Il M5s è il vero perdente delle regionali in Liguria. A dire il vero il fatto non può essere considerato una sorpresa. Con tutto quello che sta succedendo dentro il Movimento da mesi a questa parte sarebbe stato un miracolo se il risultato fosse stato diverso. I dati sono impietosi. A livello della intera regione alle politiche del 2022 aveva preso 93.413 voti, pari al 12,7% , in queste regionali si è fermato a 25.670 , il 4,6% E’ vero che l’affluenza è calata dal 64,2% al 46,0 %, ma la percentuale di voti del Movimento è diminuita molto di più. Infatti l’affluenza è calata del 28%, mentre i voti del Movimento sono scesi in percentuale del 64%.
Grazie alla analisi dei flussi elettorali fatta dal CISE per tutte le sezioni del comune di Genova è possibile fare un quadro preciso di dove sono andati a finire i voti persi dal Movimento. A Genova alle politiche del 2022 il partito. che una volta era di Grillo e che ora non si sa di chi sia, aveva preso 39.894 voti, il 14,7% . In queste regionali i voti di lista sono stati 11.928, il 5,5%. Come si vede nel grafico in pagina il 40,9% dei votanti del 2022 sono finiti nella astensione. Ma i dati ancora più interessanti sono altri. Il primo riguarda il flusso verso il Pd. A Genova il 26,1% di chi aveva votato alle politiche il Movimento ha votato Pd alle regionali. Questo non era scontato. Soprattutto in questa misura.
L’altro dato rilevante è che Bucci e il centro-destra non hanno beneficiato per nulla del crollo del Movimento. Non ci sono voti andati da quella parte . Una città e una elezione non consentono di trarre conclusioni certe. Ma ci sono altre indicazioni chiare che corroborano la tesi che l’attuale Movimento è ben diverso da quello del 2013 e del 2018. Allora era riuscito a essere un attore trasversale capace di attrarre voti da sinistra e da destra. Col tempo i voti di destra sono tornati a destra , chi da Salvini e chi dalla Meloni. Sono rimasti i voti di sinistra e ora una parte di questi hanno deciso di traslocare verso lidi meno conflittuali . Uno di questi è il Pd e l’altro è il cartello formato da Verdi e Sinistra.
E’ presumibile che questa tornata elettorale aggravi la crisi del Movimento. Soprattutto se il cattivo risultato in Liguria si riproducesse anche in Emilia-Romagna e Umbria dove si vota tra poche settimane. E questo è molto probabile. Reterebbe il Sud dove fino a oggi la fedeltà degli elettori pentastellati si è rivelata più solida che in altre zone del paese. Ma è difficile immaginare che questa base sudista possa durare nel tempo se il Movimento non risolverà la sua attuale crisi esistenziale. E se questo non succederà assisteremo a un cambiamento radicale dello schieramento di centro-sinistra che, oltre a beneficiare PD e AVS, potrebbe anche tradursi nella formazione di nuovi attori politici a caccia dei voti in libera uscita dal Movimento o alternativamente alla crescita di alcune di quelle formazioni, oggi minuscole, che gravitano in questa area dello spazio politico.
I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman alle 653 sezioni elettorali del comune di Genova. Abbiamo eliminato le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). Il valore dell’indice VR pari a 12,1.
Sarà il prezzo delle uova a decidere l’esito delle presidenziali USA ? Potrebbe essere così. E in fondo non sarebbe una grande novità. E’ un fatto ben noto che le elezioni USA sono da tempo profondamente influenzate dall’andamento della economia. It is the economy, stupid ! è l’espressione diventata proverbiale con cui si usa far riferimento al peso del fattore economico sul voto. Questa volta però siamo di fronte a un apparente paradosso. L’economia americana va bene. Ma gli americani non sono contenti. Quasi il 70 % pensa che il paese vada nella direzione sbagliata. Tutto ciò in un momento in cui l’ecomia cresce a tassi ben superiori a quelle di Germania, Giappone,Italia- Il Pil Usa è salito del +8,7% dai livelli prepandemici-la disoccupazione è ai minimi storici, il numero degli occupati segna un record:biden ha creato15 milioni di posti di lavoro contro i 6 milioni di Trump. La borsa di New York continua a macinare rialzi:dal 20 Gennaio 2021 data di insediamento del presidente Biden a giovedì scorso 24 ottobre, l’indice Dow Jones è salito del 50,7%, l’S&P500 del 35,7% e il Nasdaq del 51,9%. Eppure la percezione diffusa soprattutto tra le classi più deboli è che si stava meglio quattro anni fa quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump. Ed è qui che entra in gioco il prezzo delle uova. Agli elettori e alle elettrici che vanno a fare la spesa quotidianamente non interessano i dati macroeconomici che vengono utilizzati per dimostrare il successo della Bidenconomy. Per loro conta il prezzo dei beni essenziali come le uova per l’appunto. Una dozzina di uova costava $ 1,60 a Gennaio 2017, quando si è insediato Trump, a Settembre di questo anno è arrivato a costare $ 3,8 , più del doppio e ben più del tasso di inflazione registrato nel periodo. Quello che è successo al prezzo delle uova è successo al prezzo della pancetta ed altri beni dii largo consumo, compresa la benzina. Ed è successo al costo del denaro che ha inciso pesantemente sul costo dei mutui e dei debiti contratti con le carte di credito. La conseguenza è stata la riduzione del potere di acquisto delle classi più deboli. Una riduzione che non è stata al momento ancora compensata da un aumento dei salari che pure c’è stato, ma in misura insufficiente e non uniforme. E allora non c’è da sorprendersi se agli operai bianchi degli stati del Midwest che hanno da tempo abbandonato il partito democratico si stanno aggiungendo, come rivelano da tempo, anche pezzi dell’elettorato nero e ispanico. Anche per loro far quadrare i conti della spesa è diventato difficile. Insomma è un dato di fatto che l’inflazione è uno dei fattori che spinge il consenso verso Trump. Ed è difficile per la Harris controbattere che inflazione e tassi di interesse sono scesi e continuano a scendere, ma non è così per il livello dei prezzi dei beni essenziali. Il prezzo delle uova oggi è ancora ben superiore a quello dei tempi di Trump. Né serve l’argomento che il governo non ha responsabilità specifiche per una inflazione che è lo strascico della pandemia. Per una larga fetta dell’elettorato la loro colpa è di essersi trovati al potere quando il problema è scoppiato. Il fatto che il governo non avesse strumenti per gestirlo è irrilevante. Lo strumento era in mano alla banca centrale che ha aumentato il costo del denaro a livelli che non si vedevano da moltissimo tempo con le conseguenze politiche negative di cui abbiamo già detto. E anche questo viene addebitato a chi era al potere senza tener conto che il governo non può condizionare la banca centrale. It’s politics, stupid!
E poi c’è l’immigrazione, altro grave problema per la Harris e il partito democratico. Insieme alla inflazione il tema è in cima alle preoccupazioni dell’elettorato. I dati ufficiali, come si vede nella tabella in pagina, sono impietosi. Durante l’amministrazione Trump gli immigrati illegali non hanno mai superato i 150.000 ingressi mensili. Per la maggior parte del periodo sono stati meno di 50.000 e la media è stata largamente sotto le 100.000 unità. Durante gli anni di Biden la media degli ingressi si è alzata notevolmente fino a quando, a Giugno di questo anno, Biden si è deciso ad adottare una politica più restrittiva che ha drasticamente ridotto gli ingressi probabilmente anche grazie alla cooperazione del governo messicano. Troppo tardi però per far cambiare idea a tanti elettori per cui l’immigrazione è un problema cruciale. La credibilità non si può conquistare con repentini cambi di direzione, eseguiti tra l’altro dagli stessi leader che fino a ieri sostenevano una politica diversa.
Arrivati a questo punto la conclusione sembrerebbe scontata. In realtà lo è solo per gli scommettitori che danno Trump vincente con il 60 % di probabilità. I dati di sondaggio raccontano una altra storia. Che siano attendibili o meno lo scopriremo la notte del 5 Novembre. In passato non lo sono stati perché hanno sistematicamente sottovalutato Trump. Questa volta potrebbe essere il contrario. In questo momento la partita sembra ancora aperta e si giocherà in Nevada, Arizona, Georgia , North Carolina, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Sono questi i ‘magnifici sette’ che decideranno chi sarà il prossimo presidente USA. In questi sette stati la media aggiornata dei sondaggi calcolata da Real Clear Politics dà Trump davanti con margini un pochino più ampi nei primi quattro e meno ampi negli altri, quelli del Midwest. Se li conquistasse tutti, la sua vittoria sarebbe nettissima, come è stato nel 2016. Ma potrebbe succedere che Harris vinca in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, oltre che negli altri stati tradizionalmente democratici (vedi Sole 2 e 12 Aprile 2024). in questo caso arriverebbe a 269 seggi. Le mancherebbe un voto per diventare presidente. E questo potrebbe venire dal Nebraska, uno stato decisamente repubblicano. Questo è uno dei due stati (l’altro è il Maine) dove i seggi del collegio elettorale non vengono assegnati con un sistema completamente maggioritario. Quattro dei cinque seggi a disposizione andranno sicuramente a Trump. Ma il quinto seggio, quello della città di Omaha, la città di Warren Buffet , è possibile che vada alla Harris. Sarebbe un risultato clamoroso che creerebbe una situazione molto delicata in un paese profondamente diviso.
Il Fronte Repubblicano (FR) ha funzionato al di là delle aspettative e delle previsioni dei sondaggi. Dei 501 seggi in palio al secondo turno i partiti che ne fanno parte ne hanno vinti 360, il 72 %. Al Rassemblement National (RN) ne sono andati 105, il 21%, nonostante che dopo il primo turno i suoi candidati fossero in testa in 297 collegi. Dopo il primo turno sulle pagine del Sole24ore (2 Luglio) avevamo scritto che la partita sarebbe stata decisa da due fattori: la capacità di mobilitazione dei partiti e le seconde preferenze degli elettori. Il RN avrebbe potuto conquistare un largo successo solo se i suoi rivali non fossero stati capaciti di riportare a votare i propri elettori al secondo turno e/o se fosse riuscito ad allargare la sua base di consensi. Avrebbe dovuto farlo intercettando le seconde preferenze di quegli elettori che al secondo turno, in assenza dei loro candidati preferiti in assoluto, hanno dovuto esprimere una seconda scelta. Nessuna di queste condizioni si è verificata. Questo è il motivo sostanziale della sconfitta del Rassemblement.
In questo quadro colpisce soprattutto il fatto che milioni di elettori hanno consapevolmente scelto di esprimere una seconda preferenza invece di restare a casa. L’ affluenza elevata è stata decisiva. Come al primo turno, anche al secondo, hanno votato più del 66% degli elettori. Questo è il fenomeno che ha ‘condannato’ il Rassemblement. Ed è un segnale significativo perché rivela due aspetti della politica francese. Il primo è che il partito della Le Pen ha ancora della strada da fare per rendersi accettabile alla maggioranza dei francesi. Non basta essere la minoranza più ampia per vincere. Questo è bastato in Gran Bretagna a Starmer che, pur prendendo meno voti di Corbyn, ha ottenuto il 63% dei seggi con il 34 % dei voti perché i Conservatori si sono divisi. In Francia non è andata così.
Il secondo aspetto è la disponibilità di tanti elettori ad accettare un compromesso necessario per vitare un esito peggiore. Come si può spiegare diversamente il fatto che in decine di collegi, in cui si sono affrontati in uno scontro a due il candidato dello schieramento di Macron (Ensemble) e quello del partito della Le Pen, migliaia di elettori del Nuovo Fronte Popolare (NFP) sono andati a votare e hanno votato il primo ? Secondo un sondaggio di Ipsos Talan sarebbero stati il 72%. Discorso analogo vale per tutti quei collegi ( 146) in cui nello scontro diretto tra il candidato del NFP e quello del Rassemblement, gli elettori di Ensemble sono andati a votare e hanno votato il candidato della sinistra. E lo hanno fatto, secondo Ipsos Talan, con una percentuale pari al 43 % anche quando di sono trovati a dover votare un candidato della Francia Insoumise, il partito di sinistra radicale di Melenchon.
In breve la strategia del FR ha funzionato sia dal lato della offerta – la capacità dei partiti di coordinarsi e ritirare i loro candidati dove necessario- sia dal lato della domanda- la disponibilità degli elettori a votare una seconda volta ed esprimere una seconda preferenza. Come si vede dalla tabella in pagina il risultato finale ha visto da una parte la sovra-rappresentazione parlamentare dei partiti del FR, e in particolare di Ensemble, e dall’altra la sotto-rappresentazione del RN. Il confronto si deve fare utilizzando la percentuale dei voti del primo turno e la percentuale dei seggi del secondo. Complessivamente la disproporzionalità generata dal sistema elettorale nel caso francese è stata assai meno di quella che si è verificata in Gran Bretagna e che abbiamo citato sopra. Infatti il FR ha sì ottenuto il 68,4% dei seggi , ma con il 57,2 % dei voti. In Italia nel 2022 la coalizione della Meloni ha avuto alla Camera il 58,8% dei seggi con il 43,8 % dei voti.
Adesso però per il FR arriva il difficile. Con 395 seggi a disposizione in teoria non dovrebbe essere un problema formare un governo. Ma non è così. Il Fronte Repubblicano è una coalizione costruita contro, non una coalizione costruita a favore di qualcosa che non fosse impedire alla destra di vincere. Anzi, il Fronte non è nemmeno una coalizione. E’ una coalizione di coalizioni. Infatti al suo interno c’è la coalizione del Nuovo Fronte Popolare formata dalla Francia Insoumise, Comunisti, Socialisti e Ecologisti e quella ‘cosa’ che va sotto il nome di Ensemble che raccoglie varie fazioni del centro macroniano. In aggiunta, ma riluttanti, ci sono anche quei Repubblicani che hanno scelto di non allearsi con il RN. Le desistenze su cui si è fondato Il FR non sono la stessa cosa delle coalizioni pre-elettorali italiane della Seconda Repubblica. Il Fronte non si è presentato davanti agli elettori con candidati comuni, un programma di governo condiviso e l’indicazione di un candidato premier. Tra l’altro in diversi collegi si è presentato diviso. Nella sostanza è una coalizione posticcia, una coalizione ad hoc.
La domanda cruciale delle prossime ore (settimane, mesi ?) è se un Fronte così frammentato e eterogeneo riuscirà a trasformare il compromesso a livello elettorale in compromesso a livello di governo. In una Francia ormai tripolare in cui le elezioni non decidono più come una volta il governo del paese, il compromesso post-elettorale è diventato una necessità. Da questo punto di vista la Francia è diventata più simile alla Germania che alla Gran Bretagna o all’Italia. Ma è un compromesso difficile da realizzare tra tutti i partiti del FR. Sulla carta c’è una maggioranza, che va dai Repubblicani agli Ecologisti passando per Ensemble e il resuscitato Partito Socialista. Ma sarà difficile metterla insieme. Un candidato plausibile a guidarla potrebbe essere il leader dei Socialisti, quel Glucksmann che ne ha risollevato le sorti. Per lui però vorrebbe dire rompere l’accordo che ha dato vita al NFP e accettare una alleanza con i macronisti che, nonostante il relativo successo, restano invisi a tanti a sinistra come a destra.
Insomma per la Francia si apre una nuova fase su cui aleggia il fantasma della Quarta Repubblica, ma con un presidente che fa ancora parte della Quinta. Anche dopo questo voto resta un paese profondamente diviso.
Seggi conquistati dai vari schieramenti e var. percentuale rispetto a primo turno e precedenti elezioni legislative
Seggi conquistati dai partiti di centrosinistra in Francia nel 2024 e nelle precedenti elezioni
E ora vedremo quali sono le seconde preferenze dei francesi. Nonostante il successo al primo turno il partito della Le Pen non solo non è affatto certo che riesca ad avere la maggioranza assoluta, ma non è certa nemmeno la percentuale di seggi che alla fine otterrà. Tutto dipende appunto dalle seconde preferenze di milioni di elettori che al secondo turno, in assenza dei candidati che hanno votato al primo, andranno a votare e decideranno di farlo a favore di un candidato che per loro rappresenta una seconda scelta.
Cosa faranno gli elettori di Macron dovendo scegliere tra un candidato di sinistra e il candidato del Rassemblement ? O cosa faranno gli elettori di sinistra dovendo scegliere tra un candidato macronista e il candidato della destra ? Stessa domanda per gli elettori Repubblicani e così via. La risposta ci dirà molto sulla evoluzione della democrazia francese. Il tema della polarizzazione domina il dibattito pubblico e le analisi degli specialisti. Non c’è dubbio che sia così. Ma sarà il secondo turno di queste legislative a dirci fino a che punto questo è vero. Non è semplice per un elettore che ha votato il candidato preferito al primo turno scegliere di votare un candidato meno gradito o semplicemente meno sgradito di altri al secondo. Si tratta in ultima analisi di accettare un compromesso. E’ questa disponibilità al compromesso la chiave che consente ai sistemi democratici di funzionare anche in un contesto polarizzato. Ma non è scontata.
Il 7 Luglio si vedrà quanti elettori accetteranno il compromesso innanzitutto andando a votare. L’affluenza al primo turno è stata elevata, il 66,7%. Se lo fosse anche al secondo sarebbe un primo segnale importante. L’altro segnale sarà vedere la risposta degli elettori alla domanda formulata sopra. In questo caso il dato da notare sarà naturalmente il risultato del Rassemblement. In primo luogo la sua capacità di riportare a votare i suoi elettori. In secondo luogo la sua capacità di intercettare le seconde preferenze di quelli che non lo hanno votato il 30 Giugno. La prima condizione è necessaria per vincere. Potrebbe essere anche sufficiente, se ci fosse una smobilitazione dei rivali. Se questo non succederà, per essere certo di ottenere un grande risultato, il Rassemblement deve soddisfare la seconda condizione: conquistare una quota significativa di nuovi elettori, cioè di seconde preferenze. E visto che il partito di estrema destra di Zemmour, Reconquête! , è andato male (lo 0,7% contro il 5,5% delle elezioni europee) questi voti devono necessariamente venire dai partiti alla sua sinistra. E qui torniamo alla domanda posta sopra: quanti elettori del Nuovo Fronte Popolare, del partito di Macron, dei Repubblicani e così via saranno disposti a esprimere una seconda preferenza per il candidato del Rassemblement al secondo turno ?
Se questo avverrà vorrà dire che la Francia è veramente cambiata e che la strategia del Fronte Repubblicano-tutti o quasi contro il Rassemblement.- non funziona più. Questa strategia dovrebbe trovare la sua applicazione immediata negli accordi di desistenza che dovrebbero essere negoziati nelle prossime ore tra tutte le forze interessate a fermare l’avanzata del Rassemblement. Infatti una delle novità di queste elezioni è il numero elevato di collegi in cui i candidati passati al secondo turno sono tre (o addirittura quattro) e non due. Questa volta le cosiddette ‘triangolazioni’ sono ben 311.
Va da sé che in una corsa a tre il Rassemblement sarebbe avvantaggiato, essendo la minoranza più ampia. Pare che questo non avverrà. Pare che il Fronte repubblicano presenterà un candidato unico nella maggior parte dei collegi ‘triangolari’. E pare che nella maggior parte dei casi i partiti esclusi dal secondo turno daranno indicazione ai loro elettori di votare contro il candidato del Rassemblement. Se la strategia funzionerà, al partito della Le Pen verrà negata la maggioranza assoluta e forse anche una consistente maggioranza relativa. Ma non è detto che questa volta la strategia funzioni. Tanti elettori potrebbero non andare a votare piuttosto che votare un candidato sgradito pur di non far vincere il candidato della destra. Anche questa è una seconda preferenza. E in questo caso il Rassemblement potrebbe vincere anche senza intercettare altre preferenze ma semplicemente contando sui suoi elettori e sulla divisione degli altri. Si vedrà il 7 Luglio.
Se si votasse oggi è molto probabile che Donald Trump diventerebbe di nuovo presidente degli Stati Uniti. Un caso unico nella storia americana: nessuno è mai tornato alla Casa Bianca quattro anni dopo averla persa. Trump sarebbe l’unico presidente rieletto dopo non essere stato riconfermato. All’indomani dell’assalto al Congresso il 6 Gennaio 2021 chi avrebbe potuto immaginare un esito del genere? Eppure, salvo soprese dell’ultima ora che sanno molto di wishful thinking, le elezioni del Novembre 2024 saranno una replica di quelle del Novembre 2020. E questo nonostante l’età di Biden e i processi di Trump. Perché? La risposta va cercata esplorando due dimensioni di analisi: quella istituzionale e quella elettorale.
Come si vincono le elezioni americane: la roulette del collegio
elettorale
Gli Usa sono un sistema presidenziale ma a differenza di altri sistemi presidenziali gli elettori non scelgono direttamente il presidente. È all’interno del collegio elettorale che si decide l’elezione. I 538 seggi di questo collegio sono divisi tra i 50 stati più il distretto di Columbia sostanzialmente in base alla popolazione. L’elezione avviene stato per stato. Tranne che nel Nebraska e nel Maine, in ciascuno stato tutti i seggi vengono assegnati al candidato che ottiene un voto più degli altri. Vince chi prende 270 seggi. Si può diventare presidente, come è stato il caso di Trump nel 2016 e di Bush nel 2000, senza avere la maggioranza del voto popolare ma solo la maggioranza dei voti nel collegio elettorale. Dunque è il collegio l’istituzione decisiva per l’elezione del presidente. È qui dentro che va cercata una parte della spiegazione della vittoria di Trump nel 2016, della sua sconfitta nel 2020 e di una sua possibile vittoria nel 2024. Ma all’interno del collegio non tutti gli stati sono decisivi.
Una
delle caratteristiche rilevanti della politica americana è che, nel tempo e
soprattutto negli ultimi trenta anni, il partito democratico e quello
repubblicano hanno messo solidi radici in zone diverse del paese. A livello di
collegio elettorale questo vuol dire che molti stati sono semplicemente non
competitivi. In molti stati prevalgono i repubblicani, in altri i democratici.
Poi ci sono pochi stati dove non prevale nessuno: sono gli ‘swing states’, gli
stati ballerini. Come si vede nella mappa delle ultime quattro elezioni
presidenziali gli stati della costa occidentale e quelli del Nord-Est (gli
stati del New England) sono gli stati blu, il colore del partito democratico.
Gli stati del Sud e la grande maggioranza di quelli che si collocano tra il
fiume Mississippi e la costa occidentale sono rossi, il colore del partito
repubblicano. Negli ultimi anni questa
suddivisione è rimasta straordinariamente stabile. I cambiamenti sono stati pochi.
A ovest del Mississippi, solo l’Arizona ha cambiato colore nelle ultime quattro
elezioni. Nel Sud, la Florida è passata nel campo degli stati rossi mentre in
Georgia e in North Carolina il partito democratico ha cominciato ad erodere il
vantaggio storico dei repubblicani. Non è un caso che Biden abbia vinto in
Georgia nel 2020, ma per pochissimi voti
Dal conteggio restano fuori gli stati di quella che una volta era la rust belt, il cuore industriale del paese. Sono gli stati del Mid-West: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin, Minnesota, Indiana, Illinois. Una volta erano una delle roccaforti del partito democratico. Oggi non è più così. Buona parte della classe operaia ha abbandonato il partito democratico. Non diversamente da quanto è successo in Europa i ceti colpiti dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione si sono spostati a destra. Oggi solo il Minnesota e l’Illinois possono essere considerati stati democratici. Gli altri o sono diventati stati rossi, come l’Ohio e l’Indiana, o sono diventati stati ballerini come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.
Ed è proprio in questi tre stati che si sono decise le elezioni del 2016 a favore di Trump e quelle del 2020 a favore di Biden. Se Hillary Clinton avesse vinto in questi tre stati sarebbe diventata presidente. Se Biden avesse perso in questi tre stati, pur vincendo in Georgia e Arizona, non sarebbe diventato presidente. Molto probabilmente chi vincerà in questi tre stati sarà presidente il prossimo novembre.
È tale l’equilibrio tra democratici e repubblicani
all’interno del collegio elettorale che il suo funzionamento è diventato una
specie di roulette. Infatti le ultime due elezioni sono state decise da
pochissimi voti. Nel 2016 Trump ha vinto in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania con
uno scarto di meno dell’1%. Complessivamente sono stati 77.744 voti su 136,6
milioni a fare la differenza. Nel 2020 circa 44.000 (su oltre 150 milioni) in
Wisconsin, Arizona e Georgia hanno deciso l’elezione a favore di Biden. Senza questi
voti, e quindi senza questi stati, Biden non sarebbe oggi alla Casa Bianca. Di
questi tempi la pallina della roulette è
la metafora che più si addice alle elezioni americane. O per dirla in
inglese, sono ‘the roll of the dice’.
Donald Trump non è un accidente della storia
Il collegio elettorale fa parte della dimensione istituzionale della politica americana. Il suo funzionamento spiega molto di quanto è successo negli USA negli ultimi anni ma non spiega tutto. Tra l’altro ci sono altri meccanismi istituzionali che andrebbero presi in considerazione, dal ruolo delle primarie a quello del denaro, dei media , delle lobbies e così via. Ma è la dimensione elettorale che ci interessa qui. E questa si riduce a una domanda che è centrale al nostro ragionamento: perché 62,9 milioni di cittadini americani hanno votato Trump nel 2016, 74,2 milioni lo hanno votato nel 2020 e più o meno lo stesso numero lo voterà nel 2024 ? Che Trump vinca o perda è ovviamente importante, ma è altrettanto importante capire perché tanti milioni di americani hanno votato e continuano a votare per una figura politica così diversa, così poco convenzionale, così straordinaria nel senso letterale del termine.
Trump non è un accidente della storia. È il risultato di un mutamento profondo della economia e della società americana. Negli ultimi trenta anni si sono manifestati diversi segnali di questo mutamento. Dal 19% dei voti conquistati da Ross Perot alle presidenziali del 1992, alla formazione da parte di Perot del Partito della Riforma con cui ha flirtato lo stesso Trump , alla elezione di Jesse Ventura, un lottatore professionista, a governatore del Minnesota con l’etichetta del partito di Perot, all’ascesa di Newt Gingrich alla presidenza della Camera e soprattutto all’organizzazione del Tea Party.
Il
fenomeno Trump è il prodotto di questo mutamento, oltre che del funzionamento
dei meccanismi istituzionali peculiari del sistema politico USA e delle
contingenze del momento. Ma in che cosa consiste questo mutamento , a cosa è dovuto e quali
effetti ha prodotto? La questione non
riguarda solo gli Usa. In Europa, in un contesto istituzionale completamente
diverso, è avvenuta la stessa cosa. In sintesi, e prima di approfondire, si può
affermare che sono cambiate le basi della politica democratica. E questo lo si
deve a due fattori principali: la globalizzazione e la digitalizzazione.
L’apertura dei mercati e soprattutto la rivoluzione tecnologica hanno
trasformato la struttura del mercato del lavoro e in generale dell’economia
americana, hanno prodotto una rilevante redistribuzione del reddito con un forte
aumento delle disuguaglianze e un
indebolimento della classe media. A questo si deve aggiungere la radicale
trasformazione della comunicazione, ivi compresa quella politica. Internet ha
cambiato il mondo producendo effetti che a differenza di quelli prodotti dalla
globalizzazione non sono stati contestati. La rivoluzione non è finita.
Continua con una velocità tale da rendere difficile la gestione dei suoi
effetti nel breve periodo. Non c’è dubbio che i nuovi sviluppi nel campo della
intelligenza artificiale sono destinati a produrre altri effetti dirompenti sul
mercato del lavoro e nella distribuzione del reddito.
I grafici che presentiamo qui danno un’idea parziale di
questo mutamento. Fanno vedere la trasformazione del mercato del lavoro nel
quale sono cresciuti i posti di lavoro che richiedono competenze elevate e quelli
che richiedono basse o scarse, e sono spariti quelli che richiedono competenze
di medio livello. In questa trasformazione è la classe media a pagare il prezzo
più elevato del cambiamento. Quella classe su cui da sempre si è basata la
stabilità del sistema politico americano e non solo. Allo stesso modo vanno
letti i dati sulla dissociazione tra l’aumento della produttività e quello del
reddito delle famiglie. Non tutti hanno beneficiato allo stesso modo dalla
rivoluzione tecnologica. Per di più, non solo i ceti bassi e medi hanno guadagnato
relativamente meno ma il loro potere d’acquisto, e la loro capacità di
risparmio, si sono ridotti perché il prezzo di molti beni e servizi, come la
casa, la scuola e l’assistenza sanitaria, sono aumentati più dei loro redditi.
La polarizzazione del mercato del
lavoro: cambiamento in punti percentuali
dell’impiego complessivo di diverse tipologie di lavori
Un cambiamento di questa entità non poteva restare senza effetti politici. Questi si sono progressivamente manifestati come risentimento, paura e infine rigetto delle classi dirigenti tradizionali che si è tradotto in rabbia e voglia di rottura. Il dato sulla crescente sfiducia nel governo parla chiaro. Il fenomeno Trump nasce in questo contesto e in questo clima. I suoi elettori vogliono tornare ad avere ‘un posto a tavola’.
Ma chi sono gli elettori di Trump ? Il nocciolo duro, inattaccabile da chiunque come si è visto nelle recenti primarie del partito repubblicano, sono i membri di quella specie di setta che va sotto il nome di MAGA, i cultori del Make American Great Again. Sono questi, in gran parte eredi del Tea Party, che gli hanno fatto vincere le primarie nel 2016, nel 2020 e nel 2024. Ma solo con questi elettori Trump non avrebbe vinto la presidenza nel 2016 e non potrebbe sperare di vincerla questo novembre. Accanto ai MAGA ci sono gli altri.
La coalizione elettorale di Trump non è una coalizione di
alieni, come a volte si legge su certi media. Non è fatta solo di Maga, di
minatori del West Virginia, di lavoratori dell’acciaio dell’Indiana, di operai
del Michigan o di agricoltori del Kansas. Come si vede nel grafico successivo
si differenzia certamente da quella di Biden, ma è comunque un caleidoscopio
della società americana. È vero che ci sono meno giovani, meno persone con un
livello di istruzione universitaria, meno abitanti dei centri urbani e dei
quartieri suburbani, meno elettori appartenenti a minoranze etniche. Ed è
altrettanto vero che ci sono più bianchi e più elettori anziani. Ma è anche vero, come risulta dal sondaggio del Pew
Research Center fatto a gennaio di questo anno, che il 42% dei laureati, il 38
% degli ispanici e anche il 35% dei giovani tra i 18 e i 29 anni dichiara di preferire Trump a Biden.
È una coalizione diversificata tenuta insieme dalla voglia di cambiamento che ognuna delle sue componenti declina in modo diverso. C’è chi vuole la riduzione delle tasse, chi l’abolizione dell’aborto, chi la chiusura delle frontiere, chi l’aumento dei dazi doganali, chi il ritorno ad una posizione isolazionista in politica estera, chi la revisione dei programmi scolastici nelle scuole pubbliche e così via. Tanti di questi elettori si comportano in modo da votare solo e soltanto in base alla questione che gli sta più a cuore. Sono elettori lessicografici. Gli importa una cosa e non tengono conto della posizione dei candidati su altre questioni per loro meno importanti. E vedono in Trump il leader più credibile per dare una risposta a quello che gli sta veramente a cuore. In questo Trump è stato e continua ad essere molto abile.
Il cambiamento della società americana è un processo di lungo periodo. Trump è riuscito a vincere le elezioni del 2016 perché è stato quello che ne ha capito prima e meglio la portata e gli effetti. Ma non avrebbe vinto quelle elezioni e non potrebbe vincere a novembre se accanto ai fattori di lungo periodo che hanno plasmato un contesto a lui favorevole non si associano le contingenze del momento. Infatti è dalla interazione tra fattori strutturali e fattori contingenti che scaturiscono i risultati elettorali. Tra questi ultimi la personalità dei candidati in competizione ha naturalmente un ruolo rilevante. Nel 2016 è stata Hillary Clinton con i suoi limiti personali e i suoi errori in campagna elettorale a favorire la vittoria di Trump. Questo anno è Biden a prendere il posto della Clinton.
I problemi di Biden
A dispetto dei meriti che molti gli attribuiscono Joe Biden è uno dei presidenti più impopolari della storia americana. Oggi, come di vede nel grafico sopra solo il 33% degli elettori approva il suo operato. Non è sempre stato così. Al momento della sua inaugurazione a gennaio 2021 il suo gradimento era sopra il 50%. Ad agosto di quell’anno è precipitato sotto quella soglia e lì è rimasto fino ad oggi. Quel che è peggio per lui è che anche gli afroamericani, gli ispanici e i giovani, che sono componenti essenziali della sua base elettorale, esprimono un giudizio negativo. L’inizio della discesa coincide con la disastrosa ritirata delle ultime truppe USA da Kabul che a tanti elettori ha ricordato un altro evento drammatico, e umiliante e cioè la fuga da Saigon. Ma questo evento non spiega a fondo un livello di gradimento così persistentemente basso. Ci sono altri fattori in gioco.
Sono tre i maggiori problemi di Biden: l’economia, l’immigrazione e l’età. L’economia rappresenta un paradosso. Guardando alla crescita del PIL, al tasso di disoccupazione che è ai minimi storici, ai salari che dopo anni di stagnazione hanno ripreso a crescere la conclusione dovrebbe essere che lo stato della economia giochi a favore del presidente uscente. E invece non è così. Da un recente sondaggio della CBS risulta che solo il 38% degli americani pensa che oggi l’economia vada bene mentre il 65% pensa che andasse bene ai tempi di Trump. Perché il 59% degli intervistati giudica negativamente lo stato dell’economia nonostante il fatto che i dati oggettivi dicono il contrario?
In realtà il paradosso è solo apparente. Infatti una cosa sono i dati macroeconomici e una altra cosa sono i dati micro che interessano gli elettori che fanno la spesa. Biden paga lo scotto di una inflazione che ha fatto lievitare il prezzo delle uova, del bacon, della benzina tanto per citare alcuni dei beni che incidono sul tenore di vita delle famiglie americane. È vero che l’inflazione è scesa negli ultimi mesi ma i prezzi no. Non solo. Gli americani sono un popolo di debitori. La crescita dei tassi di interesse negli anni della amministrazione Biden pesa come un macigno sulle rate dei mutui ipotecari e sugli interessi pagati sui debiti contratti con le carte di credito. La discesa del costo del denaro annunciata dalla Federal Reserve per i prossimi mesi dovrebbe favorire Biden ma per ora agli annunci non seguiti i tagli ai tassi e gli ultimi dati sull’andamento della inflazione non sono positivi.
L’immigrazione è un altro grosso problema per Biden. Dopo l’economia è questa la questione che sta più a cuore agli elettori, anche perché negli ultimi due anni il flusso di immigrati al confine con il Messico è molto aumentato. E anche su questo tema Biden non è ben posizionato rispetto a Trump. È di nuovo il sondaggio del Pew Research Center a rivelare che non solo l’89% degli elettori repubblicani pensano che Biden abbia gestito male il fenomeno migratorio, ma la stessa cosa dice anche il 73 % degli elettori democratici.
E poi
c’è la questione dell’età del presidente. Il fatto è che, indipendentemente dal
suo effettivo stato di salute che solo lui e i suoi medici conoscono, è
largamente diffusa l’opinione che Biden sia troppo vecchio. Non è che Trump sia molto
più giovane, ma la percezione è che stia
meglio di Biden, che se fosse rieletto sarebbe il più anziano presidente nella
storia del paese. Su questo i dati dell’ultimo sondaggio del New York Times
sono impietosi. Il 45 % degli elettori pensa che Biden sia addirittura incapace
di fare il presidente contro il 19% che pensa la stessa cosa di Trump. Non sono solo gli elettori
repubblicani a pensarlo, ma anche una buona fetta di quelli democratici.
Insomma il problema esiste e persisterà durante tutta la campagna elettorale.
Sarà interessante vedere come Biden lo affronterà. Reagan a suo tempo ci riuscì
brillantemente, ma anche lui era più giovane di Biden.
Non tutto è ancora deciso
I dati che abbiamo presentato non lasciano dubbi
sul fatto che oggi Trump sia in netto vantaggio nella corsa alla presidenza. Lo
è anche negli stati dove si giocherà veramente l’elezione. E così torniamo da
dove siamo partiti, e cioè al collegio elettorale. Oltre a Michigan, Wisconsin
e Pennsylvania alla luce delle tendenze degli ultimi anni possiamo includere
nella categoria degli stati ballerini anche Nevada, Arizona, Georgia e North
Carolina. Gli ultimi sondaggi disponibili, pubblicati da Real Clear Politics, fanno vedere che solo in Pennsylvania Biden è
in vantaggio. Brutta notizia per lui, ma in fondo questo dato conta
relativamente poco in questo momento, visto che la campagna elettorale è appena iniziata. E in
un una situazione di sostanziale equilibrio la campagna elettorale può fare la
differenza. Soprattutto se Biden riuscirà a mobilitare quei settori della sua
base elettorale che oggi sembrano in preda alla delusione e allo scoramento.
Come in tutte le elezioni, riuscire a
portare a votare i propri elettori è una condizione necessaria del successo.
Biden ci è riuscito nel 2020 e il partito democratico ci è riuscito nelle
elezioni di medio termine del 2018 e del 2022. Oggi non è chiaro se ci riuscirà
a novembre di questo anno.
Trump dunque è in vantaggio ma per Biden esiste un
sentiero percorribile per vincere. È un sentiero stretto, ma esiste. Ed è lo
stesso Trump a tenerlo aperto. Abbiamo parlato della impopolarità di Biden come
un fattore che gioca a favore di Trump ma è vero anche che l’impopolarità di
Trump gioca a favore di Biden. A novembre gli elettori americani si troveranno
a scegliere tra due candidati che la maggioranza di loro giudica sgraditi.
Nonostante i dati che abbiamo mostrato Trump resta
un candidato debole. Non si spiega altrimenti che il suo gradimento sia così
basso. La competizione quindi non è tra
un candidato debole, Biden, e un candidato forte, Trump. È tra due candidati
deboli. Le loro rispettive debolezze saranno il tema centrale della campagna
elettorale. Si vedrà chi dei due riuscirà a sfruttarle meglio negli stati che
contano. Perché alla fine, come abbiamo detto più volte, è assai probabile che
l’elezione verrà decisa ancora una volta in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.
Il Michigan in particolare potrebbe essere
decisivo. Il Michigan è il nuovo Ohio. In questo stato, oltre al problema di
una classe operaia sempre più spostata a destra, Biden ha davanti a sé un altro
problema, quello dei 200.000 arabi palestinesi che giudicano molto
negativamente la sua politica sulla questione di Gaza. Lo considerano troppo
filo-israeliano. Senza questi voti Biden non può vincere in Michigan e se non
vince lì dovrebbe vincere in Georgia oppure in più d’uno tra gli altri stati
ballerini dell’Ovest e del Sud. E questa sembra oggi una impresa ancora più
difficile.
Chiudiamo con due osservazioni che completano il
quadro di queste elezioni. La prima ha a che vedere con i candidati terzi,
quelli che noi chiamiamo terzi poli. In questa elezione, come in quella del
2016, ci saranno altri candidati con un certo appeal oltre a Trump e Biden. Allora
raccolsero più di sette milioni di voti che quattro anni dopo
diventarono meno di tre. È molto probabile che in queste elezioni proprio lo
scarso gradimento dei candidati dei due partiti storici spinga una quota
consistente di elettori a votare per uno dei candidati minori. Tra questi
spicca il nome di Robert F. Kennedy Jr.,
figlio del fratello di John. Dopo aver tentato di sfidare Biden nelle primarie
del partito democratico ha deciso di puntare alla Casa Bianca come
indipendente. Lui e gli altri candidati terzi rappresentano un ulteriore
fattore di incertezza in questa tornata elettorale. Negli stati chiave
potrebbero fare la differenza. Non è ancora chiaro a favore di chi.
L’ultima considerazione riguarda le elezioni del
Congresso. Oggi come è noto Camera e Senato hanno maggioranze diverse: la
Camera repubblicana, il Senato democratico. A novembre verranno rinnovati
l’intera Camera e un terzo del Senato. A rischiare di più sono i democratici al
Senato perché sono numerosi i seggi in cui la partita è molto incerta. Uno di
questi seggi, quello del senatore Manchin del West Virginia, può già
considerarsi perso. E con ciò anche vincessero tutti i loro attuali seggi
finirebbe 50 a 50 e il voto decisivo sarebbe quello del vice-presidente. Per
questo uno degli scenari possibili è che in caso di vittoria di Trump entrambi
i rami del Congresso siano controllati dai repubblicani. Si verificherebbe il
caso, diventato raro nella politica americana, di un governo unificato: lo
stesso partito che controlla presidenza e congresso. A chi legge il compito di
immaginare le conseguenze sul piano della politica interna americana e su
quello della politica internazionale.
Il campo largo non ha fatto il miracolo. Sulla carta, ma solo sulla carta, i numeri per vincere in Abruzzo c’erano. Nelle elezioni politiche del 2022 la somma dei partiti di centro-sinistra che si sono presentati uniti a sostenere D’Amico aveva preso il 46,7% dei voti contro il 47,7% della coalizione di centro-destra. Anche il confronto con le regionali del 2019 mostra che i due schieramenti erano equivalenti: 49,2% il centro-destra e 50,3% il centro-sinistra. Come si spiega allora che l’esito di queste elezioni sia stato diverso da quello in Sardegna? Diversi fattori fanno la differenza. In Sardegna il centro-destra aveva trovato una finta unità intorno al proprio candidato. L’elezione era stata preceduta da forti dissapori all’interno della coalizione che si sono manifestati al momento del voto. E già il fatto che il governatore uscente non sia stato ricandidato e al suo posto sia stato presentato un candidato poco gradito ha favorito significative defezioni nelle urne che la possibilità di esprimere un voto disgiunto ha amplificato. Nulla di tutto questo è successo in Abruzzo dove, tra l’altro, il voto disgiunto non era possibile. L’analisi dei flussi elettorali tra le politiche del 2022 e le regionali effettuata dal CISE a L’Aquila e Pescara conferma la ritrovata unità degli elettorati dei partiti di centro-destra. Diversamente da quanto osservato in Sardegna (a Sassari un leghista 2022 su due ha votato la candidata presidente del centro-sinistra), sia a L’Aquila che a Pescara, chi aveva votato alle politiche Fdi, Fi o Lega non ha defezionato verso D’Amico. I tassi di fedeltà verso Marsilio sono davvero alti: fra l’85 e il 90% per i due partiti minori della coalizione, sorprendentemente un po’ più bassi per Fdi. La sorpresa deriva dal fatto che gli elettori di Fdi avevano una figura del loro partito da votare come governatore. Eppure, uno su tre si è astenuto: qualcosa meno a L’Aquila, qualcosa di più a Pescara. Come spiegare questo risultato? Sono due i fattori da considerare. L’elettorato di Fdi alle politiche 2022 era molto variegato. Da una parte, conteneva anche elettori periferici, distanti dalla politica, che tendono a non andare a votare in elezioni meno importanti come le regionali. Vi erano poi anche elettori anti-sistema, che avevano visto nel partito di Giorgia Meloni lo strumento per un cambiamento rispetto alle politiche mainstream incarnate dal governo Draghi. È plausibile ipotizzare che questi elettori facciano più fatica a votare Meloni ora che siede a Palazzo Chigi. Ma è anche possibile che qualcuno manifesti così la sua disapprovazione nei confronti dell’azione del governo. In ogni caso, non sono elettori che, in una competizione bipolare come quella di queste regionali, siano stati attirati dalla unica alternativa disponibile rappresentata dalla coalizione acchiappatutti di D’Amico. Passando al centro-sinistra, anche su questo fronte si osservano differenze importanti rispetto al caso sardo. Se infatti due settimane fa gli elettorati di Pd e M5s si erano sommati perfettamente su una candidata del Movimento, in Abruzzo, il civico D’Amico (ex rettore dell’Università di Teramo) non è riuscito a fare altrettanto. Questo è vero soprattutto per quello che riguarda gli elettori del M5s. A L’Aquila uno su due si è astenuto, e quasi il 15% ha votato Marsilio. E anche a Pescara uno su otto ha votato il candidato della coalizione rivale. Ma le defezioni non si fermano qui perché sono pochi i voti presi alle politiche da Azione e Italia Viva che in queste regionali sono confluiti sul candidato della coalizione. A D’Amico è andato il 30-40% mentre la fetta più rilevante a L’Aquila si è astenuta e a Pescara ha votato Marsilio. Tutto questo induce a pensare che il campo largo non sia ancora un campo coeso. Manca la colla giusta per tenere insieme tutte le diverse componenti che stanno alla opposizione dell’attuale governo. È legittimo ipotizzare che una parte degli elettori del Movimento si senta a disagio dentro a una coalizione che li vede insieme a Calenda e Renzi, oltre a un Pd che nel passato hanno fortemente osteggiato. Ma questa non è una sorpresa. L’effetto Sardegna ha illuso, ma la strada per costruire una alternativa di centro-sinistra competitiva è ancora lunga. Tuttavia non esistono scorciatoie. Con i sistemi elettorali vigenti in Italia a tutti i livelli la somma dei diversi elettorati dei diversi partiti che compongono le diverse coalizioni è una condizione necessaria per poter puntare alla vittoria. Il problema, come abbiamo detto, è trovare la colla giusta.
NOTA METODOLOGICA I flussi presentati sono stati calcolati applicando il modello di Goodman (1953) separatamente alle 170 sezioni elettorali del comune di Pescara e alle 81 sezioni del comune di L’Aquila. Seguendo Schadee e Corbetta (1984), sono state rimosse le sezioni con meno di 100 elettori (in ognuna delle due elezioni considerate nell’analisi), nonché quelle che hanno registrato un tasso di variazione superiore al 15% nel numero di elettori iscritti (sia in aumento che in diminuzione). Il valore dell’indice VR è pari a 3,1 per Pescara e 10,3 per L’Aquila.
Per la prima volta dalle elezioni politiche del 2022, il centrodestra ha perso una elezione. Dopo avere vinto in Sicilia, Lazio, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Molise, e provincia di Trento ha perso in Sardegna. Una sconfitta resa più indigesta per Giorgia Meloni perché a risultare sconfitto, seppure per pochi voti, è stato il candidato imposto da lei anche a costo di esonerare senza troppi complimenti il governatore uscente che avrebbe voluto e potuto ricandidarsi.
Questo risultato inatteso, ma non del tutto sorprendente, si deve a diversi fattori ma in primis alla ritrovata competitività del centrosinistra. In Sardegna Cinque stelle e Pd hanno fatto un accordo che ha funzionato. In un contesto maggioritario, e quello delle elezioni regionali sarde lo è, uniti si può vincere, divisi si perde di certo. È quello che è successo alle politiche del 2022. La banale verità è che allora il centrodestra ha vinto, per di più con una larga maggioranza, non perché avesse più voti del centrosinistra ma perché si è presentato unito contro avversari divisi.
In Sardegna le cose sono cambiate. Questa elezione rappresenta un tentativo ancora embrionale, ma significativo, di ricomporre un sistema con due poli competitivi e non più con un polo dominante. Forse siamo alla vigilia di un ritorno a quel bipolarismo che ha caratterizzato la Seconda Repubblica fino al grande successo del M5s nelle elezioni del 2013 e del 2018. Il forse è legato al fatto che questa volta l’accordo tra Cinque Stelle e Pd è statto fatto grazie al “sacrificio” del Pd che ha accettato come candidata comune della coalizione una esponente del M5s. L’alleanza si consoliderà quando avverrà anche il contrario. Le occasioni per questo test non mancheranno.
Quello che lascia pensare che quanto successo in Sardegna non sia un accordo effimero è il processo di evoluzione dell’elettorato del M5s. Sia nel 2013 che nel 2018, la sfida del Movimento al sistema bipolare dei precedenti 20 anni aveva raccolto consensi trasversali all’asse sinistra destra, ma nel corso della legislatura 2018-2022 i connotati degli elettori pentastellati sono cambiati. Infatti, molti tra coloro che avevano votato M5s provenendo dal centro-destra sono tornati a casa, attratti prima dalla leadership di Salvini (europee 2019) e poi da quella emergente di Giorgia Meloni (politiche 2022). La conseguenza è che gli elettori del Movimento di oggi non sono più così distanti dagli elettori del Pd. E questo rende l’alleanza – organica o no – molto più praticabile e quindi il ritorno ad un assetto bipolare più probabile. Tanto più che anche in Sardegna si sono rivelate illusorie le velleità terzopoliste, come ha ammesso realisticamente Carlo Calenda.
La coalizione è importante, ma non basta. Ci vogliono anche i candidati giusti per essere competitivi. Alessandra Todde lo è stata. Il fatto che abbia preso 40.000 voti in più dei partiti che la appoggiavano lo dimostra ampiamente. E tra questi ci sono anche elettori della Lega, come si vede nell’analisi dei flussi fatta da Aldo Paparo al CISE. Una prova ulteriore che i candidati contino viene anche dal Molise dove si è votato pochi mesi fa. Anche lì Pd e Cinque Stelle si sono presentati uniti. Eppure, in una regione dove alle politiche del 2022 avevano raccolto il 47,5%, hanno perso malissimo a causa di un candidato sbagliato che ha fatto una campagna elettorale sbagliata. Anche in quel caso il candidato era del Movimento e per di più era il sindaco del capoluogo di regione. In Sardegna invece è andato tutto per il verso giusto.
Per il centrodestra il voto sardo è un campanello d’allarme. I sondaggi dei prossimi mesi diranno se si tratta dell’inizio di una inversione di tendenza o no. Molto dipenderà da come verrà gestito all’interno della coalizione. Al di là delle dichiarazioni pubbliche la sconfitta in Sardegna è destinata a complicare i rapporti tra Fdi e Lega. Saranno i prossimi appuntamenti elettorali regionali e comunali a dirci di più al riguardo. Senza dimenticare che a giugno si vota a livello nazionale per le Europee. I conti si faranno allora. E questo vale a destra, al centro e a sinistra.
L’elezione diretta del premier, invece della elezione diretta del presidente della repubblica, sembra essere l’opzione preferita del centro-destra in tema di riforma costituzionale. Per ora questa è la sola indicazione emersa. Per arrivare a un progetto compiuto ci sono da risolvere quattro problemi.
Il primo è il collegamento tra elezione del premier e quella
del Parlamento. Questo chiama in causa il sistema elettorale. Senza questo
collegamento si rischia di eleggere un premier senza una maggioranza di governo.
Visto che l’obiettivo della riforma è la stabilità dell’esecutivo, come
condizione necessaria di governabilità, la questione è molto rilevante. A
livello di comuni e di regioni, dove il capo dell’esecutivo è eletto
direttamente dai cittadini, il problema è stato risolto abbinando alla elezione
diretta un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza tale da
garantire, quasi sempre, alla lista o alla coalizione del sindaco e del
presidente eletto la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio.
Il secondo problema è la modalità di elezione del premier e
della maggioranza. Nei comuni per vincere occorre arrivare al 50% dei voti al
primo turno. Se nessuno ce la fa, i due candidati più votati si affrontano in
un secondo turno. Questo è il ballottaggio classico. Nelle regioni la
situazione è più variegata ma in generale prevale il sistema a turno
singolo. A livello nazionale quale sarà
la formula? Se si adottasse il turno singolo si corre il rischio di avere un
premier eletto da una minoranza, anche solo il 30% o meno. È ragionevole che si
punti al doppio turno. Ma vista la opposizione del centro-destra al
ballottaggio classico, la soluzione più realistica, ma non la migliore, è il
ballottaggio eventuale. Si fissa una soglia, diciamo il 40%, e se nessuno ci
arriva scatta il secondo turno cui accedono i due candidati più votati al
primo.
Il terzo problema è il rapporto tra premier eletto e la sua
maggioranza. Sia nei comuni che nelle regioni sindaco e presidente possono
essere sfiduciati dai rispettivi consigli ma in questo caso si torna alle urne.
È questo il meccanismo che effettivamente stabilizza l’esecutivo. Succede, ma
molto raramente, che i consiglieri arrivino al punto di rinunciare al seggio e
affrontare una nuova campagna elettorale pur di liberarsi di un sindaco o di un
presidente diventati sgraditi. Ma questo meccanismo irrigidisce tutto il
sistema. Né può essere sostituito dalla sfiducia costruttiva. Infatti se
premier e maggioranza sono eletti insieme sarebbe comunque una violazione della
volontà popolare la formazione di un governo con lo stesso premier e una
maggioranza diversa da quella uscita dalle urne. E se non andiamo errati il
rispetto della volontà popolare è, insieme alla ricerca della stabilità, uno
degli obiettivi della riforma.
Aggiungiamo, in tema di rigidità del modello, che nei comuni e nelle
regioni anche le dimissioni per qualunque motivo di sindaco e presidente
comportano elezioni anticipate. Questo problema però si potrebbe risolvere
prevedendo che ai candidati alla sindacatura e alla presidenza si affianchino
al momento del voto dei vice che subentrerebbero in caso di necessità.
Il quarto problema sono i poteri del premier eletto
direttamente. Questo chiama in causa il rapporto con il presidente della repubblica.
Oggi tra i poteri del capo dello stato tra i più rilevanti ce ne sono due: il
potere di nominare il premier e i ministri e quello di sciogliere le camere. In
una forma di governo in cui il premier è eletto direttamente dai cittadini va
da sé che il presidente perde il potere di nominare il premier. Ma perderebbe anche quello di nominare i
ministri? Ma soprattutto cosa succederà al potere di scioglimento? Resta in
capo al presidente della repubblica oppure verrà condiviso tra lui e il premier
o addirittura verrà trasferito tout court al premier?
È evidente che fino a quando il centro-destra non darà una
risposta a queste domande, oltre alle altre questioni sollevate sopra, non si
potrà dare un giudizio sul suo progetto di riforma costituzionale. Quello che
si può dire oggi è che l’orientamento è quello di adottare anche a livello
nazionale quel “modello italiano di governo” che è stato introdotto a livello sub-nazionale
negli anni novanta. È un modello originale che nei comuni e nelle regioni
funziona, ma la sua trasposizione a livello nazionale comporta problemi di non
facile soluzione. L’alternativa, una volta scartata la strada del presidenzialismo
e del semi-presidenzialismo, è quella di una razionalizzazione del modello
introdotto prima con la legge Mattarella e poi con la legge Calderoli. Questa
razionalizzazione si chiama Italicum. Con questo sistema il premier è eletto
‘direttamente’ dai cittadini ma può essere sfiduciato dalle camere senza
tornare necessariamente alle urne. È un modello quindi più flessibile e non
comporta una revisione dei poteri del presidente della repubblica.
Non c’è stata nessuna sorpresa. L’esito del voto in Lombardia e Lazio è stato quello ampiamente previsto da mesi. E’ bastato conoscere l’offerta, cioè le alleanze fatte e non fatte dai partiti dei due poli , per sapere come sarebbe andata a finire, e cioè la vittoria del centro-destra unito contro il centro-sinistra diviso. La sorpresa viene invece dal dato sulla partecipazione al voto. Era prevedibile che fosse più bassa rispetto a cinque anni fa ma non che fosse tanto bassa. Eppure nemmeno questa è una novità assoluta. Nel 2014 in Emilia-Romagna, una delle regioni più virtuose del paese in fatto di affluenza,, si è recato alle urne per l’elezione del presidente della regione solo il 37,7% degli elettori. Un record negativo che nemmeno il dato di oggi scalfisce. Negli stessi giorni in cui si votava in Emilia-Romagna si è votato anche in Calabria, una delle regioni meno virtuose, e lì l’affluenza è stata addirittura superiore, il 44,1%. Per completare il quadro ricordiamo che nelle elezioni successive, le politiche del 2018, in Emilia-Romagna la partecipazione al voto è tornata su livelli ‘normali’ ; ha votato infatti il 78,3% degli elettori.
Il caso della Emilia-Romagna è particolarmente interessante perché evidenzia alcune delle ragioni responsabili per l’elevato livello di astensionismo delle elezioni di oggi. Con buona pace di Bonaccini, eletto allora presidente della regione e oggi candidato alla segreteria del Pd, in quella occasione gli elettori hanno disertato le urne perché l’offerta proposta, cioè i candidati, erano poco attraenti. E’ molto probabile che questo sia stato uno dei motivi della bassa affluenza in Lombardia e Lazio. A questo occorre aggiungere altri due elementi: l’assenza di temi coinvolgenti e la percezione diffusa che l’esito fosse scontato. Sommando a questi fattori contingenti le ben note cause strutturali che da tempo incidono sulla affluenza (debolezza dei partiti in primis) ne esce fuori un quadro caratterizzato da un astensionismo tendenzialmente crescente ma in parte intermittente. In altre parole si vota sempre di meno ma si vota anche selettivamente. Nella stessa Emilia-Romagna dove nel 2014 ha votato solo il 37,7% degli elettori, alle regionali di cinque anni dopo in un clima politico completamente diverso l’affluenza è stata del 67,8%. E’ possibile che la stessa cosa succeda anche in Lombardia e Lazio in futuro. Per ora resta il fatto che Fontana e Rocca sono stati eletti con percentuali elevate ma da una esigua minoranza di elettori.
Con un astensionismo così alto occorre prudenza nell’analizzare questo risultato.
Il centro-destra ha vinto ma non è vero che sia andato meglio delle ultime politiche. Questa è una lettura sbagliata del voto. Proprio perché sono pochi gli elettori andati a votare sono anche relativamente pochi, rispetto alle politiche di settembre, gli elettori che hanno votato i partiti del centro-destra. Ma in politica contano le percentuali. E questo spiega l’esultanza di Salvini che alle politiche aveva preso in Lombardia il 13,3 % e oggi, pur avendo ottenuto meno voti di allora, si ritrova con una percentuale più alta e soprattutto con un distacco da Fdi che nel 2022 era di quindici punti e oggi è diminuito. E così Salvini si rafforza dentro il suo partito e in fondo anche Meloni si rafforza dentro il governo. Il suo risultato in Lombardia non è esaltante visto che alle politiche aveva preso il 28,5 % e oggi meno ma proprio per questo la convivenza con la Lega diventa meno problematica. In ogni caso il voto conferma Fdi come primo partito anche in Lombardia oltre che in Lazio. In breve , a quattro mesi dalle politiche questo voto dimostra che poco è cambiato da allora in fatto di preferenze degli elettori. Questo vale a destra come a sinistra dove il Pd ha dimostrato una sostanziale tenuta e il M5s ha confermato di essere sempre più un partito meridionale.
Chi esce male da questo voto è il terzo polo. In Lombardia diversi sondaggi avevano pronosticato un risultato a due cifre. Aver ottenuto meno del 10% con una candidatura di prestigio come quella di Letizia Moratti deve far riflettere. In una competizione, come quella delle regionali, in cui la sfida è prendere un voto in più degli avversari è difficile attirare consensi se non si è percepiti come competitivi. Da questo punto di vista il voto disgiunto, su cui forse puntava il terzo polo, funziona poco. E’ difficile sfuggire alla dinamica del maggioritario. E questa è una lezione di cui il terzo polo dovrà tener conto per il futuro.
Nel centro-sinistra resta aperto il problema delle alleanze. Per quanto limitato, il test di oggi dice che non basta una coalizione Pd-M5s o Pd -Azione/Italia viva per essere competitivi nei confronti di un centro-destra unito. E’ vero che il centro-sinistra unito non può vincere comunque dappertutto. In Lombardia da quando è entrata in vigore nel 1995 l’elezione diretta del presidente della giunta regionale il centro-sinistra non è mai riuscito a vincere, nemmeno quando si è presentato unito. Non poteva certamente farlo adesso presentandosi diviso. Ma in Lazio è diverso. Qui il centro-sinistra ha vinto tre elezioni regionali su cinque a partire dal 1995. Oggi ha perso malamente e continuerà a perdere qui e altrove se continuerà a presentarsi diviso. Ci vorrebbe un nuovo Ulivo, ma al momento non si vede chi e come possa metterlo insieme.
I collegi uninominali danno fastidio a tutti. Con l’attuale sistema elettorale i partiti in coalizione sono spinti a scegliere 147 candidati comuni alla Camera e 74 al Senato. È così che in Italia sono stati da sempre utilizzati i collegi uninominali. Questo vuol dire che prima del voto Salvini e Meloni da una parte, così come Letta e Conte dall’altra, dovranno sedersi intorno a un tavolo e litigare sulla spartizione tra loro dei 221 collegi in cui verranno presentati i candidati comuni delle rispettive coalizioni. Visti i rapporti e visti i sondaggi, l’operazione è complicata e insidiosa. Dunque c’è un interesse condiviso ad eliminare i collegi e tornare ad un sistema che preveda solo liste di partito.
Premio di maggioranza
Ma il centro-destra non ci sta a tornare ad un sistema che sia solo proporzionale, come vorrebbero il M5s e una bella fetta del Pd. Con il Rosatellum il centro-destra ha concrete speranze di vincere le prossime elezioni e non è disposto a rinunciarci ovviamente. Per questo, rebus sic stantibus, la sola strada percorribile per trovare un accordo bipartisan è quella di sostituite i collegi con il premio di maggioranza. Il Pd lo ha finalmente capito dopo aver flirtato insieme al M5s con il ritorno al proporzionale. In effetti il premio di maggioranza è l’equivalente funzionale del collegio. Sia l’uno che l’altro spingono i partiti ad allearsi prima del voto. Insieme alla sovra-rappresentazione del vincente questo è uno degli effetti maggioritari del sistema proporzionale con premio.
Il ritorno al premio non sarebbe una sorpresa. Torneremmo alla Calderoli, il famigerato “porcellum” in vigore tra il 2006 e il 2013. In fondo Il proporzionale con premio di maggioranza è uno degli ingredienti del modello italiano di governo introdotto sia nei comuni che nelle regioni. Nel 2005 fu introdotto anche a livello nazionale e anche in quel caso aveva sostituito i collegi uninominali della Mattarella. Adesso verrebbe riproposto in una versione costituzionalizzata. La sentenza della Consulta del 2013 sul porcellum ha fissato un paletto non aggirabile: un sistema proporzionale a premio deve contenere una soglia per farlo scattare. La Corte non ha fissato il suo livello. Ha solo detto che ci vuole. Non è più possibile che una coalizione con il 29% dei voti (il centro-sinistra di Bersani nel 2013) possa ottenere il 54% dei seggi alla Camera.
Le trattative Pd-Lega
Il
negoziato tra Pd e Lega verterà dunque soprattutto sul livello della
soglia per far scattare il premio. Più alta è la soglia, più difficile
che scatti il premio. Se il premio non scatta tutti i seggi verrebbero
distribuiti proporzionalmente. Va da sé che i proporzionalisti nei due
campi vorranno una soglia alta in modo da massimizzare la probabilità di
una distribuzione proporzionale di tutti i seggi. I fautori del
maggioritario la vorranno più bassa. Poi ci sono i terzo polisti. Anche
loro puntano ad una soglia alta in modo da poter giocare il loro
pacchetto di seggi dopo il voto se nessuno vincesse il premio.
Questa non è la sola soglia rilevante da decidere. Indipendentemente dal premio, è importante limitare la frammentazione fissando altre due soglie: una per impedire a partiti nani di prendere seggi , una altra per impedire la formazione di liste del tipo Forza Roma o Forza Milan create al solo scopo di raccattare voti per ottenere il premio. Queste soglie sono già previste nel Rosatellum. Se una lista non ottiene almeno il 3% dei voti non prende seggi e i suoi voti finiscono ai partiti alleati che stanno sopra la soglia. Inoltre, se non ottiene almeno l’1%, i suoi voti finiscono nel cestino. (https://primer.com.au/)
Premio di maggioranza al Senato
E
poi c’è la questione del premio di maggioranza al Senato. Adesso
vediamo cosa diranno quei giuristi che nel 2005 spinsero il presidente
Ciampi ad opporsi al premio nazionale al Senato invocando l’articolo 57
della Costituzione che secondo loro imponeva la regionalizzazione anche
del premio. È da lì che è nata la lotteria dei 17 premi regionali. Ma il
bello è che senza quella lotteria nelle elezioni del 2006 avremmo visto
Prodi vincente alla Camera e Berlusconi al Senato. Un bel pasticcio nel
nostro sistema di bicameralismo paritario. Questo per dire quanto sia
fragile e soggetto al caso il nostro sistema di formazione dei governi.
Ma quand’è che si rimetterà mano a una revisione ordinata e coerente del
nostro impianto istituzionale invece di continuare con questi rammendi
che non risolvono i problemi di fondo?