esaltante, fermandosi sei punti percentuali sotto la propria coalizione. Il candidato a 5 Stelle invece, in coerenza con quanto avvenuto in altre elezioni regionali, ottiene una performance migliore di quella della propria lista di sostegno. Tuttavia, la presenza di una tale mole di voto personale rende impossibile provare se vi sia stato un vero e proprio voto disgiunto dal centrodestra verso Galluccio: le differenze nelle percentuali potrebbero essere spiegate semplicemente da una diversa propensione all’utilizzo del voto di lista degli elettori dei vari schieramenti.

    Per quanto riguarda i risultati, come si è detto la prestazione del candidato del M5S si è fermata di poco sotto il 20%, mentre la lista ha ottenuto poco meno del 14%. La presenza di un terzo polo di tale portata è andata ovviamente a danno dei due poli maggiori, che nel 2008 non dovevano fronteggiare ulteriori concorrenti. A subire le maggiori perdite percentuali rispetto a cinque anni fa è il centrodestra, il cui candidato si ferma quasi 15 punti sotto la propria precedente prestazione. Serracchiani invece, prende 7 punti in meno rispetto a quanto aveva preso, nel 2008, l’allora Presidente uscente Illy. Per quanto riguarda i risultati delle liste di centrosinistra, va segnalata una complessiva tenuta percentuale del PD e della lista civica ad esso collaterale, mentre, oltre al prevedibile crollo dell’IDV, si registra la non brillante performance di SEL, che in questo turno non era infastidita da concorrenti alla propria sinistra. Ottiene la sua tradizionale quota di consenso, infine la lista rappresentativa della minoranza linguistica slovena. Nel centrodestra, il calo percentuale di PDL e Lega Nord non è poi così travolgente, se si considera il buon risultato della lista civica di Tondo, dichiaratamente autonomista. Certo non positiva è invece la prestazione dell’UDC.

    Per chiudere sul confronto fra elezioni regionali, un cenno al voto di preferenza: quest’anno esso si è attestato al 48,4% dei voti di lista, un dato ben maggiore del 37,9% registrato nel 2008. Del resto, in un contesto in cui i voti di lista sono calati di quasi 170.000 unità, i voti di preferenza complessivi sono scesi di appena 20.000 (da 214.000 a 193.000). Il calo della partecipazione dunque non pare aver colpito più di tanto lo zoccolo duro dell’elettorato impegnato. PD e PDL hanno registrato tassi di preferenza di poco superiori al 52%, mentre il M5S, ancora poco avvezzo a questo tipo di competizione, si fermato al 23%.

    Passiamo al confronto con le recenti elezioni politiche. Nella Tabella 2 è mostrato il confronto fra le due tornate.

    Tab. 2 – Confronto fra elezioni politiche 2013 e regionali 2013 in Friuli Venezia Giulia

     

    Come si vede, a distanza di soli due mesi, la situazione è profondamente cambiata. Pur in un contesto in cui i voti validi sono quasi 200.000 in meno, i candidati Tondo e Serracchiani riescono a confermare, addirittura aumentandolo di qualche migliaio ciascuno, il bacino di voti assoluti ottenuti dalle proprie coalizioni alle politiche di febbraio. Svanisce, del resto orfana di candidati, la quota di consenso montiana, e addirittura si dimezza in termini assoluti il bacino del consenso grillino. Una competizione, quella delle politiche, che si era manifestata come rigidamente tripolare, al punto da vedere i tre contendenti dibattersi nello spazio di un punto percentuale, lascia spazio ora ad uno scarto di circa 20 punti fra i primi due ed il terzo di essi. In termini percentuali, pare di assistere ad una subitanea quanto inaspettata resurrezione di centrodestra e centrosinistra, con tutte le liste in sensibile recupero rispetto a soli due mesi prima. In realtà, tali dati vanno contestualizzati per essere compresi e ponderati a dovere.

    Come lo stesso blog di Beppe Grillo ha tenuto a puntualizzare, è in parte erroneo confrontare il dato delle politiche con quello delle regionali, perché le prestazioni che il M5S ha fino ad oggi collezionato nei due ambiti sono state sempre diverse. Nella Tabella 3 ne forniamo un riepilogo.

    Tab. 3 – Prestazioni percentuali del M5S alle politiche e alle regionali nelle cinque regioni rinnovatesi

    In effetti, in tutte le regioni in cui si è votato per rinnovare l’amministrazione negli ultimi mesi, il M5S ha ottenuto prestazioni sensibilmente inferiori rispetto a quelle ottenute, nello stesso ambito territoriale, alle politiche di febbraio. Se la Sicilia rappresenta un caso a parte, perché in essa le regionali si sono tenute prima delle politiche, e quindi queste possono essere considerate come una sorta di amplificazione del successo registrato in quelle, negli altri casi le cose non stanno affatto così. Sia nel momento del voto che due mesi dopo, quando il successo di Grillo era già o una prevedibile eventualità o una assoluta certezza, a livelli di affluenza alle urne estremamente variabili, e in contesti politici ben distinti, i candidati Presidente grillini ottengono prestazioni sensibilmente inferiori alle regionali di quelle ottenute dalla lista del M5S alle politiche.

    Se è vero dunque che confrontare politiche e regionali può essere fuorviante, a questo punto diviene però cruciale spiegare da cosa derivano tali costanti differenze di prestazione. Difficile dare spiegazioni esaustive, almeno fino a quando non avremo dati di flusso. Certamente il dato friulano ci permette di fare una analisi minimamente più dettagliata: nella Tabella 4 abbiamo distinto il dato dei capoluoghi di provincia da quelli del resto della regione.

    Tab. 4 – Prestazioni delle coalizioni in Friuli Venezia Giulia alle politiche e alle regionali 2013, distinzioni fra comuni capoluogo e non capoluogo

    Come si vede, mentre il centrosinistra registra in entrambi gli aggregati territoriali un andamento coerente (+12 punti) a quello medio regionale, lo stesso non vale per il centrodestra e per il M5S. Il centrodestra, che sale mediamente di 11 punti, vede un incremento maggiore nelle zone meno popolose (+12,2) rispetto che nei capoluoghi (+8,4). Lo stesso avviene, scendendo a livello di liste (che per ragioni di spazio non riportiamo), alla Lega Nord, che sale di 1,6 punti a livello medio, ma in realtà, unica fra le sue alleate, con tendenze abbastanza differenziate sul territorio (solo dello 0,8% nei capoluoghi, di quasi il 2% altrove). La tendenza speculare a quella appena descritta è quella che caratterizza il M5S, che cala mediamente di 8 punti, ma che scende ben più nelle zone periferiche (-9) rispetto che in città (-5,8). Insomma, se il calo di Grillo avviene ovunque, esso è più marcato fuori dai capoluoghi, ovvero nelle zone in cui al contrario è il centrodestra, e la Lega in particolare, a salire di più.

    Nelle ore precedenti all’inizio dello scrutinio, sui media il dato dell’affluenza era stato messo immediatamente in relazione con le vicende politiche nazionali, che vedevano il PD in fortissima difficoltà sulla questione della elezione del Capo dello Stato. In realtà, la tesi che prevedeva il crollo delle sinistre e l’avanzata del M5S è stata smentita dai risultati elettorali. Nel complesso, l’impressione generale che si ricava dalla lettura combinata del dato sulla partecipazione e da quella delle performance di candidati e liste è molto simile a quella che abbiamo registrato in occasione delle regionali siciliane dell’ottobre scorso, e che è stata poi confermata dalla successiva tornata di elezioni regionali in Lombardia, Lazio e Molise. L’insoddisfazione dei cittadini si esprime, certo, in un evidente successo del movimento di Grillo, ma a livello amministrativo i grillini non riescono a sfondare come invece hanno fatto a livello nazionale. Questo si è verificato in date diverse (ottobre-febbraio-aprile), in elezioni con tassi di partecipazione diversi (50% in Sicilia e Friuli, oltre il 70% in Lombardia e Lazio), in contesti socio-politici diversi (Nordest, Centro, Sud), ed in momenti politici addirittura opposti (prima, durante e dopo il successo del M5S). Non stiamo parlando, cioè, di una coincidenza ma di una precisa tendenza elettorale. Certamente questo lancia una luce molto precisa sulla natura del voto politico del febbraio scorso: un voto di protesta esplicita nei confronti della classe politica nazionale, espresso da un elettorato in gran parte capace di distinguere il livello italiano da quello locale. A questa ipotesi di lavoro, vanno aggiunte alcune variabili di ingegneria elettorale che sono certamente in grado di produrre conseguenze significative: 1) la presenza dell’elezione diretta del Presidente, che personalizza molto la campagna elettorale e che induce i partiti tradizionali a selezionare candidati presentabili e radicati sul territorio; 2) la presenza del voto di preferenza, che contribuisce senza dubbio alla tenuta dei partiti tradizionali, i cui candidati di lista sono ben più conosciuti localmente. In entrambi questi ambiti, il M5S parte evidentemente svantaggiato, e non riesce a colmare tale gap nemmeno (come in Lazio, Lombardia e Molise) quando a votare sono gli stessi elettori delle politiche, e nemmeno (come in Friuli) in momenti che gli sarebbero notevolmente favorevoli dal punto di vista politico generale.

  • Quirinale, eletti tutti i Delegati regionali: il punto della situazione

    di Federico De Lucia

    “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.

    L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta.”

    Così recita l’articolo 83 della Costituzione italiana. Ieri, con la confusa seduta del Consiglio regionale delle Marche, si è delineato definitivamente lo scenario dei 1003 componenti del collegio elettorale presidenziale, che sintetizziamo nella Tabella 1 (sono esclusi da tale prospetto i 4 senatori a vita).

    Tab. 1 – Gli elettori dell’erede di Napolitano: quadro riepilogativo delle appartenenze politiche


    Nel complesso, come si vede, il centrosinistra giunge ad un soffio dall’avere la maggioranza assoluta. Da soli, i suoi voti non saranno sufficienti nemmeno a partire dal terzo scrutinio. Questo significa che per eleggere il Capo dello Stato sarà comunque necessario coinvolgere qualcun altro, o comunque ottenere una parte dei suoi voti. Che sia politicamente opportuno farlo a prescindere è cosa ovvia; che sia numericamente necessario farlo è cosa foriera i conseguenze notevoli sulle posizioni strategiche dei partiti. Comunque, al centrosinistra basterebbe concludere un accordo anche solo con i montiani per ottenere una maggioranza praticabile per eleggere il Presidente al terzo scrutinio.

    Per quanto riguarda i Delegati regionali, è prevalso ovunque il tradizionale criterio della rappresentanza istituzionale: tutti gli eletti sono Consiglieri regionali; 17 Regioni su 20 hanno eletto il Presidente della Giunta regionale; 16 su 20 il Presidente del Consiglio regionale. Su 58, solo 5 sono le donne.

    Diamo una rapida occhiata alle componenti politiche interne agli schieramenti maggiori. I 28 eletti di centrosinistra sono così divisi: 23 esponenti del PD  (fra cui Errani, Rossi, Zingaretti), due esponenti “civici” (Ambrosoli e Crocetta), un esponente di SEL (il Presidente del Consiglio regionale pugliese Introna), un esponente della SVP e un esponente comunista. Il centrodestra è composto da 23 esponenti del PDL (fra cui Caldoro, Scopelliti e Cappellacci) e da 4 leghisti (Zaia, Maroni, Cota e il Presidente del Consiglio regionale friulano Franz). I due montiani sono due esponenti dell’UDC, entrambi Presidenti di assemblea (il siciliano Ardizzone e il ligure Monteleone). L’esponente della voce “Altri” in Tabella 1 è il Presidente valdostano Rollandin (esponente dell’Union Valdotaine). Nessun delegato al Movimento 5 Stelle che si è visto escludere anche in Sicilia, dove del resto conta 15 seggi contro i 29 dell’altra minoranza assembleare, quella di centrodestra. Nella Tabella 2 è riportato l’intero elenco dei delegati, con partito di riferimento e carica ricoperta.

    Tab. 2 – I Delegati regionali per l’elezione del successore di Napolitano

  • In Molise è Frattura, dopo 15 anni archiviata l’era Iorio

    di Federico De Lucia

    Alle regionali molisane del novembre 2011, il Presidente uscente Michele Angelo Iorio era riuscito ad avere la meglio sul candidato del centrosinistra Paolo di Laura Frattura di una manciata di voti, nonostante una pesantissimo voto disgiunto esercitato ai suoi danni da una componente significativa degli elettori delle liste che lo sostenevano (minino 12.000 elettori, più del 10% della coalizione di centrodestra). La vittoria era stata determinata dalla capacità del centrodestra di costruire una coalizione larga e articolata in una molteplicità di liste centriste, che valorizzassero e mettessero a frutto la natura dell’elettorato molisano, fortemente vincolato ai candidati di lista.

    Il riscontro di alcune pesanti irregolarità nella raccolta delle firme ha condotto, nell’ottobre scorso, ad una sentenza del Consiglio di Stato di annullamento delle elezioni del 2011, e all’indizione di nuove elezioni nell’election day di quest’anno.

    Sia il Presidente uscente Michele Iorio che il suo sfidante Paolo Frattura hanno scelto di ricandidarsi alle elezioni del 2013, capeggiando rispettivamente le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra, e così ha fatto anche Antonio Federico, il candidato del Movimento 5 Stelle.  Sono però significative le differenze di offerta elettorale che si riscontrano rispetto alle elezioni annullate del 2011. Innanzitutto, uno spezzone significativo del centrosinistra, il movimento Costruire Democrazia di Massimo Romano, ex IDV e terzo classificato alle primarie che nel 2011 incoronarono Frattura, ha scelto di presentare la propria candidatura autonoma, sostenuta dal suo movimento, da Fare per Fermare il Declino e da una lista civica. Questa defezione rischiava di sottrarre alla coalizione di centrosinistra una quota di sostegno decisiva nella lotta per la conquista della Regione, ma Frattura ha scelto di adottare la stessa strategia inclusiva che sino a qualche tempo fa aveva caratterizzato il centrodestra: ben due importanti segmenti del centrodestra del 2011, ovvero l’Udeur del consigliere Vincenzo Niro, e la ex Alleanza di Centro (ora Rialzati Molise) del consigliere Mario Pietracupa, hanno abbandonato Iorio per sostenere il centrosinistra, e si sono pertanto aggiunti alle altre liste progressiste, ovvero il PD, l’IDV, il PSI, due liste di sinistre radicale (SEL e PDCI) e due liste civiche (tra cui una, Unione per il Molise, composta esclusivamente da amministratori locali). A sostegno di Iorio sono rimasti invece in pochi: il PDL, l’UDC, Grande Sud, Progetto Molise, e la Destra (che nel 2011 era corsa invece da sola). Fuori dai poli, oltre a Romano e a Federico del Movimento 5 Stelle, solo due liste minori.

    I risultati parlano chiaro: la vittoria è andata nettamente a Paolo Frattura, che con quasi 20 punti percentuali di vantaggio strappa la Regione a Iorio dopo 15 anni di dominio. Nel corso della campagna elettorale è però intervenuto un fatto molto rilevante, che ha contribuito certamente ad indirizzarne gli esiti: l’esclusione della lista del PDL dalla Provincia di Isernia (dove nel 2011 aveva preso 13.000 voti, risultando nettamente la prima a livello provinciale). È evidente quanto questo sia risultato decisivo, non solo nel produrre la pessima prestazione del PDL a livello regionale, ma anche nel determinare, prima delle elezioni, la percezione che esse non potessero essere vinte. Questo, in un contesto clientelare, produce conseguenze notevolissime anche sulle altre liste, e ce ne rendiamo conto osservando la Tabella 1, dove sono riportati, in valori assoluti e percentuali, i risultati del 2013 a confronto con quelli del 2011.

    Tab. 1 Elezioni regionali 2013 in Molise a confronto con quelle, annullate, del 2011  

    Come si vede, in un contesto in cui l’affluenza è rimasta sostanzialmente la stessa (attorno al 60%), Frattura ha mantenuto sostanzialmente le proprie posizioni del 2011 dal punto di vista dei voti al candidato, mentre ha aumentato sensibilmente il proprio totale di voti di lista. Curiosamente, li ha aumentati di una cifra quasi identica a quei 12.000 voti disgiunti che nel 2011 avevano disertato Iorio. Per quest’ultimo si tratta invece di una debacle: un vero e proprio dimezzamento in termini di consensi assoluti. Oltre alla (inevitabilmente) pessima prestazione del PDL, orfano di una delle due liste provinciali, anche le liste centriste e clientelari che hanno scelto di restare ad esso coalizzate (UDC, Grande SUD, Progetto Molise) si sono tutte prodotte in prestazioni molto negative, mentre al contrario quelle che hanno abbandonato Iorio per sostenere Frattura (ovvero Rialzati Molise e UDEUR) hanno visto un incremento del loro consenso. A questo si aggiunga l’ottima prestazione della lista degli amministratori locali di centrosinistra, Unione per il Molise, e la discreta crescita del PD (che in buona parte però a dovuta al rientro in lista di alcuni notabili che un anno e mezzo fa si erano presentati nella lista dell’API). L’IDV di Di Pietro, nelle catastrofe nazionale, riesce a tenere le posizioni (e a far rieleggere Cristiano Di Pietro in Consiglio regionale), e lo stesso vale per le due liste di sinistra radicale. La saggia politica di costruzione dell’alleanza, tutte queste prestazioni positive, oltreché il crollo dell’avversario principale, hanno consentito al centrosinistra di non soffrire affatto la concorrenza d’area esercitata da Massimo Romano e dalla sua Costruire democrazia, che pure hanno ottenuto un ottimo risultato, anche a confronto con il 2011.

    Per chiudere due parole sul risultato del Movimento 5 Stelle, che passa da 10.000 a 32.000 voti per quanto riguarda il voto al candidato, e da 4.000 a 20.000 per quanto riguarda il voto di lista. Un successo notevole, ovviamente da mettere in connessione con le vicende nazionali. Da notare, a tal proposito, due differenze: in primo luogo la fortissima differenza di prestazione fra il candidato e la lista, da riconnettersi alla natura profondamente atipica del voto a 5 stelle, del tutto slegato dal radicamento territoriale dei candidati di lista; in secondo luogo, ma in stretta connessione con quest’ultimo punto,  la grande differenza, in negativo, che il M5S registra rispetto alle contemporanee politiche (nelle quali ha ottenuto 54.000, pari al 27% dei voti validi), agone nel quale ovviamente i grillini soffrivano la dura concorrenza degli aspiranti consiglieri presenti nelle altre liste.

  • L’analisi dell’affluenza: una forte accelerazione del declino della partecipazione

    di Federico De Lucia e Matteo Cataldi

    L’Italia, per quasi cinquant’anni, ha avuto tassi di partecipazione elettorale assolutamente altissimi, sconosciuti in quasi tutte le altre democrazie liberali: dal 1948 al 1976 il tasso di partecipazione elettorale registrato in occasione delle elezioni politiche è rimasto sopra il 90%. A partire dalle elezioni del 1979 (e fino a quelle del 2001 comprese) le comparazioni diacroniche con le fasi precedenti e successive diventano purtroppo difficili perché nel computo degli elettori vengono inseriti gli italiani residenti all’estero, che avendo tassi di partecipazione bassissimi, abbassano sensibilmente il dato percentuale dei votanti. Dal grafico in Figura 1, che mostra con una spezzata i dati relativi al periodo di computazione degli italiani residenti all’estero, appare comunque evidente che i tassi, pur rimanendo altissimi, entrano proprio in occasione dei primi anni ‘80 in una fase di calo. Tuttavia, se nella fase finale della Prima Repubblica si è assistito a cali abbastanza repentini (1983, 1992) ma anche a rimbalzi significativi (1987), a partire dall’avvento della “cosiddetta” Seconda Repubblica, da una parte il calo è divenuto una costante, dall’altra esso si è manifestato in modo più accentuato in occasione delle elezioni fissate ad una scadenza anticipata rispetto a quella naturale della legislatura (1996, 2008).

    Figura 1 – Trend affluenza alla Camera 1948-2013

    Una componente significativa di questo calo della partecipazione, che ha interessato sia la Seconda Repubblica che la parte finale della Prima, è connessa inevitabilmente al crollo della tensione ideologica del sistema politico italiano dopo quasi mezzo secolo lotta fra visioni del mondo violentemente contrapposte. Si tratta cioè di un fenomeno in gran parte anagrafico, connesso al ricambio generazionale: coorti demografiche anziane, socializzate in periodi di forte contrapposizione ideologica e di grande forza organizzativa dei partiti, e pertanto caratterizzate da altissimi tassi di partecipazione elettorale, sono state progressivamente sostituite da coorti demografiche giovani, spesso non ideologizzate e spessissimo molto lontane dalla militanza politica attiva.

    Una seconda componente, che ha caratterizzato in particolare l’ultimo ventennio, pare invece connessa alla percezione dell’inefficienza del nuovo sistema politico, e alla disillusione che questa ha progressivamente creato in alcuni settori dell’elettorato. Il calo della partecipazione accelererebbe in occasione delle elezioni anticipate perché è proprio in tali circostanze che tale inefficienza e tale disillusione si manifestano con maggiore evidenza.

    Ma entrambe queste chiavi di lettura non bastano a spiegare il dato che abbiamo registrato nel 2013: un tasso di partecipazione del 75,2%, 5,3 punti percentuali in meno rispetto al 2008, al termine di una legislatura durata sostanzialmente tutti e cinque gli anni previsti. Un dato impressionante, che non ha precedenti nella storia del Paese: le ultime legislature quinquennali si erano chiuse con cali della partecipazione tre volte inferiori. È impossibile non mettere in relazione questa velocissima accelerazione con la profonda crisi politica del paese, ed in particolare con quanto è successo nell’ultima parte della legislatura appena conclusasi: il totale ed incondizionato passo indietro dei partiti di fronte all’instabilità finanziaria nel novembre 2011, il loro assenso alle politiche di austerity del governo tecnico nel corso dell’annata successiva, la loro campagna elettorale al contrario fortemente critica nei confronti di tali politiche, il mancato rinnovamento interno dei due poli principali, l’incapacità di riformare la legge elettorale, il susseguirsi tambureggiante di scandali giudiziari di ogni tipo, il clima populista e anti-casta che ha caratterizzato gli ultimi anni. L’effetto combinato di questi elementi hanno prodotto una sorta di fallimento del sistema politico della Seconda Repubblica, persino nella sua ultima declinazione quasi bipartitica (l’assetto generato dalle elezioni del 2008), ed una sua quasi totale delegittimazione. La reazione dell’elettorato c’è stata, ed una parte di essa si è concretizzata in un semplice fatto: due milioni e mezzo di votanti in meno.

    Nelle Figure 2 e 3 possiamo vedere il dato della partecipazione disaggregato a livello provinciale sul territorio nazionale. Nella prima mappa è riportata la percentuale di votanti alla Camera nelle recenti elezioni, nella seconda la differenza tra l’affluenza registrata nel 2013 e quella rilevata cinque anni fa. Le differenze cromatiche raggruppano le province in quartili.

    In ben una provincia su quattro, la partecipazione è stata inferiore al 70%. La totalità di questi casi si colloca nel Mezzogiorno continentale ed insulare, nel quale si salvano solo poche eccezioni. Nelle regioni centrali, la partecipazione presenta dati superiori alla media (75,2) nel Lazio e nella Zona Rossa, con punte nel cuore più identitario di quest’ultima: la Toscana centrale ed orientale, le Marche e l’Umbria settentrionali, la Romagna e l’Emilia sino a Reggio. Al Nord, invece si identifica una chiara distinzione fra il Nord Est, e in particolare la Lombardia orientale e il Veneto, dove la partecipazione resta attorno o sopra l’80%, e il Nord ovest, in particolare il varesotto, il comasco e le province del Piemonte orientale, in alcune delle quali si scende addirittura sotto la media nazionale. Restano sopra quest’ultima, ma di poco, le province metropolitane di Milano e Torino. Passando alla seconda mappa, in gran parte speculare alla prima, l’articolazione geografica del calo della partecipazione rispetto al 2008 evidenzia come le zone più colpite siano sostanzialmente due: il meridione, sia continentale che insulare (segnatamente la Sicilia), e la zona compresa fra Lombardia e Piemonte. La partecipazione ha invece tenuto, in confronto alle scorse elezioni, in buona parte della Zona Rossa e del Triveneto, così come nelle aree metropolitane di Roma e Torino.

    Figura 2 – Affluenza per provincia, Camera dei deputati 2013

     

    Figura 3 – Variazione 2013 – 2008 della percentuale di votanti

     

     

     

     

  • Gli eletti del polo di Monti

    di Federico De Lucia

    La coalizione centrista guidata da Mario Monti si presentava agli elettori con due formati diversi fra Camera e Senato. Alla Camera, dove era presente sotto forma di coalizione, ha superato di un soffio la soglia coalizionale del 10%, e così facendo ha permesso che ottenessero seggi due liste: Scelta civica, che ha ottenuto 39 seggi, e l’UDC, come prima ripescata sotto il 2%, che ne ha ottenuti 8. È rimasta esclusa invece la lista di FLI, con capolista Gianfranco Fini. Al Senato, dove la coalizione si presentava sotto forma di lista unica, essa ha superato la soglia dell’8% in 12 regioni (tutte tranne Lazio, Abruzzo, Calabria, Sicilia e Sardegna), ottenendo un totale di 18 seggi. Ha poi ottenuto tre seggi all’estero (due alla Camera e uno al Senato) il MAIE, che nella scorsa legislatura è stato sempre nell’area terzopolista. Infine, in due collegi senatoriali del Trentino Alto Adige hanno ottenuto l’elezione due esponenti di due partiti dell’area di Dellai, vicina a Monti. Considerando montiani sia gli eletti del MAIE, che quelli dell’area dellaiana, i parlamentari eletti dell’area montiana sono in tutto 71.

    Fra questi i 71 eletti, 6 hanno ottenuto più di una elezione: si tratta di Alberto Bombassei per la lista Scelta Civica alla Camera, Lorenzo Cesa, Mario Catania e Gianpiero D’Alia per la lista UDC alla Camera, e Pietro Ichino e Pier Ferdinando Casini per la lista unica la Senato . Come noto, essi dovranno optare per una delle loro posizioni eleggibili e daranno così luogo ai ripescaggi. Poiché non è possibile ad oggi determinare quale sia la posizione che sceglieranno, siamo costretti ad ipotizzare come eletti tutti i possibili ripescati. Il numero complessivo di eletti che proponiamo in queste tabelle non è pertanto 71, ma 77 (ci sono cioè 6 ripescati eccedenti, che però non possiamo identificare fra quelli possibili).

    Coloro che, nel Parlamento uscente, si identificavano nella proposta politica montiana erano in tutto 104:  43 dell’’UDC, 31 di FLI, e 30 esponenti dell’area liberale e popolare, la gran parte dei quali proveniente da una lenta e costante erosione dei gruppi parlamentari di PD e PDL. Di questi 104 parlamentari, solo 16 sono riusciti a trovare spazio in posizioni che si sono rivelate eleggibili: 10 sono esponenti dell’UDC (anche se certamente 2 di essi dovranno rinunciare per il meccanismo delle opzioni), 2 sono finiani (di cui uno eletto all’estero) e 4 ex PD (fra cui Linda Lanzillotta, esponente di Italia Futura).

    Tab. 1 Uscenti Monti: sorte dei parlamentari uscenti montiani

     

    Pertanto, solo il 21% (16 su 77 eletti, salve le opzioni) circa della pattuglia parlamentare montiana sarà composto da deputati uscenti ricandidati. In questo svolge un ruolo decisivo la corposa componente di Scelta civica, lista interamente priva di parlamentari uscenti. Poche, appena 13, le donne.

    Tab. 2 Eletti Monti: Rappresentanza femminile e presenza di parlamentari riconfermati negli eletti montiani

    Diamo conto ora della composizione politica della pattuglia montiana che siederà in Parlamento. Escludendo dal computo i 6 eletti all’estero che si ispirano più o meno direttamente a questo schieramento (1 di loro è un finiano, 3 sono del MAIE), la componente maggiore del polo montiano è costituita dai montezemoliani di Italia Futura: essi sono in tutto 24. Molto rappresentata anche la componente cattolica ispirata da Riccardi, che conta 17 membri. Sono 10 gli eletti scelti direttamente da Monti, mentre sono in tutto 5 gli ex PD e gli ex PDL (Merloni, Maran e Ichino i primi, Albertini e Mauro i secondi). Uno solo il finiano eletto in Italia (Benedetto Della Vedova), mentre sono 14 gli UDC (fra i quali Casini, Buttiglione, Cesa, Binetti e il ministro uscente Catania).

    Tab.3 Eletti Monti: appartenenza politica dei parlamentari montiani