Autore: Federico De Lucia

  • Elezioni in Danimarca. Il dilemma della sinistra (danese): cambiare per vincere?

    Elezioni in Danimarca. Il dilemma della sinistra (danese): cambiare per vincere?

    Mercoledì scorso, pochi giorni dopo il rinnovo del Parlamento Europeo, la Danimarca è tornata al voto anche per l’elezione del proprio parlamento nazionale, dopo quattro anni dalla scorsa elezione legislativa del 2015. I seggi in palio sono 175, e ad essi si aggiungono 2 seggi a testa per le due regioni autonome delle Far Oer e della Groenlandia, che ottengono così rappresentanza nel parlamento nazionale. I seggi eletti in Danimarca vengono distribuiti con un metodo proporzionale (135 in 10 circoscrizioni distrettuali, 40 in un collegio unico nazionale), che prevede una soglia di sbarramento al 2% nazionale (superabile nel caso un partito ottenga seggi direttamente in una delle circoscrizioni).

    La Danimarca è reduce da un quadriennio di governo di centrodestra, guidato da Lars Løkke Rasmussen, leader del Partito Liberale da ormai un decennio e figura politica che aveva già guidato il paese già nel biennio 2009-2011. Allora, era succeduto alla guida del suo partito, e del governo, ad un altro Rasmussen, Anders Fogh, al potere negli otto anni precedenti e nominato, nel 2009, dodicesimo segretario generale della Nato.

    Sconfitto dalla coalizione di centrosinistra alle elezioni del 2011 per pochi seggi, Rasmussen è rimasto in sella come leader dei Liberali (affiliati all’ALDE a livello europeo, ma tradizionale perno del centrodestra danese), guidandoli per quattro anni di opposizione del governo di sinistra di Helle Thorning-Schmidt e riuscendo poi a condurli ad una risicata vittoria alle elezioni del 2015. Il blocco moderato infatti, composto, oltre che dai liberali, anche dai conservatori (affiliati al PPE), dai libertari di Alleanza Liberale e dal Partito del Popolo danese, ottenne in quella occasione il 51,5% dei voti e 90 seggi, uno in più della maggioranza assoluta. Tale vittoria fu in realtà il prodotto del trionfo del Partito del Popolo danese, forza xenofoba piazzatisi seconda con oltre il 20% dei consensi, che aveva segnato un aumento di 9 punti percentuali rispetto all’elezione precedente. I Liberali di Rasmussen, al contrario, erano calati di 7 punti rispetto al 2011, scendendo al terzo posto per la prima volta dopo 25 anni, ma paradossalmente avevano l’opportunità non solo di tornare al governo, ma persino di farlo da una posizione di leadership. Infatti il Partito del Popolo danese, che dopo anni di affiliazione ai Conservatori europei è ora in trattativa a livello europeo per aderire alla nuova destra sovranista guidata da Salvini e Le Pen, si rifiutò di assumere una posizione di leadership al governo, e si dichiarò disposto a sostenere dall’esterno un governo di centrodestra. Il leader del partito, già allora l’attuale Kristian Thulesen Dahl era convinto di riuscire, in questo modo, a condizionare le politiche migratorie dell’esecutivo senza compromettersi troppo su altri settori di policy. Così, Rasmussen ridivenne premier, e ha da allora guidato il paese, prima a capo di un governo di minoranza monocolore (fino a fine 2016) e poi di un governo tripartito con conservatori e libertari, ma sempre basato numericamente sul sostegno esterno del Partito del Popolo danese, e programmaticamente molto legato alle priorità di Dahl e dei suoi.

    La strategia dell’estrema destra danese sembrava vincente, ma in un certo senso lo è stata troppo. Il governo Rasmussen infatti non si è limitato a seguire la linea dura sul fronte migratorio: si è risolto a farne una vera e propria questione di unità nazionale, sulla quale è stato seguito, sorprendentemente, anche dal principale partito di opposizione, i socialdemocratici. Questi ultimi hanno assunto una posizione assolutamente eterodossa sul fronte delle politiche migratorie rispetto al resto della sinistra europea, giustificandola, per così dire, da sinistra. In particolare, la nuova giovane leader dei socialdemocratici, Mette Frederiksen, ha sostenuto la tesi che la spesa necessaria per l’integrazione di nuovi migranti nella società danese si configurasse come assolutamente incompatibile con il mantenimento dello stato sociale danese, ancora pervasivo ma sempre più difficilmente sostenibile.

    Il convergere di una così larga parte dello spettro politico danese su atteggiamenti di chiusura sul fronte dell’arrivo di nuovi migranti, in un inedito e aperto contrasto con l’UNHCR, ha avuto l’effetto di azzerare di colpo la novità politica che nel 2015 aveva costituito il Partito del Popolo danese, che dal canto suo ha avuto il demerito strategico di focalizzarsi quasi esclusivamente sul tema migratorio, tralasciando del tutto altre questioni molto care ai danesi, come il mantenimento dei servizi sociali e la questione ambientale.

    Così, si è arrivati alle elezioni del 2019, i cui risultati sono confrontati, nella Tabella 1, con quelli delle elezioni precedenti.

    Tab. 1 – Risultati delle elezioni parlamentari in Danimarca, 2015 e 2019dan1

    Le elezioni politiche del 2019 hanno replicato, esasperandone ulteriormente le tendenze, i risultati delle elezioni europee di pochi giorni prima. Sono state elezioni particolarmente innovative rispetto alle scorse legislative: esse hanno registrato un tasso di volatilità elettorale del 20,6%, il valore più alto dal 1973 (Emanuele 2015), un anno che in Danimarca è considerato come segnato da un vero e proprio terremoto elettorale. In questo contesto di particolare turbolenza rispetto alla tornata precedente, uno dei partiti che ha visto più significativamente mutare, e in peggio, il proprio consenso, è il Partito del Popolo danese, che è passato dal 21,1% del 2015 all’8,7%. Un crollo verticale, di 12 punti e mezzo, che spiega integralmente la sconfitta del blocco conservatore, calato nel suo complesso dal 51,5 al 41,1%. Una parte di questi consensi sembra essersi rivolta ancora più a destra (vi sono due nuovi partiti fortemente anti-islamici che nel complesso hanno ottenuto il 4% circa). Gli altri partiti del centrodestra non sono andati altrettanti male, anzi: sono tornati a crescere sia i Conservatori che, soprattutto, i Liberali di Rasmussen.

    Tuttavia, è difficile non riconoscere il successo della strategia portata avanti dai socialdemocratici sulle questioni migratorie. Nonostante la scelta di questa linea politica certamente azzardata, il partito della Frederiksen ha confermato esattamente il proprio bottino di quattro anni fa, che di questi tempi per la sinistra moderata europea è un risultato davvero considerevole. Difficile dire cosa sia successo nelle urne, non disponendo dei flussi, ma il fatto che i due partiti di sinistra più alternativa, i social-liberali (affiliati all’ALDE) e i socialisti (che, attenzione, nonostante il nome aderiscono ai Verdi a livello europeo), ovvero i due partiti che più hanno polemizzato con la politica anti-immigrazione dei socialdemocratici, siano raddoppiati sia in termini di voti che in termini di seggi, lascia immaginare che vi sia stato un qualche smottamento a sinistra dell’elettorato. Da una parte cioè, vi sarebbero voti provenienti da destra in direzione dei socialdemocratici, convinti da una posizione allineata con il dogma della chiusura dei confini; dall’altra vi sarebbe una fuga verso sinistra dell’elettorato più sensibile alle questioni dei diritti umani, che si è rivolto alle forze della sinistra alternativa. Come si diceva, in assenza di flussi è impossibile escludere scenari alternativi, ma vi è una forte probabilità che le cose siano andate così. Come che sia, quello che è avvenuto nelle urne ha prodotto una sonante vittoria per lo schieramento di sinistra nel suo complesso: esso è salito dal 42,9 del 2015 al 49,2 di pochi giorni fa, ottenendo 91 seggi ed avendo quindi la possibilità teorica di tornare al governo dopo quattro anni di opposizione.

    Fig. 1 – Il nuovo parlamento danese, dopo le elezioni del 2019 (clicca per ingrandire)dan2

    Tuttavia, disporre dei numeri per formare un governo e permettere che esso nasca effettivamente sono due cose diverse, e la strategia dei socialdemocratici, vincente nelle urne, potrebbe rivelarsi troppo audace per ottenere i consensi necessari nel parlamento danese. Essa chiama in causa un problema ben più grande della Danimarca, concernente la crisi d’identità della sinistra europea.

    Quanto avvenuto nel paese nordico è senza dubbio interessante, e spinge ad interrogarsi su tale questione, in un momento in cui a livello continentale si assiste ad un reflusso della sinistra tradizionale (così come della destra moderata), sia a vantaggio della destra xenofoba, che a vantaggio delle altre forze di sinistra (verdi e liberali). La sinistra moderata danese ha invece vinto, in questo smarcandosi rispetto a quanto avviene in quasi tutto il resto d’Europa, anche a latitudini molto vicine (per la Finlandia, tornata al voto poche settimane fa, si veda De Lucia 2019), e la cosa interessante è che vi è riuscita rincorrendo la destra sul tema migratorio: una strategia che ad altre latitudini non ha sortito gli stessi effetti (si pensi alle polemiche interne al PD sul risalto dato alla figura di Minniti alle elezioni politiche del 2018). Di fronte alla novità di un partito socialdemocratico identitario sul fronte della protezione dei confini, una parte dell’elettorato pare quindi tornato a sinistra. La tentazione che viene subito è quella di affermare che in realtà non si tratta di uno spostamento a sinistra dell’elettorato, ma di uno spostamento a destra dei socialdemocratici, ma attenzione: si tratta di una questione molto meno banale di quanto sembri, perché chiama in causa la definizione dello stesso concetto di sinistra. Certamente la sinistra socialdemocratica danese ha scelto di assumere posizioni conservatrici sul fronte migratorio e dei diritti civili, ma altrettanto certamente essa ha scelto di farlo legando questa sua nuova posizione ad un tema fortemente di sinistra (si direbbe, in Italia, “di sinistra-sinistra”), e molto caro all’elettorato nordico, ovvero l’attenzione alla salvaguardia dello stato sociale. Lo “spostamento a destra” dei socialdemocratici non è quindi una mossa banale: è un tentativo di ridefinizione dell’identità stessa della sinistra danese. Una sinistra che, considerata nel suo complesso, si configura in questo momento come spaccata a metà dal punto di vista elettorale, sospesa le proprie tematiche classiche e nuovi dilemmi dal punto di vista programmatico. Proprio per questo, sarà molto interessante comprendere quale punto di caduta troveranno le trattative per la formazione del governo che si apriranno nei prossimi giorni tra i vari partiti del blocco progressista danese. Non a caso, Mette Frederiksen sembra intenzionata a proporre un governo di minoranza, che le consenta di tenere aperti contemporaneamente i due forni, quello con le forze di sinistra sui provvedimenti sociali e sulla lotta al cambiamento climatico (due fronti su cui la Danimarca è all’avanguardia a livello planetario, e ai quali l’opinione pubblica tiene moltissimo), e quello con le forze di destra sulle questioni migratorie (altrettanto caro all’elettorato). Questa strategia le consentirebbe di non dover scegliere in modo totalizzante da che parte stare, e quindi a cosa dare priorità tra tutela dello stato sociale e dell’ambiente da una arte, e chiusura dei confini dall’altra, due cose che per la sua impostazione, del resto, sono intrinsecamente legate. Vedremo se le altre forze di sinistra glielo consentiranno. Se così faranno, ammetteranno implicitamente che la questione migratoria è tutto sommato secondaria, sacrificabile rispetto alle altre, e ammetteranno così, anche se indirettamente, le posizioni di chiusura sui migranti nell’alveo programmatico progressista. Se al contrario dovessero rifiutarsi, potrebbero spingere i socialdemocratici a rivolgersi a destra: basterebbe un accordo con i liberali, o l’astensione di questi ultimi, per consentire la nascita del governo Frederiksen. Ipotizzando (e non è scontato) che i Liberali fossero d’accordo, sarebbe una sconfitta grave per tutte e due le metà dello spettro progressista: sia per i socialdemocratici, che vedrebbero sconfessata la propria (audace) linea politica recente, e si troverebbero a trattare con le destre proprio su quella che hanno decantato negli ultimi anni come la loro priorità assoluta, ovvero la tutela dello stato sociale, su cui i Liberali la pensano in modo nettamente diverso; sia per la sinistra alternativa, che respingendo la linea socialdemocratica come un corpo alieno tutelerebbe la proprie purezza ideologica ma certificherebbe una spaccatura insanabile con l’altra metà del proprio mondo, sancendo così la propria posizione strutturalmente minoritaria.

    Insomma, si dice che una sinistra in Danimarca abbia vinto, ma non è chiaro quale essa sia. In questo momento, per la verità, essa pare trovarsi di fronte ad un dilemma ben maggiore di quello al quale si sarebbe trovata in caso di sconfitta: deve scegliere se cambiare (per governare) o morire.

     

    Riferimenti bibliografici

    De Lucia, F. (2019), ‘Elezioni in Finlandia, la sinistra cresce ma non vince’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/04/17/elezioni-in-finlandia-la-sinistra-cresce-ma-non-vince/

    Emanuele, V. (2015), Dataset of Electoral Volatility and its internal components in Western Europe (1945-2015), Rome: Italian Center for Electoral Studies, https://dx.doi.org/10.7802/1112

  • Gli eletti: la quiete dopo la tempesta

    Gli eletti: la quiete dopo la tempesta

    Sul fronte della composizione della classe politica, ed in particolare della delegazione di parlamentari che rappresenteranno l’Italia a Bruxelles e Strasburgo, le elezioni europee del 2019 rappresentano un passaggio molto meno rivoluzionario di quello che avevano rappresentato le elezioni del 2014. Il profilo della nostra delegazione è sensibilmente cambiato ma, rispetto al passato recente e meno recente, i cambiamenti sono stati meno radicali, e lo stesso si può dire sul fronte della rappresentanza femminile e dell’età media degli eletti. Una fase di consolidamento dunque, come spesso capita subito a valle di un momento di estrema innovazione (*).

    Innanzi tutto è importante chiarire un punto: domenica 26 maggio gli italiani hanno eletto 76 parlamentari europei, ma tre di essi entreranno in carica solo dopo la Brexit, e dunque, presumibilmente, a fine ottobre (**). La delegazione attuale è pertanto da considerarsi composta ancora da 73 eletti, così come nel 2014, e le analisi che seguiranno si riferiscono a coloro che entreranno in carica da subito.

    Di questi 73 eletti, i parlamentari uscenti che sono riusciti ad ottenere una riconferma sono 29, ovvero il 40%. Sembra una cifra ridotta, ma così non è se la si confronta con l’ultimo quarto di secolo. Dal 1994 infatti, questa è la seconda elezione meno innovatrice sotto il profilo della classe politica.

    Figura 1 – Tasso di ricambio nella delegazione italiana al Parlamento europeo (1994-2019, % nuovi eletti su eletti totali)

    Eletti UE 2019, grafico tasso di rinnovo

    Le elezioni europee costituiscono una consultazione molto particolare dal punto di vista della classe politica: quella di parlamentare europeo è una carica estremamente remunerativa dal punto di vista economico ma rimane molto meno ambita, sul fronte simbolico e di potere politico effettivo, rispetto a quelle di livello nazionale. Sotto il profilo del cursus honorum politico, la carica di parlamentare europeo è stata tradizionalmente considerata in Italia o come la tappa finale di una carriera che sul fronte nazionale si è rivelata importante ma non eccelsa, o come una tappa intermedia da utilizzare come rampa di lancio in vista di un possibile rientro entro i confini nazionali. Questo elemento agisce in modo significativo sul tasso di rinnovo della delegazione italiana, perché non è detto che un uscente si ricandidi e non è detto che chi si ricandida riesca a superare la concorrenza di chi si affaccia per la prima vota. Questo a maggior ragione in un contesto competitivo basato sulle preferenze. Vi sono molti altri fattori che contribuiscono ad un tasso di rinnovo così alto, ed in particolare contribuisce in tal senso l’estrema mutevolezza che il sistema partitico italiano ha tradizionalmente mostrato negli ultimi anni sia sul fronte dell’aspetto dell’offerta che sul fronte della volatilità elettorale. Ad esempio, è certamente quest’ultima ad aver giocato un ruolo decisivo sul fronte del rinnovo della classe politica alle europee del 2019, visto il forte ridimensionamento del PD (passato da 31 a 19 parlamentari) e la notevole crescita della Lega (passata da 6 a 28 parlamentari).

    Eppure, nonostante, l’agire combinato di tutti questi fattori, il 40% degli uscenti, stavolta, ha ottenuto la rielezione.

    Tabella 1 – Rieletti e nuovi eletti nella delegazione italiana al Parlamento UE 2019

    Eletti UE 2019, Tasso di rinnovo per partito

    Dei 44 nuovi eletti, oltre la metà sono leghisti, e la cosa non sorprende visto che l’ammontare della delegazione della Lega è più che quadruplicata. Tra gli esordienti, spiccano il sindaco di Cascina Susanna Ceccardi, l’economista euroscettico Antonio Maria Rinaldi, l’ex forzista Silvia Sardone, la senatrice liberale Cinzia Bonfrisco e Gianna Gancia, moglie d Roberto Calderoli. I quattro rieletti del Carroccio sono invece Bizzotto, Ciocca, Lancini e Zanni (ex M5S), mentre dopo 18 anni di onorato servizio a Bruxelles è stato chiesto un passo indietro a Mario Borghezio.

    Sono particolarmente interessanti le dinamiche che, su fronte del rinnovo della classe politica, hanno caratterizzato il M5S e il PD. In entrambi i casi infatti si è assistito ad un ridimensionamento delle rispettive delegazioni, ma questo non ha impedito un tasso di rinnovo piuttosto significativo. La cosa si spiega assumendo un’ottica più complessiva, che analizzi non tanto il numero di rieletti sul totale della nuova delegazione, ma piuttosto il numero effettivo di ricandidati, di rieletti e di bocciati sul totale degli uscenti, per ciascuna forza politica. Assumendo quest’ottica ci spieghiamo meglio cosa è avvenuto a questi due partiti.

    Tabella 2 – Destino dei componenti la delegazione italiana al Parlamento UE uscente alle elezioni europee del 2019
    Eletti UE 2019, destino uscenti per partitoPartiamo dal PD. Il partito di Zingaretti si presentava con 26 uscenti, ai quali vanno aggiunti i 3 di MDP, che alla fine ha accettato la proposta di dar vita ad una lista comune con i democratici. I 29 uscenti complessivi si sono divisi in modo equamente ripartito in un gruppo di 9 ritirati (tra cui Silvia Costa e Goffredo Bettini), in un gruppo di 10 ricandidati bocciati dagli elettori (tra essi l’ex Presidente del Piemonte Mercedes Bresso, il renziano Nicola Danti e l’ex Ministro Cecyle Kyenge) e in un gruppo di 10 rieletti (tra questi si segnalano la segretaria del partito toscano Simona Bonafè, il Vice Presidente del Parlamento UE uscente David Sassoli, e la capolista nelle Isole Caterina Chinnici). In sostanza, nonostante la presenza di ben 20 ricandidati, che avrebbero potuto rappresentare fino a massima parte della nuova delegazione democratica, ridottasi a 19 unità, circa la metà di coloro che hanno tentato la rielezione non sono riusciti nell’intento. Si tratta di una dinamica molto simile a quella che si era registrata nel 2014: allora la delegazione democratica era aumentata molto rispetto a quella uscente, ma nonostante l’incremento di posti disponibili, e nonostante il 70% degli uscenti si fosse ricandidato (come quest’anno), ben 7 ricandidati su 16 non erano riusciti ad ottenere la riconferma. In partiti strutturati ed in regime di preferenze, essere rieletti non è un compito facile per un parlamentare europeo. Da una parte, la concorrenza è forte perché, come si diceva, l’agone europeo è visto come tappa intermedia della carriera, ovvero come rampa di lancio, da molti esponenti politici in cerca di visibilità nazionale. Dall’altra, le armi con cui gli incumbent possono rispondere ai loro sfidanti sono piuttosto spuntate, visto quanto poco risalto ha l’attività del Parlamento europeo e dei suoi membri a livello nazionale. Questo si aggiunge alle dinamiche correntizie, che nel PD hanno visto, molto recentemente, significativi mutamenti nei rapporti di forza interni. Nel PD vi sono ben 9 nuovi eletti su 19: tra essi figurano personalità di assoluto livello nazionale come Pisapia e Calenda, che hanno registrato un successo notevole a livello di preferenze, ma non mancano anche altre personalità di rilievo come il capolista al Sud Franco Roberti, come Pietro Bartolo (medico di Lampedusa, in lista in rappresentanza del movimento cattolico Demos), come il milanese Pierfrancesco Majorino, e come il fedelissimo di Zingaretti Massimiliano Smeriglio. Personalità indipendenti fortemente simboliche o esponenti di livello medio-alto del partito, spesso già detentori di una carica amministrativa regionale o locale.

    Veniamo al M5S, che nel 2014 aveva avuto 17 eletti, e che quest’anno è riuscito a riconfermare solo 9 uscenti, nonostante abbia eletto in totale 14 eurodeputati. Qui il discorso è completamente diverso. La prima colonna della Tabella n. 2 spiega bene quanto avvenuto: i pentastellati avevano sì ottenuto 17 seggi nel 2014, ma al momento del voto gli uscenti effettivamente considerabili come appartenenti al partito di Di Maio erano solo 11, a causa delle numerose defezioni subite nell’ultimo quinquennio. Tutti e 11 gli uscenti sono stati ricandidati, e solo 2 di questi non sono riusciti ad ottenere la riconferma (Laura Agea e Dario Tamburrano, arrivati rispettivamente quarta e quinto nella lista M5S della circoscrizione Centro, in cui sono scattati solo 2 seggi). Il M5S in realtà, ha quindi un tasso di ricandidatura massimo (100%), ed un tasso di successo tra i ricandidati comunque altissimo (80%). Questi dati sono certamente favoriti dal fatto che il Movimento è il partito, tra quelli che hanno ottenuto seggi, che ha ottenuto il livello di consenso più simile a quello di cinque anni fa, ma in realtà sono la conseguenza del fatto che il M5S ha introdotto, per scelta o per necessità, un sistema di selezione dei candidati ben diverso da quello degli altri partiti in lizza. Da un lato, il Movimento è assolutamente contrario agli spostamenti dei propri eletti tra un livello di Governo e l’altro, specie in corso di mandato, perché questo tipo di comportamento viene giudicato dalla base come “carrierista”. Dall’altra, il Movimento ha fortissime difficoltà nell’attirare tra le proprie fila candidati esterni che abbiano una notorietà veramente nazionale. Questi due fattori hanno l’effetto di proteggere l’agone per cui si compete, in questo caso quello europeo, da interferenze esterne, e quindi valorizzano le risorse dei candidati uscenti, che pure non godono di alcun favoritismo formale da parte dei vertici. Agli uscenti viene consentito di provare la ricandidatura (fermo restando il limite di due mandati), ma essi devono guadagnarsela concorrendo alla pari in una selezione interna serrata, alla quale partecipano anche altri candidati, i CV dei quali sono stati prima vagliati a tappeto dai vertici del Movimento. I “candidati alla candidatura” sono poi sottoposti al voto degli iscritti, o meglio della quota di iscritti che generalmente partecipa a tale tipo di selezione (circa 30.000 persone, un quarto degli iscritti complessivi), e sono gli esiti di questa a determinare la composizione della lista. In questo tipo di meccanismo, molto “intimo” ed utilizzato per la prima volta nel 2019 (***), gli uscenti hanno tutti ottenuto la riconferma in lista, e ben 9 su 11 sono poi riusciti ad ottenere la rielezione, nella competizione aperta per le preferenze. Rispetto a questo meccanismo di selezione, vi sono state alcune eccezioni, ed esse sono costituite dalle (poche) personalità esterne che Di Maio è riuscito a cooptare: ma queste rappresentano un pericolo relativo per gli uscenti pentastellati, perché non parliamo di personalità veramente note a livello nazionale. L’unica eccezione è costituita della “Iena” Giarrusso, che infatti non ha avuto alcuna difficoltà ad entrare, prima in lista e poi in Parlamento. Delle cinque capilista donne individuate dal Capo politico poi, alle quali è stato concesso di evitare la competizione interna, ne sono state elette solo 3, e non è certo un caso che tra di esse vi sia l’unica con una qualche notorietà di livello almeno locale (la giornalista d’inchiesta Sabrina Pignedoli). Ha fallito invece il trasferimento a Bruxelles (a conferma di come la prassi del cambio di livello di Governo sia fortemente invisa anche all’elettorato pentastellato) il sindaco di Livorno uscente Nogarin, cui era stata concessa la possibilità di candidarsi, visto che il suo primo mandato locale era concluso e che si profilava una sconfitta nella città da lui amministrata. L’eterogeneità del M5S rispetto alle altre forze politiche, insomma, è consistita proprio in questa sua capacità di tenere isolata la competizione per il seggio europeo rispetto alle dinamiche della politica nazionale. A parità di altre condizioni, più l’agone è protetto da interferenze esterne, più la competizione che vi si struttura valorizza gli uscenti.

    Per quanto riguarda le altre forze, numericamente residuali, il forte ridimensionamento di Forza Italia ha portato ad una conseguente contrazione della pattuglia parlamentare berlusconiana. Sono stati riconfermati Tajani (Presidente del Parlamento UE), Comi, Patriciello e Salini. Tra i nuovi, il laziale Salvatore De Meo e nientemeno che lo stesso Silvio Berlusconi. Tra i bocciati illustri, si segnalano Alessandra Mussolini e il segretario dell’UDC Lorenzo Cesa.

    In Fratelli d’Italia, inteso come partito, gli eletti sono quasi tutti nuovi. Tra i quattro parlamentari uscenti che hanno tuttavia cercato rifugio nelle liste della Meloni negli ultimi mesi, solo Raffaele Fitto è riuscito ad ottenere la riconferma. Ha fallito in tale obiettivo, ad esempio, Elisabetta Gardini, dopo ben 15 anni di mandato.

    Volendo quindi fare un ragionamento complessivo sul fronte del rinnovo della classe politica, è interessante notare cosa è cambiato sotto questo profilo rispetto al 2014 (De Lucia, 2014). Il numero di ritirati e di ricandidati è identico rispetto a cinque anni fa: su 73 uscenti, sono solo 20 coloro che non hanno nemmeno tentato la riconferma, e 53 coloro che l’hanno tentata. Ciò che è cambiato quest’anno è il numero di coloro che sono effettivamente riusciti in questo tentativo: tale numero è salito da 19 a 29 (dal 35% al 55% dei ricandidati). Questo dato dipende essenzialmente dal M5S, che in occasione del suo primo rinnovo di classe politica UE ha assunto un comportamento molto diverso da quello degli altri partiti, ricandidando e confermando la quasi totalità degli uscenti. Stante il limite di due mandati, sarà ben difficile rivedere questo dato tra cinque anni, ma ciò non toglie, anzi arricchisce, la peculiarità costituita dal Movimento in questo ambito.

    Venendo al profilo di genere, le elezioni europee del 2019 si configurano come la conferma del nuovo stato dei fatti introdotto dal 2014. Sui 73 componenti la delegazione italiana, le donne passano da 28 a 31, ovvero il 42,5% del totale. Un dato che migliora leggermente, ma che in sostanza conferma, quello che si era registrato nel 2014, che al contrario era stato assolutamente rivoluzionario rispetto al passato, come mostra la Figura 2.

    Figura 2 – Rappresentanza femminile nelle delegazione italiana al Parlamento europeo (1979-2019, % su eletti)

    Eletti UE 2019, grafico rappresentanza di genereLa preferenza di genere introdotta a queste elezioni ha sicuramente svolto un ruolo nel mantenere la quota di donne già raggiunta, ma il fatto che il vero balzo sia stato registrato la volta scorsa, quando la preferenza di genere non c’era, non può che far riflettere su quanto il vero mutamento, sotto il profilo della rappresentanza di genere, sia in realtà di livello culturale e, come tale, svincolato da norme formali. Peraltro, il cambiamento del 2014 era stato, davvero, totalmente spontaneo, perché prodotto dalla libera competizione per le preferenze e non derivante, come invece quello registrato alle politiche dell’anno prima, dalle scelte più o meno verticistiche sulla composizione delle liste bloccate.

    Disaggregando per partito, ciò che colpisce è senza dubbio il dato leghista. Su 28 eletti del partito di Salvini, 15 sono donne. Oltre il 50%, come il M5S (in questo caso, è una conferma rispetto al 2014). Da questo punto di vista, le “forze del cambiamento” si configurano come in effetti nettamente diverse da quelle tradizionali, PD compreso.

    Tabella 3 – Rappresentanza femminile nella delegazione italiana al Parlamento UE: uomini e donne per gruppo, confronto tra uscenti ed eletti nel 2019
    Eletti UE 2019, rappresentanza di genere per partitoPer finire, l’età. I 73 parlamentari europei eletti in Italia nel 2019 hanno mediamente 49,3 anni, un anno e mezzo in più di quanti ne avessero nel 2014 gli eletti in quell’anno, ma ancora quattro anni in meno di quanti ne avessero gli eletti nel 2009. Il ringiovanimento avvenuto cinque anni fa viene dunque confermato, a maggior ragione se si pensa che il lieve incremento registrato in questa occasione è in buona parte determinato dall’incremento del numero dei rieletti, in generale ma soprattutto nel M5S, che cinque anni fa rappresentava la delegazione di gran lunga più giovane delle altre. 29 eurodeputati su 73 (e tra essi, 9 pentastellati) sono gli stessi eletti cinque anni fa e, come del resto tutti noi, non possono che avere cinque anni in più di allora.

    Tabella 4 – Età media della delegazione italiana al Parlamento UE: eletti del 2009, del 2014 e del 2019 a confronto

    Eletti UE 2019, età media per partitoIn conclusione, la delegazione italiana a Bruxelles, come da tradizione, è cambiata molto, ma lo ha fatto meno che in passato, confermando le innovazioni del 2014 sia sul fronte della rappresentanza di genere che sul fronte del ringiovanimento complessivo della classe politica. Essa continua ad essere caratterizzata dal consueto, alto, tasso di rinnovo, determinato da fattori intrinseci al tipo di competizione, e soprattutto dal modo in cui i partiti e i politici italiani l’hanno tradizionalmente interpretata. Da questo punto di vista, però, merita attenzione una prassi del tutto innovativa, quella del Movimento 5 Stelle, che si staglia in netta controtendenza rispetto agli altri soggetti in campo. Un meccanismo di selezione protetto, che isolando la competizione per i seggi europei, per scelta o per necessità, da possibili interferenze nazionali, ha premiato i parlamentari uscenti in modo rilevante, superiore rispetto agli altri partiti.

    Note

    [*] Per l’elaborazione dei dati esposti in questo articolo, in assenza delle decisioni formali sulle opzioni dei plurieletti, si è ipotizzato che Matteo Salvini e Giorgia Meloni rinuncino al seggio ottenuto al Parlamento europeo, e che i due plurieletti, Silvio Berlusconi (FI) e Pietro Bartolo (PD), optino per la circoscrizione insulare (ipotesi che pare la più probabile, anche se ancora del tutto ipotetica, tra quelle possibili).

    [**] I tre eletti in questione saranno Sergio Berlato (FDI, circoscrizione Nord Est), Matteo Adinolfi (Lega, circoscrizione Centro) e Fulvio Martuscello (FI, circoscrizione Sud).

    [***] Il Movimento 5 Stelle ne ha sperimento uno del tutto analogo in occasione delle elezioni politiche del 2018, in particolare per la selezione dei candidati nei listini bloccati per la parte proporzionale.

    Riferimenti bibliografici

    De Lucia, F. (2014), Eletti 2014: anche in Europa cambia tutto.
    Giovani, donne ed esordienti, in L. De Sio, V. Emanuele, e N. Maggini (a cura di), Le elezioni europee 2014, Dossier Cise n. 6, pp. 165-170, reperibile qui: https://cise.luiss.it/cise/2014/06/06/eletti-2014-anche-in-europa-cambia-tutto-giovani-donne-e-nuovi-eletti/

    Tronconi F. e Verzichelli, L. (2007), Il ceto parlamentare alla prova della nuova riforma elettorale, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di), Proporzionale ma non solo. Le elezione politiche del 2006, Bologna, Il Mulino, pp. 335-368.

    Tronconi F. e Verzichelli, L. (2010), Verso il ceto politico della «terza repubblica»? la rappresentanza parlamentare nella XVI legislatura, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di), Proporzionale se vi pare. Le elezioni politiche del 2008, Bologna, Il Mulino, pp. 173-202.

    Tronconi F. e Verzichelli, L. (2014), La nuova rivoluzione nel ceto parlamentare. Effetti congiunturali ed interpretazioni diacroniche, in A. Chiaramonte e L. De Sio (a cura di), Terremoto elettorale. Le elezioni politiche del 2013, Bologna, Il Mulino, pp. 203-231.

  • Elezioni in Finlandia, la sinistra cresce ma non vince

    Elezioni in Finlandia, la sinistra cresce ma non vince

    Domenica scorsa, la Finlandia è tornata al voto per rinnovare il proprio Parlamento nazionale. La “eduskunta” finlandese è un parlamento monocamerale composto da 200 membri, eletto ogni quattro anni con un sistema proporzionale (D’Hondt). Non esiste una soglia di sbarramento, ma tutti i seggi vengono distribuiti direttamente all’interno di 13 circoscrizioni di dimensione variabile (dai 7 seggi della Lapponia ai 36 seggi della regione di Helsinki, esclusa la città), con il conseguente innalzamento della soglia implicita. (klonopin) Un seggio, eletto con sistema uninominale, spetta all’arcipelago delle Åland, provincia autonoma totalmente di lingua svedese.

    Il sistema politico di questo paese nordico è caratterizzato, come del resto quello di tutti i suoi vicini, dall’alto tasso di frammentazione e dalla costante riproposizione di Governi di coalizione. Tuttavia, la tenuta degli esecutivi è tradizionalmente abbastanza solida (vi sono stati solo dieci governi negli ultimi 28 anni), e la composizione delle maggioranze alquanto variabile e talora eterodossa. Questo non deve stupire perché gli accordi coalizionali, negoziati prima dell’entrata in carica dell’esecutivo sino nel dettaglio dei singoli punti programmatici, sono generalmente chiari e soprattutto dibattuti pubblicamente.

    Negli ultimi quattro anni, il paese è stato guidato da una coalizione di centrodestra, guidata dal Primo Ministro Juha Sipilä e composta dal partito di questi, il Partito di Centro (aderente a livello europeo all’ALDE, la formazione liberaldemocratica), dalla Coalizione Nazionale (aderente al Partito Popolare Europeo) e dal Partito dei Finlandesi (che fino ad oggi, a livello europeo, ha aderito al gruppo dei Conservatori e Riformisti, il gruppo dei Tories britannici e del partito al potere in Polonia). Questi ultimi rappresentano l’elemento di principale novità della politica finlandese degli ultimi anni.

    Formazione nata negli anni ’90 come evoluzione del disciolto partito agrario, il Partito dei (“Veri”) Finlandesi si è inizialmente mosso come piccolo partito di centro. Nel 2011 è assurto alle cronache continentali per le proprie posizioni euroscettiche e per il proprio successo elettorale, che lo ha portato al terzo posto, con il 19% dei voti. La scelta di rifiutarsi di entrare in maggioranza nella legislatura 2011-2015, per non compromettere la propria visione euroscettica, non ha poi pagato molto in termini di consenso, dato che alle elezioni del 2015 il partito non ha capitalizzato il proprio quadriennio di opposizione, restando fermo al 17%.

    Di fronte a questo risultato, lo storico leader del partito Timo Soini ha scelto di cambiare linea politica e ha accettato di entrare a far parte della coalizione di Governo che ha retto il paese per i successivi quattro anni, assumendo le cariche di Vice Primo Ministro e di Ministro degli Affari Esteri. La scelta si è rivelata ancora più infelice. I sondaggi hanno registrato da subito un rapido dimezzamento del consenso al partito, che ha visto conseguentemente sorgere al proprio interno un fervido dibattito su quale dovesse essere la linea da tenere. Soini ha accettato di dimettersi, dopo venti anni, dalla guida del partito, e nel Congresso del giugno 2017 ha prevalso la linea di destra, personificata da Jussi Halla-aho. Il partito è stato da subito estromesso dalla coalizione di governo, e l’ala moderata di Soini e del suo successore designato Sampo Terho si è scissa, mantenendo 5 ministri e una ventina di parlamentari, consentendo così al Governo di andare avanti fino alla fine della Legislatura.

    Non è stato un quadriennio facile: l’austerità si sente anche a queste latitudini ed il Governo Sipilä è stato costretto dalle regole europee a tagli dolorosi per un paese come questo, affezionato al proprio welfare, esteso e costoso come quello di tutti i paesi nordici. Hanno fatto molto discutere la riduzione della spesa per l’istruzione e la riforma del mercato del lavoro, concordata con i sindacati dopo una lunga negoziazione. Le riforme hanno avuto un qualche risultato, visto che negli ultimi anni il PIL è tornato a crescere a buoni ritmi, così come il commercio con l’estero, ed il tasso di disoccupazione è sceso di quasi tre punti percentuali, ma il dissenso diffuso per le misure restrittive ha messo in seria difficoltà il Governo, proiettando l’opposizione di sinistra, legata ai sindacati, in ascesa nei sondaggi. Di fronte all’impossibilità di trovare un accordo su una riforma condivisa del sistema sanitario, ovvero su una delle principali voci di spesa pubblica, il Governo Sipilä si è dimesso con un mese di anticipo, ed è rimasto in carica per gli affari correnti fino alle elezioni, già fissate per il 14 aprile.

    Tab. 1 – Risultati delle elezioni parlamentari della Finlandia, 2015 e 2019 (clicca per ingrandire)Finlandia 2019, risultati

    Nella tabella possono essere consultati i risultati elettorali, mesi a confronto con quelli di quattro anni fa. Come previsto dai sondaggi nei mesi precedenti alle elezioni, la sinistra ha ottenuto un certo avanzamento. I socialdemocratici sono tornati primo partito dopo 20 anni, salendo di 1,2 punti percentuali rispetto al 2015. I verdi son saliti di tre punti, mentre la sinistra radicale di uno. Nel complesso, le forze di sinistra hanno ottenuto il 37,4% dei voti, salendo di oltre 5 punti percentuali e guadagnando nel complesso 15 seggi.

    Tuttavia, non si tratta certamente di una vittoria. Il blocco delle sinistre è cresciuto molto meno di quanto si pensasse, ed in particolare i socialdemocratici si sono fermati davvero poco sopra il loro risultato di quattro anni fa, che rappresentava il loro minimo storico. Se si pensa a quanto il clima di opposizione ai tagli sociali del Governo liberista uscente poteva favorire la sinistra moderata, peraltro guidata da un ex sindacalista come Antti Rinne, il fatto di fermarsi al 17,7% può essere considerata piuttosto come una sconfitta.

    Per quanto riguarda gli altri partiti, a fare le spese dell’ultimo delicato quadriennio è il Partito di Centro, il partito del Primo Ministro uscente, che perde oltre 7 punti percentuali, scendendo al 13,8%, il risultato peggiore da oltre un secolo. Si confermano terza forza parlamentare, tenendo i livelli del 2015 nonostante quattro anni di governo, i popolari della Coalizione nazionale. Infine, ha ottenuto un seggio anche il Movimento “Ora”, fondato circa un anno fa da uno scissionista dei popolari e alleato, a livello europeo, con il Movimento 5 Stelle.

    Ma la vera sorpresa, quantomeno rispetto agli scenari che si delineavano fino a qualche settimana prima del voto, è costituita dal Partito dei Finlandesi che, dopo essere galleggiato attorno al 10% nei sondaggi fino alla fine dell’anno scorso, è riuscito ad incrementare il proprio consenso nelle ultime settimane, tornando a replicare la performance elettorale del 2015. Il risultato ottenuto è tanto più rimarchevole se si pensa a quello che è avvenuto negli ultimi anni all’interno di questo partito, e che si è richiamato poco sopra. La corrente più moderata, quella che faceva riferimento ai Conservatori europei, scissasi dopo aver perso il congresso del 2017 ma forte del sostegno del vecchio leader ventennale e di 5 Ministri uscenti, è sprofondata all’1%, restando fuori dal Parlamento. La nuova leadership invece, che dopo il congresso ha spostato il partito da un generico euroscetticismo (specie su temi economici) a posizioni più nettamente di destra, su temi quali l’immigrazione e la lotta al cambiamento climatico, e che ora, non a caso, sta varando un accordo di adesione ad ENF, il gruppo dei sovranisti guidato da Salvini e dalla Le Pen, è riuscito a tornare al 17%, rendendo così ben più complicata la risoluzione del rebus maggioranza.

    Fig. 1 – Il nuovo Parlamento finlandese, dopo le elezioni del 2019 (clicca per ingrandire)Finlandia 2019, nuovo parlamento

    Si aprono ora le trattative tra i partiti per la formazione della maggioranza, e si annunciano tutt’altro che semplici. La prima parola spetta ai socialdemocratici, che sono riusciti a restare di poco sopra ai Finlandesi. Ferma la generale indisponibilità di tutto lo spettro politico di collaborare con questi ultimi, e fermo il fatto che le sinistre sono a 25 seggi dalla maggioranza assoluta, le soluzioni non sembrano poi molte. Rinne, probabilmente affiancato dai verdi (più difficilmente anche dalla sinistra radicale), dovrà cercare consensi a destra e al centro. Probabile il coinvolgimento dei rappresentanti della minoranza linguistica svedese, ma soprattutto molto verosimile una interlocuzione con i popolari della Coalizione nazionale, visto che i liberali centristi, dopo la sconfitta subita, sembrano indirizzati a prendersi una pausa di riflessione tra i banchi dell’opposizione. Si dovrebbe tornare dunque ad un assetto simile a quello che ha governato il paese nel periodo 2011-2015, ma con alla guida un socialdemocratico (allora il Primo Ministro era invece il popolare Jyrki Katainen, poi divenuto Commissario europeo). Vedremo se la negoziazione andrà in porto, e soprattutto quali risposte saprà trovare al problema della sostenibilità del welfare state, che è un problema che esiste e che va affrontato con decisione. La risposta che la sinistra tradizionale ha provato a dare in questa campagna elettorale non si è rivelata sufficientemente forte nelle urne, e trattare con i popolari su questo punto non sarà affatto facile.

    In conclusione, il vento di sinistra che doveva giungere a rinfrescare Bruxelles dalla taiga finlandese deve essersi perso tra le correnti baltiche. La reazione progressista all’austerità degli ultimi anni, anche nel Nord Europa (si confrontino questi risultati con quelli delle elezioni svedesi del settembre scorso (Eriksson 2019)), non pare sufficiente a cambiare i rapporti di forza in campo, e soprattutto continua a dover fare i conti con il versante opposto della protesta, quello nazionalista e identitario, che dal canto suo non sfonda, ma persiste.

    L’incapacità di reazione della sinistra e la tenuta ed il consolidamento della destra estrema sembrano fare, del caso finlandese, un interessante antipasto di quello che ci aspetta alle elezioni europee di fine maggio. E le vicende politiche del Partito dei Finlandesi, riuscito a mantenersi su livelli costanti nonostante il proprio riposizionamento a destra, sembra un interessante pronostico di quello che potrebbe avvenire nel prossimo Parlamento Europeo. Lì, una destra in fase di riorganizzazione, proprio quella di Salvini e di Le Pen, a cui i Finlandesi sembrano intenzionati ad aderire, tenta l’assalto alle istituzioni europee. Un assalto che, come del resto quello dei Finlandesi al Governo nazionale, sembra destinato a fallire, quantomeno dal punto di vista numerico (D’Alimonte 2018), ma che è destinato comunque ad avere un impatto politico rilevante sul comportamento degli altri attori in gioco.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. (2018) “Verso le Europee, il peso del modello tedesco”, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2018/12/16/verso-le-europee-il-peso-del-modello-tedesco/

    Eriksson, L. M. (2019) “Election Report: Sweden”, Scandinavian Political Studies, 42(19), pp. 84-88.

  • Israele: la corsa verso destra premia ancora Netanyahu

    Israele: la corsa verso destra premia ancora Netanyahu

    I risultati delle elezioni israeliane, pubblicati con qualche ritardo, tra problemi tecnici e non senza polemiche, hanno rispettato le previsioni (De Lucia 2019): nonostante una certa polarizzazione del voto sulle due principali opzioni, il Likud di Netenyahu e Blu e Bianco di Gantz e Lapid, l’elemento decisivo per la vittoria finale si è rivelata, in un sistema frammentato come quello israeliano, l’ampiezza della coalizione di centrodestra. Netanyahu ha i numeri per ottenere il proprio quinto mandato (il quarto consecutivo), e nei prossimi giorni saranno avviate le trattative con i suoi partners minori.

    Testa a testa tra i primi due partiti

    In un paese in forte e costante crescita economica, che sperimenta per la prima volta nella propria storia una situazione di relativa tranquillità dal punto di vista della sicurezza pubblica, il tema del contendere in questa campagna elettorale non era costituito tanto dalle politiche pubbliche del Governo uscente, che godono di un sostegno generale e diffuso. La campagna elettorale si è concentrata invece, oltreché (come inevitabile) sulla politica estera, quasi del tutto sulla figura di Netanyahu che, dopo dieci anni consecutivi di leadership nazionale, suscita nell’elettorato sentimenti inevitabilmente contrapposti. Da una parte coloro che lo osannano, dall’altra coloro che non ne vogliono più sentir parlare. Lo stesso principale oppositore di Netanyahu, il partito Blu e Bianco, è un partito sostanzialmente di centro, non molto distante dal Likud su molte questioni concrete. L’obiettivo realistico di Benny Gantz non era tanto ribaltare lo schieramento politico al potere, quanto sostituire la persona di Netanyahu come perno di una coalizione larga, magari leggermente meno orientata a destra rispetto a quella uscente. Questa preponderanza dell’elemento personale nella campagna elettorale, che ha sempre caratterizzato la storia politica di Netanyahu, è stato fortemente accentuato dalle recenti difficoltà giudiziarie del Primo ministro uscente, che rischia di dover andare a processo nei prossimi mesi.

    In questa situazione i fanatici delle due fazioni, pro e anti Netanyahu, anche alla luce del testa a testa raccontato dai sondaggi, si sono polarizzati, concentrando il proprio consenso sui due principali partiti in lotta. Così facendo, hanno inverato la profezia del testa a testa, ma spostandola ad un livello di consenso maggiore rispetto a quello previsto dai sondaggi. I due partiti hanno ottenuto alla fine attorno al 26% dei voti ciascuno. Per il Likud si tratta di un incremento di tre punti rispetto il 2015, mentre Gantz è riuscito con successo ad occupare il centro e, probabilmente, a sottrarre voti alla sinistra moderata, che infatti è scesa ai propri record negativi. (mombrite.com) Alla fine, il Likud è riuscito ad ottenere 15.000 voti in più di Blu e Bianco, pur ottenendo lo stesso numero di seggi. La percentuale di consenso ottenuta dalle due maggiori forze politiche ha finito con il superare il 52% dei consensi, dieci punti percentuali in più rispetto ai voti ottenuti da Likud e Unione sionista nel 2015.

    La frammentazione

    Nonostante questa indubbia concentrazione del voto sui due principali partiti, che ha fatto calare il numero effettivo di partiti parlamentari (indice di frammentazione parlamentare di Laasko e Taagepera) del sistema israeliano da 6,93 a 5,19, l’elemento politico cruciale che caratterizza il risultato elettorale e prefigura i prossimi scenari resta la frammentazione. I partiti che sono riusciti ad entrare in Parlamento sono 11, uno in più rispetto alla Knesset uscente. Delle tre scissioni che ci sono state nella scorsa legislatura, solo quella tra i partiti arabi vede riconfermati in Parlamento entrambi i soggetti risultanti dalla divisione. Restano fuori Gesher, il partito formato da una parlamentare uscente di Yisrael Beiteinu, e soprattutto la Nuova Destra, l’ala della destra religiosa che fa riferimento ai Ministri uscenti Bennett e Shaked, che è rimasto sotto la soglia di poco più di 1.000 voti. Non è riuscito ad ottenere rappresentanza nemmeno Zehut, partito esordiente della destra libertaria.

    Tab. 1 – Risultati elettorali delle elezioni legislative israeliane, 2015 e 2019 (clicca per ingrandire)Israele 2019 risultati

    Fatti salvi i due partiti maggiori, i soggetti che avranno accesso alla prossima Knesset sono quindi i seguenti:

    – le due liste arabe di Hadash-Ta’al (più laica e tendenzialmente di sinistra) e UAL-Balad (più religiosa e nazionalista) che, presentatesi separatamente rispetto al 2015, perdono nel complesso 3 seggi, alla luce di un netto calo della partecipazione al voto della componente araba della popolazione israeliana (meno del 50% si è recato alle urne);

    – sulla sinistra, il Labour e Meretz, le due forze tradizionali, più moderata e più radicale, del socialismo democratico israeliano, che però confermano la propria crisi; il Labour in particolare, ha vissuto un tracollo epocale, che lo vede addirittura sotto il 5%, la metà del proprio precedente minimo storico (risalente al 2009);

    – i due partiti rappresentativi del mondo ultra-ortodosso, Shas (che rappresenta i sefarditi) e Giudaismo unito nella Torah (che rappresenta gli ashkenaziti), in crescita di qualche decimo di punto rispetto al 2015, in coerenza con l’incremento della componente ultra-ortodossa nel mosaico demografico israeliano;

    – altri due partiti di destra, ed in particolare Yisrael Beiteinu, il partito laico che rappresenta la comunità russofona, in calo di un punto rispetto al 2015, e la Destra unita, l’altra delle due liste rappresentative della destra religiosa israeliana, rimasta per poco sopra la soglia dopo la scissione di Bennett e Shaked, che al contrario si è rivelata esiziale per questi ultimi;

    – il partito centrista Kulanu che, schiacciato tra Gantz e Netanyahu, ha perso più della metà del proprio consenso ma è rimasto di poco sopra la soglia.

    Come si vede, è la destra l’area politica più rappresentata in questo articolato affresco, ed è esattamente questo l’elemento cruciale nel determinare il risultato finale.

    “Bibi” e il quinto mandato: continua la corsa verso destra

    L’area di destra, considerandovi ricompreso anche il partito di Bennett e Shaked, ha ottenuto nel complesso circa il 53% dei voti, circa 3 punti in meno rispetto al 2015 (ma se vi consideriamo anche la destra libertaria di Zehut in sostanza non è cambiato nulla rispetto alle scorse elezioni). Ai 35 seggi ottenuti dal Likud si sommano i 16 ottenuti dai due partiti ultraortodossi, i 5 seggi ottenuti rispettivamente da Yisrael Beiteinu e dalla Destra unita, e i 4 seggi ottenuti dai centristi di Kulanu. Nel complesso, 65 seggi, uno in meno dei 66 detenuti dai medesimi partiti prima del voto, ma comunque quattro in più della maggioranza assoluta della Knesset.

    Cambiano invece i rapporti di forza interni alla coalizione. Il Likud si è rafforzato sensibilmente, crescendo di 5 seggi, mentre si è parallelamente svuotata (di 6 seggi) la componente centrista di Kulanu. I nazionalisti religiosi, penalizzati dal mancato superamento della soglia di una delle due liste in cui si dividevano, hanno perso 3 seggi rispetto alla Knesset uscente, ma queste perdite sono state del tutto compensate dalle componenti ultraortodosse, che si sono rafforzate, salendo nel complesso anch’esse di 3 seggi.

    Fig. 1 – Distribuzione dei seggi fra le diverse forze politiche nella nuova Knesset (clicca per ingrandire)

    Israele 2019 nuova Knesset

    Tuttavia, dal punto di vista della maggioranza, cambia poco o nulla rispetto al quadro uscente. Il leader del Likud ha i numeri per riproporre lo stesso schema con cui ha governato negli ultimi anni e si candida formalmente a diventare il Primo Ministro più longevo della storia nazionale (supererà a breve David Ben Gurion). Certo, dovrà coinvolgere tutti e cinque i suoi alleati per avere un margine minimo di tranquillità in Parlamento, e concedere a ciascuno di loro qualcosa, sul fronte programmatico e dei posti di Governo. Le negoziazioni non saranno certo facili, ma non pare che ci siano dubbi sulla loro riuscita finale. La gran parte dei partiti in questione ha già dato il proprio assenso di fondo alla riconferma di Netanyahu, ancor prima dell’avvio delle consultazioni del Presidente della Repubblica Rivlin, che inizieranno la prossima settimana. L’unità coalizionale è altresì rafforzata dal fatto che ad essere rimasto sotto la soglia è proprio Naftali Bennett, ovvero colui che aveva più di tutti rivaleggiato con il Primo Ministro negli ultimi anni, e l’unico ad essersi dichiarato apertamente indisponibile a sostenere Netanyahu nel caso in cui questi dovesse presentare un provvedimento volto a proteggersi dai problemi giudiziari. L’uscita dal Parlamento di Bennett è un’altra vittoria del Primo Ministro uscente, non priva di conseguenze politiche rilevanti sulla agenda di Governo. Netanyahu ha prima incentivato la nascita dell’alleanza elettorale Destra unita, il cui obiettivo (riuscito) era sottrarre a Bennett il suo spazio politico, e poi gli ha sottratto una porzione decisiva del proprio elettorato di riferimento, quello dei coloni. Quest’ultimo risultato è stato ottenuto proprio nelle ultime ore della campagna elettorale, nelle quali Netanyahu ha fatto espliciti riferimenti al proprio proposito di annettere anche formalmente al territorio israeliano gli insediamenti attualmente presenti in Cisgiordania.

    Da quanto appena detto, già si prefigurano le due principali linee di sviluppo che vedremo nei prossimi anni: da una parte l’evoluzione della questione giudiziaria che coinvolge il Primo Ministro e la storia parlamentare dei suoi prevedibili tentativi di porvi rimedio per via legislativa; dall’altra, l’incedere della progressione nazionalista della politica estera israeliana che, con il sostegno di Trump, potrebbe aggiungere nuovi successi, tanto rilevanti da non essere sinora mai stati nemmeno ipotizzati, a quelli, pur notevoli, dell’ultimo triennio.

    Un patto politico, quello tra Netanyahu e le destre, che, cementato dalla reciproca interdipendenza (persino personale) dei soggetti coinvolti, spinge il Likud, che pure si è rafforzato in questa tornata rispetto ai suoi alleati, a procedere nella propria inesorabile marcia verso destra, sia sui temi religiosi che su quelli nazionalisti. Uno scenario che lascia già intravedere un notevole strascico di polemiche e tensioni, interne ed internazionali, che innerveranno il dibattito pubblico dei prossimi mesi, ma che Netanyahu pare avere la forza di affrontare con speranze di successo. Di fronte a sé infatti, trova solo la crescente, e preoccupante, apatia della componente arabo-israeliana, ed una opposizione che, per quanto inorgoglita dal voto ed intenzionata ad opporgli una vera e propria guerriglia parlamentare su tali questioni, nel medio periodo non ha sbocchi politici alternativi a quello di seguire, anch’essa, il reflusso conservatore in corso.

    Riferimenti bibliografici

    De Lucia, F. (2019) ‘Israele al voto: Netanyahu a caccia del quarto mandato consecutivo’, Centro Italiano Studi Elettorali, disponibile a: https://cise.luiss.it/cise/2019/04/02/israele-al-voto-netanyahu-a-caccia-del-quarto-mandato-consecutivo/

  • Israele al voto: Netanyahu a caccia del quarto mandato consecutivo

    Israele al voto: Netanyahu a caccia del quarto mandato consecutivo

    Il prossimo 9 aprile Israele tornerà al voto dopo quattro anni per eleggere il proprio Parlamento nazionale, la Knesset. Si tratta di un parlamento monocamerale composto da 120 membri eletti, in una circoscrizione unica nazionale, con un sistema proporzionale leggermente corretto da una soglia di sbarramento del 3,25%.

    Va quindi concludendosi la terza legislatura consecutiva caratterizzata dal susseguirsi di Governi di centrodestra, sostenuti da una maggioranza costruita attorno al Likud, il principale partito conservatore, e dal suo leader, Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, ormai ininterrottamente al potere dal 2009 (ma anche, si ricorda, dal 1996-1999), si staglia come la figura forte del sistema politico israeliano, quella attorno alle cui vicende vanno costruiti gli scenari.

    Nonostante una serie di problemi giudiziari che lo hanno coinvolto e che rischiano di portarlo a processo proprio nei prossimi mesi, la figura del Primo ministro è ancora fortissima nel paese, alla luce dei propri indubbi successi. Sul fronte economico, il Paese vive uno slancio ben diverso dalla stagnazione cui siamo abituati in Europa: il PIL cresce del 4% l’anno, è trainato da un settore high-tech davvero rampante (Israele è il paese con il maggior numero di start-up per abitante), ed il tasso di disoccupazione complessivo giunge a malapena al 4%. Sul fronte della sicurezza e della politica estera poi, temi che in questo piccolo paese mediorientale rappresentano sempre il primo punto dell’agenda politica, il Governo è riuscito a garantire ai propri cittadini un quinquennio di relativa calma, dopo il conflitto del 2014 a Gaza, dando l’impressione di riuscire a tenere sotto controllo Hamas, anche grazie alla preziosa mediazione operata dal nuovo regime egiziano. Il cambio alla guida dell’amministrazione USA ha poi ridato slancio alle velleità esterne di Netanyahu, che dopo gli otto anni di freddezza (quando non di aperto scontro) registrati con Obama, è riuscito ad ottenere dall’amministrazione Trump due grandi risultati: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme (riconosciuta dagli USA come capitale dello Stato ebraico, diversamente dalla maggioranza della comunità internazionale) e il recentissimo riconoscimento da parte americana della sovranità israeliana sulle alture del Golan, territorio formalmente siriano ma occupato da Israele sin dal 1967.

    Sul fronte interno, è evidente come negli ultimi anni il baricentro politico del paese si sia progressivamente spostato verso destra. Molto scalpore ha destato, ad esempio, la legge sulla nazionalità, approvata dalla maggioranza uscente in via definitiva nel luglio del 2018, e considerata dalla minoranza araba come una legge apertamente razzista. Tuttavia, la destra israeliana è e rimane un fronte altamente variegato e composito: il Governo di Netanyahu è sostenuto in primo luogo dal suo partito, il Likud, il partito conservatore, nato nel 1973 come fusione delle destre moderate pre-esistenti, e poi varie volte al governo del paese nei decenni successivi. Il partito è stato letteralmente resuscitato da Netanyahu nel 2009 dopo il tracollo di tre anni prima dovuto alla scissione della fazione moderata ideata dall’allora premier Sharon. Ma nonostante la propria rinnovata centralità, il Likud resta un partito che orbita attorno al 25% dei voti, ed in un sistema proporzionale ha bisogno di allearsi. Negli ultimi anni, Netanyahu ha contato sull’appoggio del partito centrista Kulanu, dei due partiti rappresentativi della popolazione ultra-ortodossa Giudaismo Unito nella Torah (che esprime la voce delle comunità ashkenazite) e Shas (che esprime la voce di quelle sefardite), della destra di ispirazione religiosa de La Casa Ebraica (guidata da Naftali Bennett), e della destra laica di Yisrael Beiteinu (di Avigdor Lieberman), essenzialmente portavoce della popolazione russofona. Questa frammentazione costituisce assieme la debolezza e la forza di Netanyahu che, da una parte, è costretto da numeri spesso risicati a mediare tra tutti questi soggetti, dall’altra è l’unico leader possibile, l’unico collante di questo variegato fronte e rappresenta, per ciascuno dei suoi alleati, l’unica possibile alleanza, l’unica via di accesso al Governo del paese.

    Fig. 1 – Le forze politiche rappresentate nella Knesset uscente (clicca per ingrandire)knesset pre elezioni

    Anche questa volta, nonostante le difficoltà giudiziarie e la riottosità di taluni alleati (Yisrael Beiteinu ha lasciato la maggioranza pochi mesi prima del voto), Netanyahu e lo schieramento che lo sostiene sembrano in grado di replicare i successi degli scorsi anni. L’unico rischio è che la frammentazione crescente (La Casa ebraica si è recentemente scissa in due partiti distinti e sembra farsi largo nei sondaggi anche un partito di destra libertario, Zehut) porti qualcuno degli alleati del Likud a scendere sotto la soglia di sbarramento del 3,25%, rendendo così più difficile il raggiungimento della maggioranza assoluta della Knesset, 61 seggi.

    A Netanyahu si oppone il fronte delle sinistre, che però ha completamente cambiato faccia rispetto al passato. A conferma di quanto lo spettro politico israeliano si stia spostando verso destra, la formazione che rappresenta il centrosinistra storico israeliano (l’erede del sionismo delle origini, che ha governato il paese per un trentennio, dal 1948 al 1977), il partito Laburista, dopo la fine dell’esperienza della lista unita con i centristi eredi di Kadima, è ridotto oggi sotto il 10% dei voti, e si configura ormai come partner secondario del vero oppositore del Primo Ministro uscente, la lista Blu e Bianco, una formazione dal posizionamento centrista, il cui disegno politico è essenzialmente quello di contendere a Netanyahu lo spazio moderato. Tale lista è formata dall’unione di Yesh Atid, partito liberale che aveva ottenuto 11 seggi nel 2015 e Vigore di Israele, un partito recentemente formato dall’ex capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, Benny Gantz.

    Blu e Bianco, presentatosi come lista unica proprio allo scadere dei termini, ha riscosso un certo successo nei sondaggi e potrebbe ritrovarsi primo partito, ma non sembra avere i numeri per contendere a Netanyahu la formazione del Governo, essendo sostenuto solo dai laburisti e dalla sinistra socialista di Meretz. Non possono considerarsi come parte del suo schieramento i partiti arabi (stavolta si divideranno in due liste), che da tempo ormai immemore restano fuori dai perimetri delle possibili maggioranze. L’unica speranza, per Blu e Bianco, è che un possibile fallimento della coalizione di destra nell’intento di ottenere 61 seggi porti alla scomposizione delle alleanze pre-elettorali e allo spostamento verso sinistra di una parte dei partiti che attualmente sostengono Netanyahu. Ma si tratterebbe, comunque, di uno scenario tutto da costruire.

    Vedremo come andrà. Quel che è certo è che la prossima Knesset sarà incredibilmente frammentata: le liste che potrebbero superare la soglia sono addirittura 14 (nel 2015 furono 10).

  • Comunali a Bolzano, vince Caramaschi (Pd) ma non ha la maggioranza

    Comunali a Bolzano, vince Caramaschi (Pd) ma non ha la maggioranza

    di Federico De Lucia

    Come prevedibile, ed effettivamente previsto nel pezzo di due settimane fa, le elezioni comunali di Bolzano non hanno dato un esito chiaro. Per la precisione, hanno dato lo stesso esito politico finale di quelle del 2015[1], ed hanno generato lo stesso esatto quadro di difficile formazione di una maggioranza in Consiglio comunale che si era generato un anno fa e che aveva poi portato prima alla paralisi politica e poi alle dimissioni del Sindaco Spagnolli. Il nuovo Sindaco è Renzo Caramaschi, vincitore al ballottaggio contro il candidato del centrodestra Mario Tagnin, con il 55% dei voti.
    Gli schieramenti si erano presentati molto frammentati, come naturale visto l’andamento turbolento dell’ultima brevissima consiliatura. Non stupisce quindi che il candidato arrivato primo al ballottaggio, Caramaschi, si sia fermato solo al 22%; il secondo è stato Mario Tagnin, sostenuto da Lega Nord e Uniti per Bolzano (FI ed altre liste di destra locali), con il 18%; terzo è arrivato il candidato della SVP, con il 16%, ad un passo da uno storico ballottaggio, mentre il M5S e la sinistra radicale (di cui magna pare è costituita a Bolzano dai Verdi) si sono fermati rispettivamente poco sopra e poco sotto il 10%. Altre liste che sono riuscite ad accedere al Consiglio sono due liste di destra radicale, quella di Fratelli d’Italia e quella di Casapound, e la lista civica di centro Io sto con Bolzano, che già era presente nel Consiglio uscente.
    Tabella 1 Risultato delle comunali a Bolzano al primo turno e al ballottaggio e confronto con il 2015
    risultato bolzano 2016
    Osservando i risultati delle singole liste e confrontandoli con quelli dello scorso anno (Tabella 1), ci si rende conto che in realtà a Bolzano è cambiato ben poco. La gran parte delle liste è rimasta sulle stesse percentuali di 12 mesi fa: lievemente saliti SVP e M5S, lievemente scesi PD e Lega Nord, ma siamo nell’ordine di massimo 2 punti percentuali. Qualche cambiamento in più nel centrodestra dove le tre liste che nel 2015 avevano sostenuto Urzì si sono unite in una lista unica che pare averne risentito non poco, specie a vantaggio di Casapound, che è passata dal 2% al 6% di lista. (chronofhorse.com) Un successo davvero considerevole se si pensa che il 6% già ottenuto l’anno scorso a livello di candidato dipendeva dall’alleanza con la lista Benussi, che però è oggi confluita in Fratelli d’Italia.
    Venendo alle prospettive future, sono molto incerte: Caramaschi potrà contare sul sostegno del PD, della sua lista civica e di due forze che hanno scelto di sostenerlo al ballottaggio: la SVP e la lista civica Io sto con Bolzano. Ma anche così, il Sindaco potrà contare sul sostegno di soli 21 consiglieri, mentre la maggioranza necessaria è di 23. Il sistema elettorale proporzionale (necessario a Bolzano per garantire il ruolo politico della minoranza germanofona), nonostante l’innalzamento delle soglie di sbarramento, non è riuscito a garantire una maggioranza al Sindaco eletto, che ora dovrà cercare di riuscire esattamente nello stesso compito nel quale ha fallito il suo predecessore. Ovvero convincere la SVP e i Verdi a collaborare in un’unica giunta, cosa che nessuna delle due forze pare sinora interessata ad accettare.
    Riferimenti bibliografici
    Paparo, A. (2015a), Comunali in Alto Adige: a Bressanone vince il Svp, al ballottaggio gli altri comuni, /cise/2015/05/12/comunali-in-alto-adige-a-bressanone-vince-il-svp-al-ballottaggio-gli-altri/
    Paparo, A. (2015b), Ballottaggi in Trentino-Alto Adige: il Pd vince solo a Bolzano, /cise/2015/05/25/ballottaggi-in-trentino-alto-adige-il-pd-vince-solo-a-bolzano/
     [1]Sui risultati di Bolzano nel 2015 si vedano gli articoli di Aldo Paparo (2015a e 2015b)
    /cise/2015/05/12/comunali-in-alto-adige-a-bressanone-vince-il-svp-al-ballottaggio-gli-altri/
    /cise/2015/05/25/ballottaggi-in-trentino-alto-adige-il-pd-vince-solo-a-bolzano/
  • Il primo test delle Comunali 2016: l’offerta politica a Bolzano

    Il primo test delle Comunali 2016: l’offerta politica a Bolzano

    di Federico De Lucia

    Domenica prossima (8 maggio), con circa un mese di anticipo rispetto ai comuni delle Regioni a statuto ordinario, si voterà per rinnovare il Sindaco ed il Consiglio Comunale di Bolzano. Nel capoluogo altoatesino si torna alle urne dopo una consiliatura breve e tormentata, durata solo 12 mesi.

    Nel maggio 2015, al ballottaggio, era stato rieletto sindaco per la terza volta consecutiva Luigi Spagnolli, vincitore al ballottaggio contro un candidato di centrodestra. Per la prima volta dopo 10 anni, la coalizione si presentava agli elettori priva della propria ala sinistra (Verdi, SEL, Sinistra radicale), e basata sulla solida alleanza, peraltro replicata a livello provinciale, tra PD e SVP. Ma il calo dei consensi è stato maggiore del previsto: il candidato della sinistra radicale ha preso il 10% e Spagnolli, fermatosi attorno al 40%, pur ottenendo la vittoria al ballottaggio, a fronteggiare un Consiglio comunale privo di maggioranza, le sue liste disponendo di soli 19 seggi su 45. Si tenga presente che a Bolzano infatti, per tutelare le minoranze linguistiche, non è possibile prevedere premi di maggioranza per la coalizione del sindaco eletto.

    Spagnolli non ha avuto alternativa: ha provato a riaprire un dialogo con la sinistra radicale e con le liste civiche di centrosinistra, riuscendo di un soffio e con non poche difficoltà ad entrare in carica. Ma la maggioranza che lo sosteneva si è dimostrata troppo eterogenea per sopravvivere oltre qualche mese. Troppo acute le divergenze tra la SVP da una parte ed i Verdi dall’altra, specie sulle politiche urbanistiche di riqualificazione del centro (in particolare, la maggioranza si era divisa tra favorevoli e contrari all’apertura, di fianco al Duomo, di un grande centro commerciale da parte del magnate austriaco Renè Benko, accusato di tenere in pugno una parte della SVP locale). A fine settembre 2015, Spagnolli ha preso atto dell’impossibilità di andare avanti e si è dimesso.

    Tab. 1 – Offerta elettorale a Bolzano alle Comunali 2016: candidati e liste

    bolzano offerta2016

     

    Se già l’anno scorso l’offerta politica era stata piuttosto frammentata, la turbolenta consiliatura appena conclusasi ha prodotto un ulteriore sbriciolamento del quadro politico cittadino. La disomogenea coalizione uscente si è spaccata addirittura in tre candidati: il PD, con SEL e una Civica, a sostegno di Caramaschi (ex city manager del Comune), la SVP, da sola per la prima volta dopo 11 anni, a sostegno dell’avvocato Baur, ed i Verdi sulla sinistra ad appoggiare Lantschner. Difficile che il migliore di questi candidati arrivi al 20% dei consensi. Si aprono quindi spazi notevoli, in vista del ballottaggio, per almeno altri due candidati: da una parte quello del M5S, Caterina Pifano, dall’altra Mario Tagnini, candidato di FI e Lega Nord, anche se su quest’ultimo va evidenziata una nuova e bruciante spaccatura nel centrodestra, che in parte (FDI, altri di destra) è confluito su Holzmann. Forza Italia ha poi visto la defezione della sua storica leader locale, Micaela Biancofiore, del tutto insoddisfatta del candidato scelto del proprio partito (commissariato dall’eurodeputata Elisabetta Gardini).

    Insomma, almeno quattro, se non di più, potrebbero essere i papabili per il ballottaggio, che a questo punto si configura come una certezza. Come del resto è certo il ritorno ad uno scenario di scarsa governabilità: e pensare che solo pochi mesi fa la Provincia di Bolzano, proprio per evitare il ripetersi di questi scenari, aveva approvato una nuova legge elettorale comunale che prevede alte soglie di sbarramento (7% di coalizione, 3% di lista). Non basterà a produrre una maggioranza stabile.

    BIBLIOGRAFIA

    Città al voto: i sindaci e le elezioni comunali, G Baldini, G Legnante – 2000 – Il mulino

    Da una riforma elettorale all’altra: partiti, coalizioni e processi di apprendimento, A Chiaramonte, A Di Virgilio – Rivista italiana di scienza politica, 2006 – rivisteweb.it

  • Eletti 2014: anche in Europa cambia tutto. Giovani, donne ed esordienti

    di Federico De Lucia

    Le elezioni politiche dello scorso anno hanno rappresentato un momento di svolta, tra le altre cose, anche dal punto di vista della composizione della classe parlamentare italiana, con tassi di ricambio paragonabili persino a quelli, addirittura rivoluzionari, del 1994. A seguito di una tale ristrutturazione del panorama parlamentare nazionale era lecito attendersi qualcosa di simile anche a livello di composizione della delegazione italiana al Parlamento europeo, sebbene il quadro normativo di contesto fosse ben diverso (il voto di preferenza, infatti tende naturalmente a favorire l’incumbent molto più di quanto non faccia la lista bloccata).

    Ebbene, nella Tabella 1 si riportano i dati della composizione della neoeletta delegazione italiana[1], mostrando quanto essa si presenti rinnovata rispetto a quella uscente, a livello generale e disaggregando il dato partito per partito.

    Tab. 1 – Rieletti e nuovi eletti sul totale della delegazione italiana al Parlamento UE 2014

    Nuovi

    Rieletti

    Totali

    Ricambio

    PD

    22

    9

    31

    71,0

    M5S

    17

    0

    17

    100,0

    FI

    9

    4

    13

    69,2

    NCD-UDC

    2

    1

    3

    66,7

    LNA

    1

    4

    5

    20,0

    Tsipras

    3

    0

    3

    100,0

    Altri

    0

    1

    1

    0,0

    Totale

    54

    19

    73

    74,0

    In primo luogo si ricorda che i 73 seggi spettanti all’Italia sono stati distribuiti tra 7 partiti, contro i 6 del 2009. Allora furono PD, PDL, LNA, IDV, UDC e SVP a entrare in Parlamento UE. Stavolta, ci sono riusciti PD, M5S, FI, LNA, NCD-UDC, SVP e di un soffio, anche la lista rappresentativa della sinistra radicale. Dei 73 europarlamentari eletti, ben 54 sono nuovi eletti e solo 19 sono invece europarlamentari uscenti che, ricandidatisi, sono riusciti a ottenere di nuovo il seggio. Un tasso di ricambio del 74% che a prima vista sembra assolutamente significativo. Una buona parte del tasso di rinnovamento complessivo della delegazione è costituita dalla pattuglia grillina, che ovviamente è integralmente nuova rispetto alla scorsa legislatura. Ma anche il PD, il partito maggiore, ha contribuito considerevolmente con un tasso di rinnovo notevole, e solo 9 rieletti contro 22 neo-eletti. E anche FI, che pure ha visto contrarsi la propria rappresentanza e quindi teoricamente avrebbe potuto avere poco spazio da mettere a disposizione per eventuali nuove leve, vede una composizione rinnovata al 70%.

    Tuttavia, se collochiamo questi tassi di ricambio in un’ottica comparata rispetto alle altre tornate elettorali europee della Seconda Repubblica, ci rendiamo conto che essi si stagliano in una certa continuità con il recente passato. Del resto, è noto come le elezioni europee siano sempre state considerate dai partiti italiani o come una sorta di “cimitero degli elefanti” all’interno del quale collocare chi per qualche motivo doveva essere allontanato dal livello nazionale, oppure come una sorta di tappa di passaggio della propria carriera politica, come una opportunità per pesare le proprie forze (grazie alle preferenze) e per passare i successivi anni ad osservare le dinamiche nazionali (o locali) da una comoda posizione esterna, per poi ributtarsi a capofitto nell’arena più interessante non appena il contesto strategico tornasse a suggerirlo. Insomma, un europarlamentare italiano uscente si ricandida proprio se non ha niente di meglio a cui puntare, e i dati riportati nel grafico in Figura 1 sembrano confermarlo. Il dato del 2014 è alto ma non poi così diverso da quello del 2009 o da quello degli anni ‘90.

    Figura 1 – Tasso di ricambio nelle delegazione italiana al parlamento europeo (1994-2014, % nuovi eletti su eletti totali)

    Ma il dato più interessante da questo punto di vista non è tanto, forse, quello del basso numero di rieletti in confronto ai nuovi eletti, ma al contrario quello che emerge da una analisi più specifica di quelli che sono stati gli esiti delle prestazioni elettorali di tutti i parlamentari uscenti. Su 73 europarlamentari uscenti, coloro che effettivamente hanno rinunciato a tentare la rielezione sono solo 20 (meno del 30%), ovvero una cifra quasi identica a coloro che invece sono riusciti a riguadagnarsi il seggio. Il dato che stupisce è quel 46% di “bocciati”, ovvero di europarlamentari che hanno fallito l’elezione pur avendo chiesto e ottenuto la ricandidatura. In particolare, fanno riflettere i dati di PD e FI. I democratici, che sono passati da 22 a 31 seggi e che quindi avrebbero potuto confermare facilmente tutti e 16 gli europarlamentari che avevano scelto di ricandidarsi, se ne sono visti bocciare ben 7, superati da candidati esterni. In FI invece, dove la delegazione è rimasta circa la medesima in termini numerici, ma dove la quasi totalità degli uscenti (17 su 18) si era ricandidata, solo la irrisoria cifra di 4 ricandidati su 17 è poi riuscita effettivamente a confermarsi in carica. Insomma, come si diceva, non solo l’avvento di nuove forze politiche, ma anche forti rimescolamenti all’interno delle forze che in Parlamento UE c’erano già.

    Tabella 2 – Destino dei parlamentari europei italiani uscenti alle elezioni europee del 2014

    Uscenti

    Ritirati

    Ricandidati

    Rieletti

    Bocciati

    PD

    22

    6

    16

    9

    7

    FI

    18

    1

    17

    4

    13

    NCD-UDC

    13

    5

    8

    1

    7

    LNA

    7

    2

    5

    4

    1

    FDI

    4

    0

    4

    0

    4

    Altri

    9

    5

    3

    1

    2

    Totale

    73

    20

    53

    19

    34

    Un altro elemento che ha caratterizzato in maniera considerevole le scorse elezioni politiche è stato l’incremento della rappresentanza femminile, per la prima volta salita sopra la simbolica soglia del 30%. Ebbene in questo caso le elezioni europee sono riuscire nel compito di fare ancora meglio. Le donne elette sono ben 29 su 73, il 39,7% della rappresentanza complessiva. Se si pensa che le uscenti erano 16 (il 22,2%) il passo in avanti è veramente significativo.

    Tabella 3 – Rappresentanza femminile nella delegazione italiana al Parlamento UE: uomini e donne per gruppo, tra gli uscenti e gli eletti 2014

    Partito

    Uscenti

    Eletti 2014

    M

    F

    %F

    M

    F

    %F

    PD

    18

    4

    18,2

    17

    14

    45,2

    M5S

    /

    /

    /

    8

    9

    52,9

    FI

    11

    7

    38,9

    9

    4

    30,8

    NCD-UDC

    11

    2

    15,4

    3

    0

    0,0

    LNA

    6

    1

    14,3

    4

    1

    20,0

    Tsipras

    /

    /

    /

    2

    1

    33,3

    FDI

    4

    0

    0,0

    /

    /

    0,0

    Altri

    7

    2

    25,0

    1

    0

    0,0

    Totale

    56

    16

    22,2

    44

    29

    39,7

    Esattamente come alle politiche, a svolgere la parte del leone in questo dato sono i gruppi di PD e M5S. Addirittura questi ultimi eleggono più donne che uomini (9 a 8), caso in Italia più unico che raro. Ma anche il PD ha visto salire in modo considerevole la propria quota di elette (14 su 31), specie se confrontate con le sparute europarlamentari uscenti (solo 4, addirittura meno di FI).

    Una percentuale di europarlamentari donne elette del genere si pone in netta discontinuità rispetto al passato remoto e recente. Il numero di donne aveva costantemente vivacchiato attorno al 10% per tutti gli anni ‘80 e ’90, e solo a partire dal 2004 la quota di rappresentanza femminile era raddoppiata. Ma quello cui assistiamo in questa occasione è un ulteriore raddoppio, che porta l’Italia su livelli prossimi a quelli delle democrazie sotto questo aspetto più avanzate.

    Figura 2 – Rappresentanza femminile nelle delegazione italiana al parlamento europeo (1979-2014, % su eletti)

    Una delegazione ampiamente rinnovata e più “rosa” rispetto a quella uscente, ma anche nettamente più giovane. L’età media dei 73 eletti è di 47,8 anni. Un dato in linea con quello medio degli eletti alla Camera dell’anno scorso, più di 10 anni inferiore a quello medio degli uscenti, e più di cinque anni in meno dell’età media dei nuovi eletti del 2009. In questo caso il contributo maggiore deriva nettamente dal M5S, i cui 17 eletti hanno in media 37,8 anni. In questo caso il PD è il soggetto più anziano, con 52 anni di media, ma va fatto notare che anche i democratici registrano una riduzione di 3 anni rispetto agli eletti di cinque anni fa.

    Tabella 4 – Età media nella delegazione italiana al Parlamento UE: uscenti ed eletti 2014 a confronto

    Partito

    Uscenti

    Eletti 2014

    PD

    55,8

    52,1

    M5S

    /

    37,8

    FI

    48,7

    48,4

    NCD-UDC

    60,1

    51,7

    LNA

    49,4

    46,4

    FDI

    45,5

    /

    Altri

    51

    45

    Totale

    53,1

    47,8

    Per finire, un’ analisi correntizia degli eletti del PD. Quando venne eletto il Parlamento UE del 2009 i renziani ancora semplicemente non esistevano. A quel tempo finì nella sostanza in pareggio tra la sinistra dalemian-bersaniana e la componente moderata, allora raggruppata sotto le insegne di Area Dem. Oggi la gran parte di quest’ultima corrente è finita con il convergere nel renzismo di seconda generazione. In quota Area Dem hanno riottenuto il seggio esponenti come David Sassoli, Patrizia Toia, Silvia Costa, ma anche la responsabile Sud della segreteria renziana Pina Picierno e l’altro campano Nicola Caputo. Altri esponenti di peso avvicinatisi a Renzi solo dopo il successo nazionale di quest’ultimo sono l’ex ministro Cecile Kyenge, gli ex Presidenti regionali Soru e Bresso, e il ras romano del PD, ex veltroniano, Goffredo Bettini. Puramente renziani vanno invece considerati Simona Bonafè, Nicola Danti e Isabella De Monte, mentre può essere considerata una indipendente di area comunque moderata la siciliana Michela Giuffrida. La minoranza interna, ora raggruppatasi attorno alla nuova “Area Riformista”, riesce a confermare la propria considerevole presenza, rieleggendo Cofferati (tornato a sinistra nell’ultimo congresso), De Castro, Panzeri, lanciando l’influente dalemiano Paolucci, e trovando persino una nuova collocazione al contestato ex ministro bersaniano Zanonato. I Giovani turchi hanno rieletto Gualtieri, e centrato l’arrivo a Bruxelles di Cozzolino e del giovane Benifei, mente indipendente di area “turca” può essere considerata Caterina Chinnici. Trovano spazio anche 4 civatiani (Briano, Gentile, Viotti, Schlein), una lettiana purosangue come Alessia Mosca, il potente fioroniano laziale Gasbarra, il bresciano Luigi Morgano, di simpatie bindiane, e l’ex bersaniana, ormai peraltro isolata, Alessandra Moretti. Infine, viene trionfalmente rieletto (per altro in deroga rispetto al limite dei tre mandati consecutivi) il lucano Gianni Pittella, lanciatissimo verso posizioni di prestigio a livello europeo (si parla come minimo del ruolo di Presidente del gruppo socialista).

    Nel complesso dunque, Renzi può contare sulla metà circa della propria delegazione. Una quota inferiore rispetto alle cifre congressuali, a vantaggio della sinistra interna. Tuttavia, in una battaglia come quella delle preferenze è comprensibile che i renziani, specie quelli di prima generazione, fossero in difficoltà rispetto a più consolidate strutture di partito. Da questo punto di vista, anzi, può apparire un successo notevole l’elezione quasi trionfale di tutte e 5 le capilista individuate dal premier.

    Riferimenti bibliografici

    Tronconi F. e Verzichelli, L. (2007), Il ceto parlamentare alla prova della nuova riforma elettorale, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di), Proporzionale ma non solo. Le elezione politiche del 2006, Bologna, Il Mulino, pp. 335-368.

    Tronconi F. e Verzichelli, L.  (2010), Verso il ceto politico della «terza repubblica»? la rappresentanza parlamentare nella XVI legislatura, in A. Chiaramonte e R. D’Alimonte (a cura di),  Proporzionale se vi pare. Le elezioni politiche del 2008, Bologna, Il Mulino, pp. 173-202.

     



    [1] Per l’elaborazione dei dati si è tenuto conto delle notizie stampa attualmente disponibili in merito ad ipotetiche rinunce da parte degli eletti in Parlamento UE che già detengono cariche elettivi incompatibili. Inoltre, si è ipotizzato che i due plurieletti Salvini (LNA) e Spinelli (Tsipras) optassero rispettivamente per le circoscrizioni Nord Ovest e Sud (sempre sulla base di indiscrezioni tratte da notizie stampa).

  • Doppia preferenza: raddoppiano le donne nei consigli comunali

    di Federico De Lucia e Giuseppe Martelli

     Uno dei dibattiti più accesi all’interno dello spazio pubblico italiano ha riguardato e riguarda la necessità di un’equa rappresentanza di genere, all’interno delle assemblee elettive. In questa sede è impossibile ripercorrere tutte le proposte e gli esperimenti che, in ambito elettorale, hanno riguardato il potenziamento della rappresentanza femminile nella sfera politica; tuttavia possiamo ricordare che la Campania prevede, già dal 2010, un sistema di doppia preferenza (purché le preferenze espresse siano attribuite a candidati di diverso genere) del tutto simile a quello adottato nelle ultime elezioni comunali.

    L’introduzione delle doppia preferenza per le elezioni comunali, avvenuta grazie alla legge n. 215/2012, rappresenta una svolta fondamentale nel complesso mondo delle pari opportunità in politica.

    Naturalmente la novità dello strumento e la conseguente assenza di una serie storica impedisce valutazioni di carattere generale, ma i risultati ottenuti in termini di rappresentanza femminile nelle ultime elezioni comunali offrono fondati spunti di riflessione.

     Tab. 1 – Rappresentanza femminile nei consigli comunali dei 16 capoluoghi al voto nel 2013: confronto con le elezioni precedenti e disaggregazione territoriale

    Nella Tabella 1 osserviamo il rendimento dello strumento “doppia preferenza” comparando i risultati con la tornata amministrative precedente svoltesi senza nessun meccanismo di compensazione in termini di rappresentanza di genere. I casi analizzati riguardano i 16 comuni capoluogo protagonisti dell’ultima tornata elettorale, disaggregati fra Nord, Zona Rossa e Sud.

     Le percentuali in termini di donne elette, rapportate al totale, non lasciano dubbi in merito al successo dello strumento. Registriamo, infatti, una crescita robusta e diffusa delle donne elette nei Consigli Comunali delle città interessate. In termini assoluti esse raddoppiano. In termini percentuali la presenza femminile è due volte e mezzo quella della precedente tornata nel complesso, e nel caso dei capoluoghi meridionali addirittura quadrupla rispetto al recente passato. La frattura territoriale rileva quindi una sostanziale omogeneità dello strumento in termini di efficacia; efficacia che riscontriamo anche rispetto ai risultati di lista.

    Tab. 2 – Rappresentanza femminile nei consigli comunali dei 16 capoluoghi al voto nel 2013: confronto con le elezioni precedenti e disaggregazione per coalizioni

    Osservando la Tabella 2 registriamo una situazione di partenza caratterizzata da una maggiore presenza femminile nelle liste del centro-sinistra e della sinistra rispetto al centro-destra. L’introduzione della doppia preferenza determina un corposo aumento di donne elette, in particolare nell’area del centro-sinistra per quanto riguarda i valori assoluti, ma in termini percentuali anche nel centrodestra (dove le consigliere restano all’incirca lo stesso numero, ma in un contesto in cui il numero complessivo di rappresentanti dimezza). Più in generale appare evidente che, anche in termini di “aree politiche”, la doppia preferenza aiuta un maggiore equilibrio nella rappresentanza di genere a prescindere dagli schieramenti.

     Le due tabelle non offrono certezze in senso assoluto, poiché gli elementi che compongono la legislazione elettorale hanno bisogno di tempo per dispiegare i propri effetti. Tuttavia, nonostante la necessaria prudenza è chiaro, in termini di obiettivi, che la doppia preferenza determina una straordinaria crescita del numero di donne elette nei Consigli. Inoltre, sempre alla luce dei dati, è fuor di dubbio che il sistema a doppia preferenza vada oltre la frattura territoriale e partitica  producendo effetti su tutto il territorio e in ogni partito (ovviamente con intensità diverse in base al contesto).

    In conclusione, nonostante l’assenza di una serie storica e nonostante la valenza locale del voto, il meccanismo delle doppie preferenze si candida ad essere un ottimo strumento nel riequilibrio di genere, all’interno delle istituzioni rappresentative.

  • Comunali 2013: il M5S ai ballottaggi, 2012 e 2013 a confronto

    di Federico De Lucia

    Da un punto di vista cronologico, è indubbio che lo “tsunami a 5 stelle” sia iniziato con le elezioni comunali della primavera 2012. A quel primo successo sono seguiti quello regionale siciliano dell’autunno seguente e quello delle politiche di febbraio. Oggi, ad un anno di distanza, e a seguito della tornata elettorale amministrativa appena conclusasi, è impossibile celare l’impressione che l’onda si sia placata. Tale impressione la ricaviamo dal confronto fra le comunali di oggi e le recenti elezioni politiche. Tuttavia, come già si è detto, si tratta di un confronto in gran parte fuorviante: per collocare esattamente le prestazioni dei 5S all’interno di questo preciso tipo di elezione, può essere interessante adoperarsi in un confronto fra le amministrative del 2012 e quelle di quest’anno.

    Come già abbiamo visto in un precedente articolo, la presenza del M5S alle elezioni comunali italiane si è progressivamente diffusa sul territorio nazionale negli ultimi tre anni: se nel 2011 il movimento di Grillo si presentava in soli 47 comuni superiori su 141 al voto, oggi si è presentato in 75 su 92. A questo aumento di diffusione sul territorio, ha fatto seguito un incremento sensibile delle percentuali di consenso registrate fra il 2011 e il 2012 (dal 4,7% al 9,1), mentre fra il 2012 e il 2013 la percentuale nazionale si è lievemente contratta, specie al Nord e nella Zona Rossa (mentre al Sud si è colmato il gap che si era registrato nelle prestazioni dei due anni precedenti).

    A livello di successi, nel 2012 il M5S è riuscito a vincere al primo turno in un comune inferiore ai 15.000 abitanti (Sarego, provincia di Vicenza) e a giungere al ballottaggio in ben 5 comuni superiori. In questi 5 ballottaggi, sempre contro candidati di centrosinistra, il risultato finale è stato di 3 a 2 per il M5S. La vittoria ha arriso ai 5 stelle a Parma, Mira e Comacchio, mentre il centrosinistra è riuscito a vincere a Budrio e a Garbagnate. Quest’anno, in coerenza con le percentuali di cui si è detto, le cose sono andate in modo molto simile. Il M5S è riuscito ad andare al ballottaggio in 3 comuni superiori, anche stavolta sempre contro candidati di centrosinistra: Martellago (provincia di Venezia), Pomezia (Roma) e Assemini (Cagliari). Nello scorso fine settimana, quello dei ballottaggi, ha trionfato in due di essi: Pomezia e Assemini. A queste due vittorie si aggiunge il secondo posto ottenuto a Ragusa. Vedremo dunque fra due settimane se i grillini si saranno aggiudicati, dopo Parma, anche il secondo capoluogo di provincia della loro storia elettorale.

    Nella Tabella 1 sono riportate, comune per comune, le prestazioni di CSX e M5S nei comuni in cui sono andati al ballottaggio, nel 2012 e nel 2013.

    Tab. 1 –CSX e M5S nei comuni superiori in cui si sono affrontati al ballottaggio nel 2012 e nel 2013: dettaglio comuni

    Come si vede, sono molte le somiglianze, sia all’interno della stessa tornata, che confrontando comuni che hanno votato in due anni diversi. In tutti i casi è il centrosinistra ad aver chiuso in vantaggio il primo turno (un vantaggio che spesso è di grande entità). In tutti i casi, il M5S ottiene grandi prestazioni al ballottaggio. In tutti i casi il centrosinistra non riesce invece a migliorare le proprie prestazioni, confermando sempre le proprie cifre di consenso del primo turno. Con ricorrenza chiara e costante, sembrano cioè ripetersi i due seguenti fenomeni: i candidati grillini, generalmente non fortissimi al primo turno, nel caso in cui (in genere per demeriti altrui, specie del centrodestra) riescano a giungere al ballottaggio, attraggono su di sé le preferenze di moltissimi elettori che al primo turno non si erano espressi in loro favore; il centrosinistra conferma il suo disciplinato elettorato, senza però uscire dal recinto che lo circoscrive. Il risultato combinato di questi due fenomeni è che, in tali scontri diretti, il M5S giunge alla vittoria in tutti quei casi in cui l’elettorato di centrosinistra, pur essendo giunto primo al primo turno, si fermava ben lontano dal 50% dei voti. Questa impressione vale sia per il 2012 che per il 2013. Da questo punto di vista, bastava dare una occhiata ai risultati del 2012 per poter prevedere con ragionevole certezza le vittorie grilline di Pomezia e Assemini.

    Il fenomeno è estremamente interessante, e sembra tratteggiare un disegno abbastanza preciso del rapporto fra il M5S e le elezioni comunali (ma anche fra M5S e sistemi elettorali a doppio turno). I candidati grillini sono essenzialmente sconosciuti, e scarsamente radicati sul territorio: da questo punto di vista, sono in evidente difficoltà nei confronti dei loro avversari a livello di elezioni comunali. Ma, se per motivi specifici (bassa qualità delle candidature altrui, giunte uscenti con pessima fama, ostilità storiche che impediscono all’elettorato di convergere sull’ opposizione tradizionale) riescono a giungere al ballottaggio, su di essi finisce per concentrarsi un coacervo di elettori estremamente eterogeneo, che può portarli anche alla vittoria. Da questo punto di vista appare addirittura incredibile quanto avvenuto a Pomezia, dove sia il candidato della sinistra radicale che quello di centrodestra hanno dato indicazione di voto per il candidato grillino in occasione del ballottaggio. E gli elettori seguono queste indicazioni. Anche se non abbiamo prove empiriche di questo, non appare verosimile ipotizzare che un comportamento molto simile potrebbe essere messo in pratica dall’elettorato di centrosinistra se, escluso il suo candidato dal ballottaggio, si trovasse a dover scegliere fra un candidato a 5 stelle e uno di centrodestra. Insomma: non bastano pochi mesi di “larghe intese” per archiviare, nella mente egli elettori, vent’anni di bipolarismo muscolare. In un contesto di legge elettorale a doppio turno, le conseguenze delle ostilità accumulate in due decenni di competizione fra candidati di centrodestra e di centrosinistra si trasformano, nei ballottaggi cui partecipano i candidati a 5 stelle, in dividendi elettorali in loro favore. Certo, i grillini al ballottaggio devono arrivarci: questo, per ora, avviene molto raramente, ed in genere più per demeriti dei loro concorrenti più che per meriti propri.

    Tuttavia, una differenza fra il 2012 e il 2013 c’è: essa si ravvisa nell’entità del fenomeno che abbiamo appena descritto. Nella Tabella 2 sono mostrati i dati della tabella precedente, ma aggregando i comuni per anno di elezione, ed evidenziando nell’ultima colonna l’incremento percentuale sul proprio bacino elettorale iniziale.

    Tab. 2 – CSX e M5S nei comuni superiori in cui si sono affrontati al ballottaggio: aggregati 2012 e 2013 a confronto

    Come si vede, fra primo e secondo turno, il centrosinistra conferma sostanzialmente il proprio elettorato sia nel 2012 che nel 2013 (una lieve perdita può essere considerata strutturale). Il M5S cresce invece moltissimo in entrambi i casi: ma mentre nei ballottaggi del 2012 era giunto persino a triplicare il proprio consenso del primo turno, nel 2013 esso si è “limitato” a raddoppiare le proprie prestazioni di due settimane prima. Questo è un cambiamento che effettivamente è possibile ravvisare in questo confronto fra elezioni comunali. Difficile dire però, con così pochi casi a diposizione, se questo sia una conseguenza della disillusione derivante dalle dinamiche nazionali o se dipenda al contrario da dinamiche locali.