Autore: Federico De Lucia

  • Le Parlamentarie PD: nelle posizioni eleggibili parità di genere e due terzi dei parlamentari uscenti

    di Federico De Lucia

    Le primarie del PD hanno visto la partecipazione di 1.200.000 persone circa: si tratta del 40% circa di coloro che si erano recati al voto lo scorso 25 novembre, al primo turno delle primarie per la candidatura alla premiership. Se si considera il periodo festivo, la scarsa attenzione mediatica connessa all’evento e la quasi assenza di campagna elettorale, è un risultato di tutto rispetto: stiamo parlando di una cifra corrispondente al doppio degli iscritti al Pd.

    I cittadini che si sono recati a votare nei circoli del Pd su tutto il territorio nazionale hanno svolto un ruolo decisivo nel comporre le liste che i democratici presenteranno alle elezioni politiche del 24-25 febbraio prossimi. Le Unioni regionali del partito hanno ora a disposizione le varie graduatorie provinciali, e sulla base di esse possono procedere alla compilazione delle liste, o meglio di quella porzione di liste che spetta loro, corrispondente al 90% del totale dei posti. Il restante 10%, corrispondente alle posizioni apicali e certamente eleggibili, sarà inserito in lista direttamente dalla Direzione nazionale, su proposta del segretario Bersani: si tratta del cosiddetto “listino”. I 44 capilista infine, saranno decisi anch’essi dal segretario, anche se in questo caso è previsto che questo si consulti con i segretari regionali. Difficile, ad oggi, sapere quanti di essi saranno scelti fra i cooptati da Bersani, e quanti saranno invece scelti fra i vincitori delle primarie. Lo stesso regolamento prevede su questo punto una totale discrezionalità: i capilista sono letteralmente espunti dal computo dei candidati, e pertanto non sono automaticamente ricompresi né nel 10% riservato al segretario, né al 90% selezionato dagli elettori. Dal testo regolamento però, non è possibile escludere anche un’altra interpretazione: quella che concede a Bersani la possibilità di individuare anche soggetti esterni ad entrambi tali sottoinsiemi. In tal caso si tratterebbe di veri e propri “nominati” ulteriori rispetto a quelli del listino. È probabile che l’ambiguità del regolamento sia voluta, ed in particolare che sia finalizzata a consentire una qualche flessibilità al segretario. Capiremo come saranno andate le cose solo a liste definitivamente approvate.

    Seppure ad un livello ancora molto parziale, è possibile già oggi fare delle previsioni su quanti e quali saranno i candidati democratici che alla fine saranno eletti in Parlamento. La previsione che proponiamo qui si basa su una simulazione che prevede che il centrosinistra vinca sia il premio di maggioranza nazionale alla Camera, sia tutti e 17 i premi di maggioranza regionali del Senato, ottenendo alla fine 400 parlamentari (esclusi quelli eletti all’estero e quelli eletti nei collegi senatoriali trentino-altoatesini). Nella Tabella 1 riportiamo, distinti per regione, i seguenti dati:  il numero di posti in lista disponibili (per la Camera e per il Senato), il numero di eletti presumibili (deputati, senatori, e totali), il numero di capilista (ricordiamo che al Senato le circoscrizioni corrispondono alle regioni mentre alla Camera le regioni più grandi sono divise in più circoscrizioni), il probabile numero di candidati riservati al listino scelto da Bersani (ipotizziamo che i candidati del listino siano ripartiti proporzionalmente fra le regioni, salvo il caso del Molise, che eleggendo solo i capilista presenterà certamente, in tale posizione, i vincenti delle primarie), ed infine il numero effettivo di posizioni eleggibili fa quelle destinate ai candidati non nominati, ovvero ai vincenti delle primarie.

    Tabella 1 PD: Posti in lista e posizioni eleggibili nelle regioni italiane




    Delle 398 posizioni eleggibili del PD (264 per la Camera e 134 per il Senato), 44 sono quelle dei capilista, 92 quelle riservate ai componenti del listino (tutti per definizione collocati in posizioni eleggibili), e 262 le rimanenti, assegnate certamente ai vincitori delle primarie. Tale numero è pertanto il numero minimo riservato ai vincitori delle primarie (esso sale a 264 se si aggiungono i due capilista molisani). Ma tale cifra è da ritenersi verosimile solo nel caso, direi abbastanza estremo ed improbabile, in cui tutti e 44 i capilista siano nominati ulteriori rispetto a quelli già indicati da Bersani nel cosiddetto listino. Ipotizziamo quindi anche lo scenario opposto: quello cioè in cui tutti i capilista siano al contrario scelti o fra i vincitori delle primarie o fra i candidati già nominati nel listino: in questo modo, il numero di posti eleggibili riservati ai vincitori delle primarie aumenta fino a 306 (262+44). In tal caso, per ciascuna regione, il numero di posizioni eleggibili lasciate ai vincitori delle primarie è dato dalla somma dell’ultima colonna (“Altri eletti”) e quella riservata ai capilista. Il numero di vincitori delle primarie collocati in posizione eleggibile oscilla pertanto fra un minimo di 262 e un massimo di 306.

    Ora che le primarie si sono tenute, è possibile fare un primo bilancio di come sono andate: in particolare ci interessa indagarle sotto due profili. Le prestazioni dei parlamentari uscenti che in tale agone si sono cimentati, e le quote di genere.

    Partendo dal primo profilo, già altrove si era fatto notare come il numero complessivo di parlamentari uscenti che ha deciso di cimentarsi con la consultazione primaria era di 150, il 50,2% degli attuali 299 parlamentari democratici. Bene, secondo le nostre simulazioni, solo 99 di essi sono riusciti a piazzarsi in una delle 306 posizioni eleggibili che abbiamo appena identificato. Tale numero scende a 86 se ci limitiamo all’ipotesi più restrittiva, quella che quantifica in 262 le posizioni eleggibili riservate ai vincitori delle primarie. Nella Tabella 2 mostriamo il numero di parlamentari uscenti candidato in ciascuna regione, ed il numero di candidati in posizione certamente eleggibile (nel caso di 262 posizioni eleggibili) o incerta (nel caso di 306 posizioni eleggibili).

    Tabella 2 PD: Parlamentari uscenti e posizioni eleggibili nelle regioni italiane

     

    Una cinquantina di parlamentari uscenti (un terzo di quelli che hanno deciso di confrontarsi con il territorio) ha quindi perso la sua sfida, e sarà collocato in una posizione in lista troppo bassa per risultare utile all’elezione. Questa è stata l’entità del rinnovamento imposto dai cittadini. Fra gli esclusi anche nomi di spessore, come il politologo Salvatore Vassallo a Bologna, Sergio D’Antoni a Palermo, Vincenzo Vita a Roma Città e la senatrice “derogata” Maria Pia Garavaglia a Verona. Le altre due parlamentari “derogate” che hanno deciso di partecipare alle primarie, Rosy Bindi e Anna Finocchiaro, hanno invece brillantemente passato la prova, rispettivamente a Reggio Calabria e a Taranto.

    Vedremo adesso cosa farà Bersani: quanta parte dell’altra metà dei parlamentari democratici uscenti sarà inserita nel listino, e quanto parte invece si ritirerà? Appena avremo i dati complessivi li mostreremo.

    Per quanto riguarda il secondo profilo che ci interessa qui, quello delle quote di genere, il regolamento delle primarie presentava indicazioni chiare: le Unioni regionali del partito devono predisporre liste che vedano ciascun genere rappresentato per un minimo del 40% dei posti. Al fine di garantire questo risultato, esse compongono le liste alternando candidati di genere diverso nelle graduatorie locali, per le province cui spetta più di una posizione eleggibile. È presumibile, tuttavia, che questo criterio venga utilizzato con una certa parsimonia, perché potenzialmente in grado di produrre attriti nelle sezioni locali del partito. Per altro, in molti contesti locali, le candidate donne sono andate talmente bene che applicare tali criteri in modo stringente rischia di penalizzarle invece che di avvantaggiarle (l’obbligo dell’alternanza cioè, rischia di collocare candidati uomini davanti a donne che hanno ottenuto più voti di loro). Pertanto, abbiamo immaginato una applicazione abbastanza flessibile di tali criteri: ovvero calibrata al solo raggiungimento della quota minima del 40% di genere, ed utilizzata solo al fine di evitare la penalizzazione del genere femminile. Bene: così facendo, risulta che ben 143 posizioni eleggibili su 306 spetteranno a candidati donne: ben il 46,7% del totale. E tale proporzione rimane sostanzialmente identica anche se ci limitiamo alle sole prime 264 posizioni eleggibili (262 più i due capilista molisani): in tal caso le donne sono 122, il 46,2% del totale. Davvero un ottimo risultato. Anche qui, vedremo se Bersani, nel listino, riuscirà a fare altrettanto.

    Tabella 3 PD: donne e uomini nelle posizioni eleggibili

     

  • Le Parlamentarie Pd: 897 candidati per 264 posizioni eleggibili

    di Federico De Lucia

    In questo fine-settimana i militanti e i simpatizzanti del Pd sono chiamati a contribuire sensibilmente, attraverso le primarie, alla composizione delle liste elettorali con cui i democratici si presenteranno alle elezioni politiche del prossimo 24 febbraio. Come già si è spiegato in un altro articolo, la competizione fra candidati si svolge a livello provinciale, mentre la composizione effettiva delle liste regionali e circoscrizionali viene proposta dalle Unioni regionali del partito. Al livello nazionale spetta l’approvazione definitiva, oltreché l’indicazione dei capilista (concordati con le Unioni regionali) e del cosiddetto listino.

    I 918 posti in lista che il Pd ha a disposizione si distinguono dunque fra 136 scelti più o meno direttamente da Bersani, e 782 selezionati (e ordinati) dalle primarie. Sono esclusi da questo computo 27 posti in lista: quelli per i 18 seggi eletti all’estero, quelli per i 2 seggi valdostani e i quelli per 7 seggi senatoriali del Trentino-Alto Adige.

    I candidati che si sono confrontati all’interno dei 114 ambiti territoriali di riferimento (le 109 provincie, più i territori di Cesena, Imola, Versilia, Val di Cornia-Elba e Empolese-Val d’Elsa), sono in tutto 897. Le primarie, oltre a stabilire chi avrà accesso e chi sarà escluso dalle liste, stabiliranno anche l’ordine nel quale i candidati vi si presenteranno. Le graduatorie locali potranno essere cambiata solo al fine di garantire una adeguata rappresentanza di genere.

    È proprio l’ordine di presentazione il punto cruciale: nel caso in cui il PD dovesse riuscire ad ottenere il premio di maggioranza sia alla Camera, che in tutte le regioni al Senato, potrà alla fine disporre di circa 400 parlamentari. Un terzo di essi è rappresentato dai 136 nominati dalla Direzione nazionale, che saranno verosimilmente collocati tutti in una posizione eleggibile. Se è vero, pertanto che ben 782 degli 897 candidati democratici alle primarie dovrebbe ottenere un posto in lista, è anche vero che, di questi, solo i primi 264 (circa) potranno contare su una posizione in lista effettivamente eleggibile.

    Tabella 1 Primarie Pd: Candidati, posti in lista e posizioni eleggibili

    Degli 897 candidati a queste consultazioni primarie, 150 (il 16,7%) sono parlamentari uscenti. Si tratta di ben il 50,2% degli attuali 299 parlamentari democratici (sono esclusi da tale computo i 9 radicali iscritti ai gruppi del PD). Si cimenteranno in questa difficile competizione anche parlamentari in carica dello spessore di Andrea Orlando (La Spezia), Barbara Pollastrini (Milano), Salvatore Vassallo (Bologna), Roberto Giachetti (Roma Città), Francesco Boccia (Bat), Sergio D’Antoni (Palermo), ma anche gli altri due esponenti dei Giovani Turchi, ancora non eletti in Parlamento, Stefano Fassina e Matteo Orfini (entrambi a Roma Città). Quanti del restante 49,8% di parlamentari uscenti saranno inseriti nel listino di Bersani, e a quanti al contrario sarà negata la candidatura? A questa domanda potremo rispondere solo quando sarà reso noto il listino nella sua interezza.

    Nel frattempo, ne approfittiamo per fare il punto della situazione sulle deroghe al limite dei tre mandati interi, che come noto rappresentano il massimo oltre il quale lo Statuto non contempla una ulteriore candidatura.

    Tabella 2. Limite dei tre mandati: chi ha ottenuto la deroga e chi non l’ha ottenuta.

    *ritiratosi dalla competizione il 29/12

    Come mostra la Tabella 2, i parlamentari uscenti oltre questa quota sono 23: a 10 di essi è stata concessa la deroga. Fra i 13 esponenti che non si ricandideranno ci sono nomi importanti come quelli di Pierluigi Castagnetti, Massimo D’Alema, Livia Turco, Walter Veltroni, Marco Follini, Tiziano Treu. Fra i 10 derogati troviamo invece Rosy Bindi, Giuseppe Fioroni, Anna Finocchiaro e Franco Marini. È interessante notare che, dei 10 esponenti che hanno ottenuto la deroga, solo 3 si confronteranno con la competizione delle primarie: la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro si presenterà a Taranto, la Presidente del Pd Rosy Bindi correrà a Reggio Calabria, Mariapia Garavaglia si presenterà a Verona. Cesare Marini, che doveva correre a Cosenza, si è invece ritirato. Gli altri 6 derogati, evidentemente, saranno inseriti nel listino di Bersani.

    Appena avremo i risultati delle primarie e l’elenco dei nomi inseriti nel listino potremo fare una prima analisi sulla misura in cui effettivamente il PD stia mantenendo la promessa del rinnovamento della classe dirigente: promessa, questa, più volte fatta da Bersani in sede di campagna elettorale per le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi.

  • Le Parlamentarie Pd: numeri e regole

    di Federico De Lucia e Matteo Cataldi

    Fra il 29 e il 30 dicembre, in pieno periodo festivo e dopo meno di un mese dal secondo turno delle primarie per la candidatura alla premiership, il PD riaprirà circoli e gazebo per permettere ai cittadini di partecipare ad una nuova consultazione. Da questa nuova tornata di elezioni primarie scaturirà la gran parte della composizione delle liste elettorali con cui il PD si presenterà alle prossime elezioni politiche del 24 Febbraio 2013. Si tratta di una decisione direttamente conseguente alla permanenza della legge elettorale Calderoli che, come noto, preclude all’elettore la scelta per il singolo candidato inserito in una lista. Con un sistema del genere, l’elezione dipende quindi integralmente dall’ordine che il candidato occupa in lista, e proprio a definire tale ordine contribuiranno le elezioni primarie per i parlamentari del PD.

    Il regolamento che il PD ha approvato è piuttosto complesso, ed è congegnato in modo tale da garantire flessibilità alle strutture organizzative locali e centrali del partito. Questo al fine di favorire la rappresentanza dei territori e la parità di genere.

    Innanzi tutto, chiariamo bene quali e quanti sono i posti in palio. Le primarie servono a selezionare, e ad ordinare in lista, il 90% dei candidati alla Camera e al Senato. Il restante 10% è nominato dalla Direzione Nazionale. Da questo computo vanno esclusi però i capilista, che vengono proposti alla Direzione Nazionale dal Segretario Nazionale, sentiti i Segretari regionali. Dunque, ben 782  sui 918 candidati del PD che concorreranno per un posto in Parlamento nel febbraio prossimo (escludiamo dal computo i candidati per i 18 eletti all’estero, per  i due candidati nei collegi valdostani, alla Camera e al Senato, e per i 7 candidati nei collegi trentino-altoatesini, al Senato) si confronteranno con il voto popolare e saranno collocati in lista in una posizione coerente con il proprio risultato.

    La tabella 1 mostra, divisi per ciascuna camera, il numero di candidati che sarà  collocato nelle liste del Pd tramite la quota riservata alla Direzione Nazionale, il numero di candidati che troverà spazio in virtù del fatto di capeggiare una lista in una delle due camere, ed il numero di coloro che l’inclusione nelle liste elettorali dovrà guadagnarsela sul campo attraverso le consultazione del prossimo fine settimana.

    Tabella 1: i tre tipi di candidati alle primarie parlamentari

    In realtà è bene tenere presente un fatto molto importante: sebbene non sia chiaro ad oggi quali saranno precisamente i posti in lista occupati dai componenti del listino (capilista a parte, ovviamente), è assolutamente certo che essi saranno tutti collocati in una posizione eleggibile (altrimenti che senso avrebbe il fatto di sceglierli dall’alto?). Pertanto, i candidati selezionati più o meno direttamente da Bersani, che sono poco più del 10% dei totale, saranno tutti eletti, e costituiranno grossomodo il 30% dei circa 400 parlamentari su cui potrà prevedibilmente contare il PD nella prossima legislatura. Cerchiamo di capire come funzionano queste primarie.

    A questa consultazione possono partecipare tutti gli iscritti al PD e tutti gli elettori iscritti all’albo dei partecipanti alle elezioni primarie per la premiership dello scorso 25/11 (dunque, circa 3.100.000 persone). Per votare è necessario versare due euro e firmare un dichiarazione di voto per il PD e un impegno a riconoscere gli organi di garanzia previsti dal partito. L’elettore può esprimere uno o due voti: in questo secondo caso però essi devono essere differenziati per genere, pena la nullità del secondo voto.

    Possono candidarsi tutti gli iscritti e gli elettori che, essendo compatibili con il Codice Etico del Pd, sottoscrivono gli impegni in esso previsti. Ciascun candidato può presentarsi solo e soltanto all’interno di un ambito provinciale. Possono concorrere anche coloro che, pur avendo superato i tre mandati interi al Parlamento nazionale, hanno ottenuto la deroga per la ricandidatura dalla Direzione nazionale. Le deroghe in questione  hanno riguardato 10 personaggi di spicco del PD: Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Beppe Fioroni, Franco Marini, Gianclaudio Bressa, Cesare Marini, Mariapia Garavaglia, Angelo Agostini, Giorgio Merlo e Giuseppe Lumia. Alcuni di loro saranno collocati nel listino, altri dovranno cimentarsi con la prova elettorale.

    Salvo deroghe concesse dal Comitato Nazionale elettorale, non sono invece candidabili a) i parlamentari europei, b) i Sindaci dei Comuni superiori ai 5.000 abitanti, c) i Presidenti dei Municipi/Circoscrizioni delle città metropolitane eletti direttamente, d) i Presidenti di Provincia e di Regione, gli assessori e i consiglieri regionali in carica.

    Per candidarsi in una provincia è necessario raccogliere le firme del 5% degli iscritti del partito in quella provincia, in almeno 3 circoli, e comunque in valori assoluti non inferiori a 50 e non superiori a 500. Sono esentati dalla raccolta delle firme i parlamentari uscenti. Le richieste di candidatura vanno presentate al Coordinamento provinciale, che definisce la rosa dei nomi in un numero massimo pari al doppio dei posti in lista spettanti a quella provincia.

    I tre livelli territoriali fondamentali nel procedimento elettorale sono: i Coordinamenti provinciali, le Unioni regionali, la Direzione Nazionale. I Coordinamenti provinciali agiscono sull’ambito territoriale nel quale materialmente si svolge la competizione elettorale: formano le rose di candidati, si occupano delle operazioni di voto e dello scrutinio, e comunicano i risultati del voto al livello superiore. Le Unioni regionali si occupano di assegnare alle varie provincie un numero preciso di posti in lista (la distribuzione avviene attraverso il sistema proporzionale Sainte-Lague) e, sulla base dei risultati della consultazione, formano materialmente le liste circoscrizionali (alla Camera) e regionali (al Senato), non mancando di tutelare la rappresentanza territoriale e la parità di genere. La Direzione Nazionale approva le liste finali, e le completa nominando i capilista e i componenti del cosiddetto listino.

    Facciamo un esempio concreto di come funziona questo procedimento, concentrandoci sul caso della regione Toscana che  tra Camera e Senato dovrà presentare 56 candidati (38 a Montecitorio e 18 a Palazzo Madama). Secondo il sito web dell’Unione regionale toscana del PD, 9 di questi posti sono riservati a candidati scelti dalla Direzione nazionale (dunque, i due capilista e 7 nomi appartenenti al cosiddetto “listino”), mentre gli altri 47 posti vengono distribuiti proporzionalmente fra i Coordinamenti territoriali toscani (ben 13, perché in questa regione oltre alle 10 province ci sono anche tre unità sub-provinciali che sono: Empolese-Valdelsa, Viareggio-Versilia e Val di Cornia-Isola d’Elba). La distribuzione Sainte-Lague (come tutte quelle effettuate con metodi a divisore), oltre ad assegnare tra i vari territori i posti in lista in palio, li colloca lungo una unica graduatoria decrescente. Ciascuna provincia quindi, oltre a sapere il numero dei posti che le spettano, saprà anche la posizione di questi posti  nelle lista circoscrizionale e pertanto la probabilità di successo dei candidati designati in quelle posizioni. Questo il risultato della distribuzione in Toscana:

    tabella 2: i posti spettanti a ciascun coordinamento territoriale in Toscana

    Per i 47 posti in lista di cui stiamo parlando, i risultati delle primarie saranno fondamentali: essi determineranno chi sarà ammesso e chi sarà escluso dalla lista e, soprattutto, in quale ordine coloro che vi avranno accesso saranno presentati. Questo secondo punto è fondamentale: si tenga a mente che solo i primi nomi in lista hanno possibilità concrete di essere eletti. In Toscana, in particolare, gli eletti complessivi (fra Camera e Senato), saranno probabilmente una trentina, di cui 9 indicati dalla Direzione nazionale. Solo la prima metà dei classificati alle primarie pertanto, potrà concretamente ambire ad un posto in Parlamento.

    Una volta che in ciascun territorio le consultazioni primarie avranno determinato le graduatorie locali, spetterà all’Unione regionale compilare effettivamente le liste per la Camera e per il Senato. Le direzioni regionali del partito, cioè, avranno, da una parte, il numero di posti in lista riservati al listino, dall’altra, per i posti rimanenti, la graduatoria di divisori ottenuti mediante la distribuzione Sainte-Lague. In corrispondenza di ciascun posto in lista, spettante ex ante ad un preciso ambito territoriale, saranno collocati i vari candidati provenienti da quel territorio, in ordine di piazzamento nella propria graduatoria locale. Alle Unioni regionali sarà però concesso un certo grado di discrezionalità e di flessibilità nella compilazioni definitiva delle liste: in particolare, esse potranno derogare alla graduatoria, al fine di garantire a ciascun territorio almeno una posizione effettivamente eleggibile, e che le quote di genere siano rispettate (minimo il 33% di esponenti di ciascun genere in ciascuna lista).

    Una volta terminato il lavoro delle Unioni regionali, sarà la volta del livello nazionale, che dovrà indicare i capilista e i nomi del listino. L’8 gennaio la Direzione Nazionale dovrebbero approvare le liste definitive: soli 12 giorni dopo è prevista la consegna presso le cancellerie dei Tribunali e delle Corti d’Appello, in vista delle prossime elezioni politiche.

  • Il giudizio sul governo Monti e la soddisfazione per la democrazia

    di Federico De Lucia

    Il Panel Elettorale CISE, sia ad aprile che a novembre, ha chiesto allo stesso gruppo di 1524 intervistati di esprimere un proprio giudizio sul governo Monti e sulla eventualità che esso si riproponga anche dopo le prossime elezioni politiche. Le risposte che essi hanno dato a novembre sono state abbastanza diverse da quelle date sette mesi prima. Vediamole (Tab.1 e Tab.2).

    Tab 1. Il giudizio sul Governo Monti

    Ad aprile gli intervistati che avevano espresso un parere abbastanza o molto positivo del governo Monti erano stati 619 su 1524, pari al 40,6%, mentre quelli che ne avevano espresso uno abbastanza o molto negativo erano 854, pari 56,1%. A novembre, all’interno dello stesso gruppo di 1524 intervistati, i soddisfatti sono diventati 731 (il 48%) e gli insoddisfatti 762 (il 50%). Pertanto, nell’arco degli ultimi sette mesi si è assistito ad un sensibile miglioramento dei giudizi sul governo.

    Tab. 2 Il giudizio sull’ipotesi di un nuovo Governo Monti dopo le prossime elezioni politiche

    Lo stesso vale per il giudizio che i nostri intervistati danno dell’ipotesi che un governo Monti rimanga in carica anche dopo le prossime elezioni politiche. In questo caso, i pareri positivi sono passati da 517 a 616, ovvero dal 33,9% al 40,5%. Quelli negativi sono diminuiti da 913 a 862, dal 60% al 55,7%.

    Al fine di meglio comprendere i cambiamenti registrati nelle risposte a queste due domande, le abbiamo disaggregate in base all’auto-collocazione sull’asse sinistra-destra e alla professione.

    Partendo dall’auto-collocazione, il miglioramento dei giudizi sul governo Monti (Tab.3) appare diffuso su tutto lo spettro politico: esso coinvolge in particolare, ed in modo molto più massiccio, le aree politiche che meno gli erano favorevoli ad aprile (la Destra e i non collocati), mentre i giudizi di coloro che già ne esprimevano di favorevoli sono migliorati in modo molto meno marcato. La Sinistra in particolare, viene raggiunta dal Centro nella percentuale di giudizi molto o abbastanza positivi.

    Tab.3 Il giudizio sul Governo Monti. Disaggregazione in base all’auto-collocazione sull’asse sinistra-destra

    Tab.4  Il giudizio sull’ipotesi di un nuovo Governo Monti dopo le prossime elezioni politiche. Disaggregazione in base all’auto-collocazione sull’asse sinistra-destra

    Lo stesso vale per la seconda domanda (Tab.4), quelle relativa al giudizio sulla prospettiva di un governo Monti futuro. Qui il dato è ancora più evidente: da aprile a novembre, i giudizi positivi sono rimasti sostanzialmente invariati nell’elettorato di Sinistra, mentre sono aumentati molto nelle altre tre aree politiche (specialmente nei non collocati).

    Per quanto riguarda invece lo status professionale, il giudizio sul governo Monti (Tab.5) migliora molto, ed in modo abbastanza diffuso, nelle varie categorie professionali. I miglioramenti maggiori si registrano nella borghesia, nel settore impiegatizio privato e fra i pensionati. Migliora molto anche la valutazione della classe operaia, che però resta, assieme a quella dei disoccupati, quella meno favorevole al governo. L’unica categoria che ha peggiorato il proprio giudizio è quella delle casalinghe.

    Tab.5 Il giudizio sul Governo Monti. Disaggregazione in base alla professione

    Tab.6  Il giudizio sull’ipotesi di un nuovo Governo Monti dopo le prossime elezioni politiche. Disaggregazione in base alla professione

    Sulla probabilità di un nuovo governo Monti (Tab.6), come detto, i giudizi positivi aumentano, ed aumentano all’interno di tutte le categorie professionali, con due eccezioni: gli studenti e gli impiegati del settore pubblico. Si tratta però di due categorie che ad aprile si esprimevano a favore di tale prospettiva in modo superiore alla media. Restano scettici su un ipotetico Monti bis i disoccupati, mentre l’altra categoria poco favorevole a tale scenario, gli operai, sono oggi rientrati in media con il giudizio complessivo.

    Ai nostri intervistati abbiamo anche chiesto di esprimere il proprio grado di soddisfazione sul funzionamento della democrazia italiana (Tab.7). In questo caso, e non appare certo una contraddizione rispetto all’incremento dei giudizi positivi sull’operato di un governo che rimane di natura tecnica, si registra un peggioramento delle valutazioni degli intervistati. Il numero di persone che si dichiara poco o per niente soddisfatto resta altissimo: era di 1297 su 1524 ad aprile, è di 1329 oggi. Si registra cioè persino un lieve incremento: dall’85,1% all’86,6% del totale. Ma la cosa ancora più grave è che all’interno di questo gruppo cresce significativamente la componente più radicalmente insoddisfatta: da 561 intervistati (il 36,8%) a 648 (il 42,5%).

    Tab. 7 La soddisfazione nel funzionamento della democrazia italiana

    Disaggregando tali risposte in base all’auto-collocazione (Tab. 8 ) si nota come tutto il lieve incremento del numero assoluto di insoddisfatti si concentri nell’ambito della Destra e dei non collocati. La radicalizzazione di tale insoddisfazione è invece un fenomeno che pare caratterizzare tutte le aree politiche, e dunque anche il Centro e la Sinistra.

    Tab. 8 La soddisfazione nel funzionamento della democrazia italiana. Disaggregazione in base all’auto-collocazione sull’asse sinistra-destra

    Per quanto riguarda invece la disaggregazione per status professionale (Tab. 9), si nota come sono in particolare due i settori in cui l’insoddisfazione aumenta rispetto ad aprile: i disoccupati ed in particolare gli studenti, che ormai raggiungono i livelli record di insoddisfazione di operai e casalinghe. In lievissima controtendenza rispetto all’incremento medio della insoddisfazione è il settore impiegatizio. Contrariamente a quanto si può dire per il settore pubblico, che già ad aprile era il meno insoddisfatto, per il settore privato è tale inversione di tendenza è certamente una novità.

    Tab. 9 La soddisfazione nel funzionamento della democrazia italiana. Disaggregazione in base alla professione

     

  • Primarie 2012: Bersani avanti ma costretto al ballottaggio. Renzi trionfa in Toscana.

    di Federico De Lucia e Matteo Cataldi

    Il primo turno delle primarie del centrosinistra ha confermato i risultati che i sondaggi avevano pronosticato. Bersani ha vinto su Renzi con un distacco piuttosto marcato (circa 9,5 punti percentuali), ma non è riuscito a strappare la vittoria al primo turno, fermandosi al 44,9% dei voti validi. Lo sfidante fiorentino ha ottenuto un buon 35,5%, mentre Vendola, annunciato già in terza posizione da tutte le rilevazioni in circolazione, si è fermato al 15,6%. I candidati minori, Puppato e Tabacci, hanno ottenuto le risicate percentuali residuali, inferiori al 3%.

    Le riflessioni interessanti che questi risultati implicano derivano dalla disaggregazione geografica del voto, evidenziata dalle mappe presentate in questo articolo.

    Figura 1. Percentuali di voto a Pier Luigi Bersani nelle 110 province italiane

     

    Le prestazioni migliori di Bersani si collocano tutte nel Centro-Sud (con l’eccezione della Puglia), nelle Isole, e in Emilia Romagna. Il segretario si difende poi bene in Lombardia e in Liguria. Si trova, invece, in qualche difficoltà in Veneto, in Piemonte, ma soprattutto nelle altre tre regioni della Zona Rossa.

    Figura 2. Percentuali di voto a Nichi Vendola nelle 110 province italiane

    Anche Vendola ottiene le sue migliori performance al Sud, con punte di particolare rilevanza nella sua Puglia e in Lazio. Al Nord ottiene tutto sommato percentuali in linea con la propria media nazionale, mentre è sottorappresentato nella zona rossa, dove la competizione si è molto bipolarizzata.

    Figura 3. Percentuali di voto a Matteo Renzi nelle 110 province italiane

     

    Ovviamente, Renzi ha una distribuzione territoriale inversa a quella di Bersani: male al Centro-Sud, dove deve affrontare anche la concorrenza agguerrita di Vendola. Al Nord, soprattutto in Piemonte, ed anche in Emilia Romagna ottiene ottime prestazioni, ma resta dietro a Bersani in tutte le Regioni. La sorpresa, per il sindaco fiorentino, sono le alte percentuali subappenniniche: in Toscana, Marche ed Umbria, è addirittura in testa. Nella sua Regione, addirittura con la maggioranza assoluta dei voti validi.

    Renzi è riuscito a prevalere su Bersani in 7 province settentrionali (Cuneo, Asti, Como, Lecco, Verona, Vicenza, Pordenone), oltre che a Perugia, in tre province marchigiane ed in ben 8 province toscane su 10 (Bersani si salva solo a Livorno e a Massa-Carrara). Vendola ha prevalso in tre province pugliesi (Bari, Brindisi e Lecce). Nel resto delle province ha prevalso Bersani.

    Il successo di Renzi nella parte meridionale della zona rossa è un dato estremamente significativo, che non può passare inosservato. In particolare, la vittoria toscana del sindaco è un vero e proprio trionfo, che va messo in relazione con il notevolissimo incremento della partecipazione che si è registrato in questa regione: 150.000 voti validi in più rispetto alle primarie del 2009, con un incremento del 52% dei voti validi registrati in tale tornata. Un dato impressionante, e assolutamente non comparabile con nessuna delle altre regioni italiane.

    Non può essere un caso che questo incremento straordinario si sia verificato nell’unica regione in cui Renzi ha ottenuto la maggioranza assoluta. In Toscana Renzi è riuscito a portare a votare persone che nel 2009 non si erano espresse. Questa operazione di mobilitazione gli è riuscita molto meno altrove. Non gli è riuscita al Sud, dove, in un contesto di partecipazione in calo, Bersani è riuscito a mantenere posizioni nettamente di vantaggio, anche grazie alle buone prestazioni di Vendola. Gli è riuscita solo parzialmente al Nord, dove ha ridotto ovunque il margine ma senza mai colmarlo interamente. Non gli è riuscita quasi affatto nella Regione di Bersani, l’Emilia Romagna, in un contesto culturalmente affine a quello toscano.

    Per il momento, è difficile dire che tipo di elettori siano quelli che Renzi è riuscito a mobilitare. Certamente il fatto che il fenomeno di cui stiamo parlando si sia verificato in Toscana in modo estremamente accentuato (il 20% del voto renziano è voto toscano, e in un Italia senza Toscana, Renzi avrebbe perso con quasi 14 punti di svantaggio) suggerisce alcune ipotesi interpretative. Una possibile causa potrebbe essere il particolare radicamento organizzativo che Renzi ha nella propria regione: ma questo fattore, per quanto certamente esistente, non sembra sufficiente. Pare difficile ipotizzare che, in un contesto molto campanilistico e con l’esplicita opposizione della stragrande maggioranza dei quadri locali del partito, il sindaco del capoluogo regionale sia riuscito nel compito di portare alle urne un tale quantitativo di votanti aggiuntivi, diffusi territorialmente in tutta la regione. Un’altra interpretazione possibile potrebbe essere quella contraria: il successo toscano di Renzi si spiegherebbe cioè proprio in contrapposizione alla classe dirigente locale, al potere da decenni. Contro il sistema di potere si sarebbe pertanto mobilitato un elettorato particolare, interessato principalmente, se non esclusivamente, a uno dei temi sui quali Renzi si è concentrato di più: quello del ricambio della classe dirigente. È evidente che ad un tema come questo sia molto più interessata una regione rossa rispetto alle altre. Per l’elettorato toscano Renzi avrebbe quindi costituito una prospettiva di voto abbastanza allettante: costringere il partito a rinnovarsi, continuando tuttavia a votarlo. In questo senso, non è affatto detto che l’elettorato aggiuntivo mobilitato da Renzi sia un elettorato di destra: potrebbe anche essere un elettorato di sinistra, ma non identificato o comunque lontano dall’apparato del partito.

    In Emilia Romagna la stessa cosa non si è verificata, forse perché in questo caso il candidato espressione della classe dirigente nazionale era anche espressione della classe dirigente locale, ed è stato pertanto sperimentato direttamente ed, evidentemente, ben valutato dai suoi concittadini.

    Ovviamente si tratta di ipotesi, derivanti semplicemente da una analisi superficiale della distribuzione territoriale dei dati aggregati: per avere un valore maggiore, esse andranno provate con dati di sondaggio che gettino una luce sulla natura dell’elettorato renziano. Quello che per ora possiamo dire è che il successo di Renzi, pur verificandosi anche in alcune zone del Nord, sembra trovare in Toscana una sua manifestazione particolarmente accentuata. Se è vera la chiave interpretativa qui esposta, esso potrebbe però dipendere da motivazioni prettamente locali e pertanto, in vista del ballottaggio, di difficile esportazione ad un livello territoriale nazionale.

    Nota:

    Il “taglio” delle classi delle percentuali di voto riportate nelle mappe è stato effettuato utilizzando il metodo Jenks Natural Breaks che riduce la varianza interna alle varie classi e massimizza quella esterna.

  • La battaglia è ancora aperta? Il profilo del 12% ancora indeciso

    di Federico De Lucia e Aldo Paparo

    Grazie al sondaggio CISE, siamo stati capaci di mostrare come le primarie del centrosinistra siano un’occasione di forte mobilitazione dell’elettorato. In un contesto di forte sfiducia nei confronti della classe politica, si tratta di un dato significativo. Ma il nostro sondaggio mostra anche un’altra cosa: pur mancando solo pochissimi giorni dal voto, non tutti hanno le idee chiare. In particolare, esistono 179 intervistati incerti su 1524 (l’11,7%). In questo articolo ci concentreremo su questo gruppo di rispondenti: un drappello di elettori ancora sul mercato, il cui voto potrebbe risultare determinante per ottenere la vittoria finale. In realtà, i tipi di incerti sono due: coloro che non hanno ancora deciso se andare a votare o meno; coloro che, pur avendo deciso di andare a votare, non hanno ancora deciso a favore di chi esprimersi.

    In primo luogo può essere interessante notare come l’elettorato in questione sia piuttosto eterogeneo dal punto di vista della collocazione politica (tab.1). Solo il 40% si definisce di centrosinistra, mentre il 31% afferma di essere di centro, il 12,6% di centrodestra e il 15,7% non si colloca. (https://www.newslive.com/) Più della metà degli intervistati ancora sul mercato afferma dunque di non appartenere all’area politica che si sta cimentando in questa competizione.

    Tab. 1. Profilo sociodemografico e politico degli indecisi, confronto con la popolazione.

    Per quanto riguarda il loro profilo generale, è molto significativo far notare come si tratti di elettori abbastanza periferici: fra loro, coloro che dichiarano di nutrire un basso interesse per la politica sono il 73,4%, mentre nella media della popolazione sono il 61,6%; coloro che dimostrano di avere una bassa conoscenza fattuale (cioè che non hanno risposto correttamente a nessuna o solo ad una su tre, delle domande di verifica che poniamo) sono ben l’80,4% del totale, contro il 57% della media dell’intero campione. Per quanto riguarda il titolo di studio, il numero di coloro che detengono un titolo inferiore alla licenza media superiore è simile a quella media del campione interamente considerato, ma al loro interno sono nettamente sovrarappresentati coloro che non hanno nessun titolo di studio o hanno solo la licenza elementare (23,1% contro il 15,3% medio del campione). Molto significativo poi notare come ben due terzi degli intervistati che si ritengono ancora sul mercato siano di sesso femminile.

    Può essere interessante cercare di capire quali siano le opinioni che i componenti di tale sottogruppo esprimono a proposito delle varie tematiche politicamente sensibili sulle quali li abbiamo sollecitati: questi sono i dati riportati nella tabella 2.

    Tab. 2. Posizioni sulle issues degli indecisi, confronto con la popolazione.

    Per quanto riguarda le tematiche di tipo “etico”, gli intervistati sul mercato mostrano un atteggiamento duplice: da una parte, si dimostrano più liberali della media nel concedere pari diritti alle coppie eterosessuali e a quelle omosessuali (i favorevoli sono il 66,6% contro il 61,9% medio del campione), nel concedere la cittadinanza immediata ai figli degli immigrati nati in Italia (78,9% contro il 74,3%), e nell’esprimersi favorevolmente alla regolamentazione della coppie di fatto (73,1% contro 63,9%); dall’altra, sembrano invece lievemente più conservatori della media sulle due tematiche più care all’elettorato cattolico, e cioè l’aborto (a dichiararsi favorevole ad una disciplina più restrittiva di tale pratica è il 48,8%, contro il 43,2% medio) e la nutrizione medicalmente assistita (ad esprimersi favorevolmente ad una legge che la imponga è 51,9%, contro il 47,4% medio del campione).

    Sulle tematiche di tipo economico, questi intervistati sembrano avere opinioni non proprio coerenti con quelle classiche dei partiti di centrosinistra: fra loro, si riscontra una maggiore disponibilità a rinunciare ai servizi sociali in cambio di una riduzione delle imposte (28,5% di favorevoli, contro il 18,5% medio), una maggiore ritrosia ad accettare maggiori tasse sui patrimoni superiori ad 1 milione di euro (79,8% di favorevoli, contro l’86,8%), ed un atteggiamento ancora più favorevole a quello medio in merito al federalismo fiscale (74,2% contro il 70,2%). Tali intervistati sono poi, se possibile, ancor più contrari alla delocalizzazione delle imprese di quanto non lo sia la media dei sondati (91,3% di contrari, rispetto all’87,8% medio). Sull’adesione dell’Italia all’UE e alla moneta unica, gli intervistati sul mercato si mostrano infine lievemente meno europeisti di quanto non lo siano gli intervistati in generale.

    Per quanto riguarda il rapporto che lega tali potenziali elettori ai partiti politici, è molto significativo notare come all’interno di questo gruppo di intervistati, da una parte, sia nettamente sovrarappresentata la categoria degli indecisi sul voto (i “non sa” e “non risponde” sono il 31,1% nel nostro sottogruppo, mentre nel campione complessivo sono il 15,4%), dall’altra,  sono molto sovrarappresentati coloro che dichiarano di non sentirsi vicino a nessun partito in particolare (ben il 65,6% contro il 51,4%).

    Tab. 3. Orientamento verso i partiti degli indecisi, confronto con la popolazione.

    Si tratta dunque di elettori piuttosto distanti dall’agone politico: non si sentono vicini a nessun partito e non hanno ancora deciso per chi votare alle prossime elezioni politiche. Eppure, valutano se partecipare alle primarie del centrosinistra: un segno evidente dell’attrattiva che quest’ultime esercitano anche al di fuori dei perimetri tradizionali.

    Infine è interessante concentrarci sulla domanda del sondaggio nella quale chiediamo agli elettori di esprimere una preferenza fra le coalizioni pre-elettorali e quelle post-elettorali, ed in particolare su come le risposte, per il nostro gruppo di elettori, siano cambiate rispetto al nostro sondaggio precedente, quello di aprile. Mentre per la popolazione in generale le cose sono rimaste sostanzialmente identiche (i favorevoli alle coalizioni pre-elettorali erano l’80,9% ed oggi sono l’81,9%), la stessa cosa non si può proprio dire per il sottogruppo di intervistati su cui ci stiamo concentrando qui: in questo caso, i favorevoli al fatto che le alleanze di governo debbano essere chiare già prima del voto sono aumentati, da aprile ad oggi, dal 74,6% all’85,1%, mentre sono scesi, quasi di pari misura, coloro che preferivano non esprimersi su questo punto. Quindi, se su molte cose non hanno ancora deciso, su questo pare che i nostri elettori sul mercato si siano fatti una idea molto chiara, e che se la siano fatta negli ultimi mesi. Il punto è a nostro avviso rilevante, perché si riferisce ad un tema che la campagna elettorale di queste primarie ha toccato in più momenti, con alcuni candidati apertamente possibilisti sull’eventualità di coalizioni post-elettorali con alcuni spezzoni del mondo moderato, ed altri candidati nettamente più scettici in merito a tale eventualità.

    Tab. 4. Variazione fra primavera e autunno dell’opinione degli indecisi circa le coalizioni (pre o post-elettorali), confronto con la popolazione.

    Insomma, se è vero che queste primarie stanno avendo successo proprio per la loro capacità di interessare segmenti di popolazione tradizionalmente distanti dalla politica in generale, e dalla politica di centrosinistra in particolare, è altrettanto vero che una parte di questi nuovi interessati non ha ancora le idee chiare. Si tratta di elettori (ma soprattutto di elettrici) piuttosto periferici, poco attratti dalle dinamiche politiche e distanti dai partiti, con opinioni non sempre coerenti con le posizioni proprie dello schieramento di centrosinistra, specie su alcune tematiche etiche e sulla quasi totalità di quelle economiche. Riuscire ad ottenere il loro voto potrebbe rivelarsi decisivo.

  • Elezioni regionali in Sicilia. Il voto di preferenza

    di Federico De Lucia

    Come risaputo, uno fra i principali fattori che contribuiscono a spiegare le dinamiche elettorali siciliane è il rapporto di tipo clientelare che lega l’elettorato isolano ai candidati di lista. Con questo intendiamo dire che, tradizionalmente, la maggior parte dell’elettorato siciliano si mobilita non in risposta a stimoli di natura ideologica o “d’opinione” ma in risposta a stimoli connessi al rapporto personale che detiene con i candidati ad occupare le cariche elettive. I candidati siciliani hanno sempre potuto contare su un radicamento territoriale molto profondo, che si è sempre tradotto in pacchetti di voti di preferenza incredibilmente costanti nel corso del tempo.

    Durante la Prima Repubblica questo sistema di raccolta del consenso si articolava all’interno dei partiti tradizionali, ed in particolare alcuni (quelli di governo) erano, nella sostanza, niente più che la somma dei pacchetti di voti clientelari dei loro candidati. La fine repentina di quel sistema politico ha provocato in Sicilia una sorta di esplosione della strutturazione clientelare, con i vari pacchetti di voti alla ricerca di una nuova collocazione. Per dare una idea di tale esplosione, si pensi che alle elezioni regionali nel 1996, le prime della Seconda Repubblica, le liste presentate furono addirittura 45! Nel corso del quindicennio successivo il sistema politico siciliano ha dato luogo ad una progressiva strutturazione, anche a seguito della introduzione, nel 2005, di una soglia del 5% . Da allora, prima di creare una nuova lista, le clientele devono avere una qualche speranza di mettere assieme pacchetti di voti sufficientemente corposi.

    In sintesi, con la Seconda Repubblica sono divenute evidenti alcune caratteristiche del sistema partitico siciliano che la paralisi cinquantennale precedente aveva in qualche modo occultato: la prima è che i pacchetti di voti seguono i candidati a prescindere dalla lista nella quale essi si collocano; la seconda è che, dato questo presupposto, più sono le liste, più sono numerosi i posti in lista disponibili per candidati alla ricerca di voti. Quindi, ai candidati clientelari conviene distribuirsi in più liste per incrementare il proprio bacino complessivo di voti e di seggi, a patto che tali liste superino le soglie. Frammentarsi, cioè, conviene, a patto di farlo con criterio.

    Questo il quadro generale, che spiega molte delle dinamiche elettorali isolane: diamo ora uno sguardo a ciò che è successo sotto questo versante nelle ultime tre tornate regionali. Nella Tabella 1 si riportano i voti complessivi di lista e di preferenza a livello isolano.

    Tabella 1

     

    Nel 2006 ben l’86% dei votanti le liste ha espresso un voto di preferenza: un dato molto alto, in linea con le tendenze locali del passato. Nel 2008 si è assistito ad un incremento notevole dell’affluenza rispetto al 2006 ma, contemporaneamente, ad una riduzione di coloro che hanno espresso un voto di preferenza: la conseguenza è che il tasso complessivo di preferenza è calato bruscamente al 71%. Nel 2012 invece il voto di lista si è contratto moltissimo, in coerenza con l’impressionante calo dell’affluenza. Anche i voti di preferenza si sono significativamente contratti, ma molto meno: il tasso complessivo è dunque tornato a livelli molto alti, l’83,5%.

    Quindi, da 6 anni a questa parte si è registrato un calo continuo del voto di preferenza in Sicilia, confermato sia quando l’affluenza aumenta (2008) sia quando diminuisce (2012). La conclusione logica cui si potrebbe giungere rimanendo a tale superficiale livello di analisi è che il tradizionale rapporto clientelare fra candidati ed elettori siciliani sta entrando in crisi. In realtà non è così e ce ne accorgiamo osservando i dati disaggregati per lista. Nella Tabella 2 riportiamo tali valori, relativamente ai soli partiti maggiori.

     Tabella 2

    Il dato è evidente: se si confrontano i dati 2006 e quelli 2012 l’impressione è esattamente opposta all’ipotesi che abbiamo appena formulato. Tutti i partiti rilevanti dell’isola aumentano il loro tasso di preferenza: è il 2008 a configurarsi come una tornata deviante ed eccentrica.

    Partiamo dal confronto fra il 2006 e il 2008. In quest’ultima occasione l’affluenza è aumentata significativamente perché si votava lo stesso giorno delle elezioni politiche: questo significa che si sono trovati a votare per le regionali elettori che tradizionalmente non si recano alle urne in corrispondenza di tale tipo di consultazioni. Tali elettori sono anomali rispetto a quelli usuali perché sono “elettori d’opinione” e pertanto esprimono molte meno preferenze. Ecco perché tutti i partiti, ma soprattutto quelli grandi, vedono un crollo dei tassi di preferenza rispetto a due anni prima. Ma come si è visto nella Tabella 1 , fra il 2006 e il 2008 si è registrato un calo anche assoluto di voti di preferenza, pur in presenza di un aumento di votanti: questo si spiega con le conseguenze che sul mercato dei voti di scambio ha prodotto, nel 2008, il debutto di Pd e Pdl come liste uniche (in Tabella 2, le voci di tali partiti nella colonna 2006, infatti, rappresentano l’aggregato di Ds-Margherita e Fi-An). Come si è detto, in un contesto clientelare la presentazione di due liste uniche invece di quattro è un fatto molto penalizzante: il dimezzamento dei posti in lista disponibili ha comportato che una buona parte degli elettori di quei partiti si sia trovata senza candidato di riferimento. A riprova di ciò, si noti come, togliendo nelle due elezioni in questione i dati di Pd e Pdl, i voti di preferenza complessivi al contrario aumentino nel 2008 rispetto al 2006.

    Passando al 2012, anche in questo caso si è registrato un notevole calo di voti di preferenza rispetto al 2006, e sarebbe stato ben difficile immaginare il contrario visto il contemporaneo crollo di 12 punti percentuali dell’affluenza alle urne. Come si è visto anche il tasso di preferenza complessivo è sceso, di circa 3 punti, ma i tassi disaggregati di tutti i più importanti partiti sono invece tornati a salire: e non solo rispetto al 2008, ma addirittura rispetto agli altissimi valori del 2006 (e a questo si aggiungano gli altissimi tassi di preferenza registrati da nuovi partiti come Cantiere Popolare, Fli e Grande Sud, tutti sopra il 95%). Pertanto si può dire che nella smobilitazione generale che ha caratterizzato il sistema partitico siciliano, ciò che resta in qualche modo strutturato sono proprio le clientele, e solo loro.

    E allora come mai il tasso di preferenza complessivo, dal 2006 al 2012 è calato dal 86,6 all’83,3? La ragione di questo è il successo del Movimento 5 Stelle, che è un partito diverso da quelli tradizionali sotto questo aspetto. Il suo tasso di preferenza, sebbene in crescita rispetto al 37,7 del 2008, si è mantenuto al 49,6%. Un dato molto basso rispetto a quello degli altri partiti, che si fa sentire sul valore regionale aggregato a causa dell’accresciuto peso elettorale del movimento di Grillo. Senza considerare il M5S, il tasso di preferenza siciliano del 2012 sarebbe stato l’89,5%, un dato medio veramente impressionante!

    Dunque, se è vero che il numero assoluto di voti di preferenza diminuisce costantemente dal 2006 ad oggi, le interpretazioni affrettate potrebbero rivelarsi erronee. Nel 2008 le preferenze sono diminuite a livello relativo (tassi di preferenza) solo per la eccezionale presenza alle urne di un elettorato diverso da quello consueto, e a livello assoluto solo per quanto riguarda Pd e Pdl, a causa delle conseguenze, nefaste dal punto di vista clientelare, del debutto elettorale delle loro liste uniche. Nel 2012, invece, le preferenze sono diminuite in valore assoluto solo perché il crollo della partecipazione al voto è stato veramente rimarchevole. In realtà, M5S a parte, esse costituiscono ancora, ed anzi sempre più, l’essenza dei partiti isolani, o meglio, di ciò che oggi ne rimane.

  • Potenziale elettorale dei partiti e auto-collocazione politica: ovvero, spostamenti e cadute sull’asse sinistra-destra.

    di Federico De Lucia e Nicola Maggini

    Una interessante prospettiva di analisi che forniscono i dati del sondaggio CISE-OP la otteniamo incrociando il potenziale elettorale dei partiti politici (di cui abbiamo dato una definizione in precedenti articoli) con l’auto-collocazione dell’intervistato sull’asse sinistra-destra. Come abbiamo visto in un altro articolo, il potenziale elettorale di tutti i maggiori partiti è sensibilmente diminuito negli scorsi dodici mesi. L’analisi che proponiamo in questa sede ci permette di verificare se, per i vari partiti, tali cali siano avvenuti uniformemente (oppure no) lungo l’asse sinistra-destra.

    Iniziamo dai partiti di centrodestra: Pdl e Lega Nord. Come si è visto, questi due partiti hanno subito un vero e proprio tracollo nel potenziale elettorale, con una mera differenza di tempistica: mentre le difficoltà del Pdl risalgono in particolare al periodo della fine del governo Berlusconi (dicembre 2011), quelle della Lega sono successive, e coincidono con l’emersione delle risultanze delle inchieste giudiziarie sul Carroccio (marzo-aprile 2012).

    Come mostra la Tabella 1, nel momento delle sue difficoltà più acute, il Pdl ha perso appeal soprattutto nell’area dello spettro politico di suo più tradizionale radicamento (centrodestra e destra), mentre tiene nella sua minoritaria componente elettorale centrista (forse soddisfatta del sostegno al governo Monti). Il successivo e meno significativo calo, quello di aprile, è invece maggiormente concentrato proprio in quest’area dell’elettorato. La Lega, invece, che in occasione della nostra ultima rilevazione subisce un vero e proprio dimezzamento del proprio potenziale elettorale, vede perdite piuttosto uniformi sull’asse sinistra-destra: sia nel proprio bacino elettorale più estremo, sia in quello più moderato, sia in quello non collocato.

    Passiamo al centrosinistra: in questo caso, come altrove si è già visto, le perdite di consensi le hanno avute principalmente Pd e Sel, e ciò è avvenuto in particolare in occasione della nostra ultima rilevazione. L’Idv ha invece mantenuto i propri livelli di potenziale elettorale, pur calando lievemente.

    La Tabella 2 mostra in modo abbastanza netto come le maggiori defezioni dei partiti di sinistra si registrino proprio nelle fasce di elettorato potenziale più estreme o identificate. Dopo aver confermato a dicembre 2011 i livelli dell’aprile precedente, ad aprile 2012 sia il Pd che Sel vedono un calo molto significativo nel potenziale elettorale fra gli intervistati di sinistra-centrosinistra. Per il Pd, inoltre, si può parlare di un vero e proprio spostamento al centro: nella seconda rilevazione si era registrato un sensibile incremento nel potenziale elettorale fra gli intervistati centristi; il favore di questi ultimi è stato sostanzialmente mantenuto anche nel successivo momento di calo complessivo, ed anzi appaiato da una non insignificante crescita di elettorato potenziale fra i non collocati. L’Idv, invece, limita le perdite,  forse anche grazie al fatto che tale partito è meno identificabile lungo l’asse sinistra-destra (si noti l’alta percentuale di centristi e non collocati presenti fra i suoi sostenitori): gli elettori di Di Pietro sono più sensibili ad altre tematiche, ed è forse proprio l’attenzione che l’Idv riserva loro a metterla al riparo dai crolli di consenso registrati dagli altri partiti.

    I partiti del Terzo Polo, infine, hanno evidenziato un calo costante ed uniforme nel loro potenziale elettorale negli ultimi dodici mesi: vediamo come esso si è articolato sull’asse sinistra-destra.

    È interessante notare come l’Udc e Fli abbiano seguito praticamente lo stesso percorso; ad aprile 2011 avevano una posizione assolutamente centrale: una lieve prevalenza di propensioni favorevoli fra gli elettori centristi, ma anche una buona ed equilibrata diffusione fra gli elettorati potenziali di sinistra e di destra. Questo stupisce, specie per un partito come Fli. Nel dicembre 2011 si spostano entrambi nettamente a destra, riempiendo in qualche modo lo spazio lasciato libero dal Pdl, in quel momento in nettissimo reflusso, e perdono una buona parte del proprio elettorato potenziale di centro e di centrosinistra. Nell’aprile 2012, infine, perdono i progressi fatti a destra nella precedente rilevazione, senza che a ciò corrisponda un’espansione in altre aree politiche dell’elettorato potenziale.

     

     

  • La crisi dei partiti italiani: dove sono andati i voti del 2008?

    di Federico De Lucia e Nicola Maggini

    Un altro modo per saggiare le difficoltà dei partiti italiani è sondare la propensione al voto (Propensity to vote, “ptv”) per un determinato partito limitatamente a coloro che lo avevano votato nel 2008. Ai cittadini intervistati viene chiesto di esprimere la probabilità di votare in futuro per ciascun partito, collocandola su una scala da zero a dieci – dove zero significa “per niente probabile” e dieci “molto probabile”. Riteniamo di poter affermare che la percentuale di intervistati che esprimono, per un determinato partito, una propensione al voto maggiore a 5, identifichino le massime potenzialità elettorali di quel partito sul totale dell’elettorato (astenuti inclusi, dunque). Si tratta cioè del potenziale elettorale del partito in questione ed è su questo che concentriamo la nostra analisi.

     Nella Figura seguente possiamo vedere quanta parte dell’elettorato 2008 delle varie forze politiche dichiara ancora oggi probabile un suo voto a favore di esse.

    È bene tenere presente che in questo caso l’informazione che ricaviamo è diversa da quella ottenuta in un precedente articolo: sappiamo cioè quanti, fra i propri elettori del 2008, i vari partiti hanno trattenuto nel loro bacino o hanno perduto, ma niente sappiamo sull’andamento complessivo del loro potenziale elettorale fra tutti gli intervistati.

    Tuttavia, il dato è veramente significativo e vale la pena metterlo in evidenza. Circa un terzo di coloro che nel 2008 avevano votato tutti e cinque i partiti che possiamo analizzare in questa sede (Fli e Sel nel 2008 non esistevano), oggi non fanno più parte del loro potenziale elettorale. Se questo, a prima vista, può sembrare non eclatante (quattro anni non sono pochi), si noti come la gran parte di questo calo si sia verificata solo negli ultimi dodici mesi: ad aprile 2011, a ben tre anni dalle ultime elezioni politiche, il potenziale elettorale dei due partiti allora al governo conservava ancora più dell’80% dei loro vecchi elettori (e si pensi che il Pdl aveva anche subito una scissione rispetto al 2008), e il potenziale di quelli all’opposizione conservava più del 70%. Oggi le cose sono diverse, e per alcuni partiti, sono cambiate in modo molto significativo.

    Il potenziale elettorale del Pdl, in dodici mesi, ha perso il 22% degli elettori 2008, ed oggi  ne conserva appena più della metà. La gran parte di tale calo si è verificata in occasione della perdita del governo del Paese. Per la Lega vale il discorso opposto: il Carroccio era riuscito a reggere bene alla fine del governo Berlusconi, ma ciò che non ha potuto la crisi di governo, hanno potuto le inchieste giudiziarie e i dissidi politici all’interno del partito.

    Ma non si tratta di un calo che riguarda i soli partiti del centrodestra: anche il Pd, dopo aver tenuto bene sino alla fine del 2011, ha subito un rapido e allarmante drenaggio nel proprio potenziale elettorale nei primi mesi del 2012. In questo caso, è verosimile che la ragione sia da rintracciarsi nel clima di disaffezione generale verso tutti i partiti.

    Per Udc e Idv il discorso è invece parzialmente diverso: questi due partiti mostrano, da una parte una percentuale di partenza già piuttosto bassa, e dall’altra, fluttuazioni abbastanza incoerenti, alternate ad andamenti piuttosto stabili. Pare di poter dire che in questi partiti, per motivi ovviamente diversi, sia in atto, e già da prima della nostra prima rilevazione, una sorta di riallineamento politico. Nel caso dell’Udc, tale riallineamento è solo l’ultimo di una lunga serie: molti degli elettori che aveva nel 2008 sono oggi usciti dal suo potenziale elettorale, ma questo senza che le percentuali di consenso complessive ne abbiamo sofferto in modo irrimediabile. Un fenomeno simile lo avevano mostrato i flussi elettorali per l’Udc fra le elezioni politiche del 2006 e quelle del 2008. Nella sostanza, si può dire che, anche grazie alla posizione centrista da lui occupata, le fluttuazioni politiche di Casini siano un gioco a somma 0: cioè che compensino regolarmente le inevitabili uscite con altrettanti ingressi. Anche l’elettorato potenziale dell’Idv è molto cambiato rispetto al suo elettorato “reale” del 2008, ma in questo caso la gran parte delle perdite sono avvenute prima del 2011 (probabilmente molto prima). Si tratta della necessaria conseguenza del fatto che la percentuale di consenso ottenuta dai dipietristi nel 2008 era dovuta in gran parte (almeno per la metà) ad un voto utile proveniente dalla sinistra radicale. È verosimile che una buona parte di questi consensi si sia ricollocata a sinistra, una volta riorganizzatasi tale area dello spettro  politico (si pensi alla nascita ed al consolidamento di Sel). L’Idv ha dunque forse perso quei voti, ma li ha più che compensati con altri elettori più moderati o comunque non collocati sull’asse sinistra-destra: i dipietristi probabilmente si sono cioè ricollocati con successo sul mercato elettorale.

  • Il crollo del potenziale elettorale dei partiti italiani

    di Federico De Lucia e Nicola Maggini

     

    Il fatto che la fiducia nei partiti da parte dei cittadini italiani sia molto bassa è un dato ormai acclarato: lo registrano tutte le rilevazioni demoscopiche e lo dimostrano inequivocabilmente i sempre più alti tassi di astensionismo. I dati del sondaggio CISE-OP ci offrono la possibilità di fornire una ulteriore conferma di questo fenomeno, attraverso lo studio della propensione al voto (Propensity to vote, “Ptv”). Ai cittadini intervistati viene chiesto di esprimere la probabilità di votare in futuro per ciascun partito, collocandola su una scala da zero a dieci – dove zero significa “per niente probabile” e dieci “molto probabile”. Riteniamo di poter affermare che la percentuale di intervistati che esprimono, per un determinato partito, una propensione al voto maggiore a 5, identifichino le massime potenzialità elettorali di quel partito sul totale dell’elettorato (astenuti inclusi, dunque). Si tratta cioè del potenziale elettorale del partito in questione.

    Nella figura seguente mostriamo il potenziale elettorale dei partiti italiani, per le tre rilevazioni demoscopiche effettuate dal CISE nel corso dell’ultimo anno.

    Il dato inequivocabile è che tutti e sette i partiti per cui abbiamo a disposizione i dati registrano un calo regolare e costante nel loro potenziale elettorale nelle tre rilevazioni in esame. Ovviamente ci sono delle differenze, ed in particolare esse riguardano le dimensioni e la tempistica della riduzione di consenso.

    I due partiti del Terzo Polo (Udc e Fli) registrano una discesa costante della propensione al voto, perdendo tre punti percentuali in ciascuno dei due semestri intercorsi fra le nostre rilevazioni.

    Il Pdl, in coerenza con le vicissitudini politiche degli ultimi mesi, subisce un calo di consenso di 5,6 punti percentuali a dicembre 2011, in parallelo con l’insediamento del governo Monti, mentre cala solo di 2,7 nel semestre successivo.

    Pd e Sel compiono esattamente il percorso inverso: mentre sembrano reggere nella rilevazione di dicembre, calano in modo più netto nella terza ondata. Il partito di Vendola in particolare, piuttosto sorprendentemente, perde addirittura sette punti percentuali nel  suo potenziale elettorale (un terzo del suo bacino complessivo).

    La Lega Nord compie una traiettoria simile, ma in questo caso essa è ampiamente spiegabile con lo scandalo giudiziario che l’ha riguardata negli ultimi mesi. Mentre fra aprile e dicembre 2011 si era registrato un calo di 3,6 punti nel suo potenziale elettorale, nel semestre successivo esso è stato di addirittura 8,4 punti. Il Carroccio passa bruscamente dal quarto al settimo posto nella classifica di gradimento dei nostri intervistati.

    L’unica eccezione a queste inequivocabili tendenze è costituita dall’Idv: il partito di Di Pietro perde anch’esso in entrambe le ultime rilevazioni, ma complessivamente solo 3 punti nel suo potenziale elettorale.  Si tratta di una calo estremamente più moderato rispetto a quello che registrano tutti gli altri partiti, e che trova una possibile giustificazione nella natura atipica dell’Idv, partito sempre disponibile a far proprie, e quindi a capitalizzare, alcune delle pulsioni antipolitiche in voga nel Paese in questi ultimi anni. Il fatto che il calo nel potenziale elettorale dell’Idv sia così contenuto è ancora più significativo dal momento  che su questo tema Di Pietro deve da pochi mesi fronteggiare un agguerrito concorrente come il Movimento 5 Stelle. (Diazepam)