Autore: Vincenzo Emanuele

  • Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020)

    Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020)

    Emanuele, Vincenzo, and Federico Trastulli. 2024. “Left Governmental Power and the Reduction of Inequalities in Western Europe (1871–2020).” Perspectives on Politics: 1–20. doi: 10.1017/S1537592724000628.

    Despite considerable attention in the literature, existing studies analyzing the effect of left governmental power on inequalities suffer from three main limitations: a privileged focus on economic forms of inequality at the expense of political and social ones, inaccurate measurements of left governmental power, and the analyses’ narrow time spans. This article addresses such concerns through a comparative longitudinal analysis where the impact of left governmental power on different measures of political, social, and economic inequalities is investigated in 20 Western European countries across the last 150 years. Data show that, consistent with previous literature, the Left in government has significantly reduced most forms of inequalities. However, the equalizing effect of the Left in government has decreased over time and has become not significant since the 1980s. The Left is today incapable of accomplishing its historical mission of reducing inequalities. The article discusses the rationale and implications of these findings.

     

  • “In ricchezza e in povertà…” I due poli divisi dal voto per reddito

    “In ricchezza e in povertà…” I due poli divisi dal voto per reddito

    Il punto di partenza: la relazione individuale fra classe sociale e voto alle europee 2024

    Nell’analisi pubblicata qualche giorno fa da Lorenzo De Sio, Elisabetta Mannoni e Matteo Cataldi sul sito del CISE emergeva un dato abbastanza sorprendente relativo all’associazione fra classe sociale e voto ai partiti alle europee 2024. I dati del sondaggio pre-elettorale del CISE – riponderati sul risultato elettorale delle europee – infatti, mostravano con chiarezza che l’autocollocazione di classe discrimina in modo abbastanza netto il voto ai partiti italiani ma in una direzione in parte inattesa, ossia tagliando trasversalmente i due blocchi di sinistra e destra. Da un lato, a sinistra, l’autopercezione di classe divide gli elettori del Movimento Cinque Stelle (M5S), collocati per lo più fra le classi più basse, dagli elettori del Partito democratico (PD), che crescono di 10 punti passando dalla classe operaia a quella medio-alta (dal 19 al 29%). Dall’altro lato, a destra, la classe sociale divide in modo abbastanza inatteso l’elettorato della Lega – che nella classe bassa presenta il doppio degli elettori di Fratelli d’Italia (FdI), 20% a 10% – e quello del partito di Giorgia Meloni che cresce addirittura dal 10% al 36% fra la classe bassa e quella medio-alta. Questi dati sarebbero la conferma, dunque, di una rinnovata importanza della classe sociale come determinante del voto, sebbene in una direzione in parte diversa dal passato, quando la sinistra costituiva il punto di riferimento naturale delle classi basse e la destra quello della borghesia.

    L’ancoraggio con la letteratura: lo studio di Cagé e Piketty sulla Francia

    Il risultato trovato nei dati di sondaggio presenta radici solide dal punto di vista aggregato? In altri termini, guardando ai quasi 8000 comuni italiani, possiamo confermare che esiste una relazione fra reddito e voto ai partiti?
    La relazione fra ricchezza e voto è recentemente tornata di attualità in seguito al colossale lavoro pubblicato da Cagé e Piketty sulla Francia. Lavorando su dati a livello comunale, gli autori scoprono che la coalizione che ha sostenuto Macron in Francia nel 2022 è stata la più “borghese” della storia. A confronto con le altre destre della storia repubblicana francese (da quella di Napoleone III del 1848 a quella di De Gaulle del 1962, fino a Chirac e Sarkozy in tempi recenti), il voto a Macron è quello con la distribuzione più asimmetrica, ossia più concentrato nei comuni con i redditi medi per abitante più alti. Gli autori, inoltre, introducono l’importante distinzione fra i redditi da lavoro, più alti nelle aree economicamente più dinamiche come le metropoli e i redditi da patrimonio, ossia derivanti soprattutto dalla proprietà degli immobili, più diffusa nei villaggi e nei borghi. La distinzione fra redditi da lavoro e da patrimonio è rilevante perché, incrociandosi con il territorio, dà vita ad una originale concettualizzazione, quella delle “geoclassi”, ossia classi sociali i cui contorni sono definiti da caratteristiche territoriali ed economiche e il cui comportamento politico si è trasformato più volte nel corso della storia repubblicana francese. Nella Francia tripolare del 2022, in particolare, la destra sarebbe particolarmente forte nelle aree – per lo più rurali – maggiormente legate ai redditi da patrimonio, la sinistra nelle periferie urbane a basso reddito e il centro di Macron nelle aree dove si concentrano i maggiori redditi da lavoro.

    L’analisi: reddito medio e voto nei comuni italiani

    Tornando all’Italia, è possibile provare a replicare, almeno in piccola parte, il lavoro di Cagé e Piketty, analizzando la relazione fra reddito e voto nei comuni italiani. L’analisi presenta naturalmente limiti e rischi. Il limite è che i dati di cui disponiamo non scendono al di sotto del livello comunale che però, a differenza della Francia, costituita da circa 36000 comuni, qui da noi riguarda un numero di osservazioni molto più ridotto, poco meno di 8000. La più ridotta granularità dell’analisi ha conseguenze rilevanti sulla validità dei risultati perché incide sul principale rischio di uno studio di questo tipo, ossia la fallacia ecologica. Uno o pochi contribuenti particolarmente ricchi possono far alzare notevolmente il reddito medio di un comune portando inevitabilmente ad assunzioni errate circa il comportamento dei suoi abitanti. Un comune ricco che vota a destra potrebbe portarci a dire che i ricchi votano a destra mentre in realtà non abbiamo informazioni circa i comportamenti individuali né rispetto all’effettiva distribuzione interna dei redditi nel comune (i pochi abitanti straricchi del comune potrebbero aver votato a sinistra e i numerosi abitanti poveri a destra, ma questa osservazione andrebbe a rinforzare l’associazione comune ricco-voto a destra). L’interpretazione dei risultati deve dunque essere condotta con prudenza e partire da precise ipotesi di partenza che per noi sono i risultati dell’analisi individuale. Ci aspettiamo quindi che la ricchezza costituisca oggi una dimensione sostanzialmente ortogonale rispetto alla tradizionale divisione sinistra-destra e che divida internamente gli elettorati dei due blocchi, con una sovrarappresentazione di M5S e Lega nelle aree economicamente più svantaggiate e viceversa di Pd e FdI nelle aree più ricche. Non abbiamo, invece, ipotesi specifiche per Forza Italia (FI) e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) che nell’analisi individuale risultavano avere un profilo di classe meno chiaramente definito.

    La Figura 1 mostra i risultati delle regressioni sul voto ai sei maggiori partiti italiani (FdI, PD, M5S, FI, Lega e AVS) utilizzando il reddito imponibile medio del comune espresso in percentili (fonte: MEF- Dipartimento delle Finanze), ossia il reddito complessivo diviso per la popolazione residente. L’analisi controlla per una serie di variabili territoriali e socio-demografiche. In particolare, abbiamo considerato la zona geopolitica (Nord, ex Zona rossa e Sud), la dimensione demografica dei comuni (<5mila abitanti; 5-15mila; 15-50mila; 50-100mila; >100mila abitanti), la percentuale di anziani (over 65), la percentuale di laureati e la percentuale di extracomunitari. Tutte variabili che, in un’altra analisi condotta sulle politiche del 2022, sono risultate importanti per spiegare il voto ai partiti (Cataldi, Emanuele e Maggini 2024).

    Figura 1. Effetto del reddito imponibile medio sul voto ai partiti alle europee 2024

    I risultati attesi sono confermati: esiste una divisione netta fra partiti che aumentano e partiti che diminuiscono i propri consensi all’aumentare della ricchezza media del comune. Questa divisione taglia i due schieramenti esattamente nella direzione già osservata sui dati individuali. L’analisi aggiunge poi elementi nuovi, legati sia alla forza della relazione, sia al comportamento di partiti, come FI e AVS, che non avevano mostrato una chiara associazione sui dati individuali. Sulla forza della relazione, i coefficienti più alti sono quelli relativi al PD e, un po’ a sorpresa, a FI. L’incremento di un decile nel reddito medio del comune aumenta il voto al PD di circa 0,7 punti percentuali, mentre un aumento di una deviazione standard della variabile reddito medio aumenta il voto al PD di quasi due punti. Un effetto complessivamente non grandissimo, ma significativo a p<0.001. Viceversa, per Forza Italia, la storia è opposta: all’aumento di un decile nel reddito medio il voto al partito che fu di Berlusconi diminuisce di 0,8 punti (2,3 punti persi per un aumento di una deviazione standard). Forza Italia, dunque, si iscrive fra i partiti che performano meglio nelle aree più povere insieme alla Lega nel centrodestra e al M5S nel centrosinistra (con coefficienti leggermente inferiori a quello del partito di Tajani). Al contrario, alla stregua del Pd, quindi con una relazione positiva fra reddito imponibile e voto, sebbene con effetti più limitati, troviamo AVS e FdI (quest’ultimo è l’unico per il quale la significatività dell’effetto è inferiore ma mantiene comunque una confidenza del 95%). Da notare, infine, che gli effetti sono confermati se limitiamo la nostra analisi ai soli comuni inferiori ai 5000 abitanti e perfino ai 1000 abitanti[1], ossia quelli nei quali il problema della fallacia ecologica risulta meno grave.

    L’approfondimento: redditi vs. proprietà immobiliari e gli effetti sul voto

    Una volta accertate le relazioni fondamentali fra ricchezza media e voto ai partiti non ci resta che provare ad approfondire scendendo nel dettaglio delle misure relative alla ricchezza. Il reddito imponibile medio, infatti, si compone di due voci principali, il reddito da lavoro (a sua volta suddivisibile in redditi lavoro autonomo, da lavoro dipendente, da pensione e di spettanza dell’imprenditore) e il reddito da fabbricati, ossia il reddito delle unità immobiliari urbane (ovvero fabbricati, altre costruzioni stabili e loro porzioni) suscettibili di produrre un reddito proprio[2]. La contrapposizione fra ricchezza “mobile” e “immobile”, fra lavoro e rendita e la relativa traduzione politica è stata già sottolineata da Cagé e Piketty (2024). La divisione fra lavoro e rendita ha conseguenze politiche anche in Italia?

    La Figura 2 presenta i risultati dei modelli di regressione sul voto a ciascun partito utilizzando al posto del reddito imponibile medio il reddito da lavoro medio e il reddito da fabbricati medio per comune, oltre ai controlli descritti in precedenza.

    Figura 2. Effetto del reddito da lavoro e da fabbricati medio sul voto ai partiti alle europee 2024

     

    L’analisi mostra in particolare la contrapposizione fra i due maggiori partiti italiani, FdI e PD, il cui voto, risultava per entrambi positivamente associato alla ricchezza (Figura 1). Si tratta, a ben vedere, di due tipi di ricchezza diversi: mentre il PD aumenta i propri consensi man mano che cresce il reddito da lavoro, il voto a FdI aumenta all’aumentare del reddito da fabbricati. Insomma, in estrema sintesi, il lavoro spinge il voto al partito di Schlein, la rendita al partito di Meloni (il voto al PD risulta comunque significativo anche sul reddito da fabbricati, ma con un coefficiente molto basso). AVS presenta una configurazione simile a quella del PD, con un impatto significativo del reddito da lavoro: il coefficiente è più basso (0,6 punti per un aumento di una deviazione standard del reddito da lavoro, contro i 2,1 punti del PD), come è normale che sia per un partito che è oltre tre volte e mezzo più piccolo rispetto a quello guidato da Schlein. Gli altri tre partiti (M5S, FI e Lega) presentano relazioni negative con i due tipi di reddito, confermando quanto già osservato nella Figura 1. Si tratta di effetti significativi per tutti e tre i partiti con l’unica eccezione della Lega per quanto concerne il reddito da fabbricati. Particolarmente forte l’impatto del reddito da lavoro sul voto a Forza Italia, un effetto completamente speculare a quello del PD (2,1 punti percentuali in meno al partito per una deviazione standard di aumento).

    L’aspetto interessante di questi risultati è il fatto partiti che presentano caratteristiche territoriali del voto del tutto diverse (e di cui il modello tiene conto) mostrino effetti simili per quanto riguarda il tipo di ricchezza presa in considerazione. O che, viceversa, partiti con caratteristiche territoriali simili mostrino effetti radicalmente opposti. FdI e Lega, ad esempio, hanno una geografia elettorale simile, con un consenso prevalentemente settentrionale e concentrato nei piccoli comuni distanti dai grandi centri (vedi Cataldi, Emanuele e Maggini 2024). Eppure, l’effetto del reddito medio è opposto e la Lega appare più simile a partiti con un consenso prevalentemente meridionale quali il M5S e FI. Questo significa che le mappe della ricchezza[3]– e in particolare quelle relative alla differenziazione interna fra redditi da lavoro e da fabbricati – presentano caratteristiche peculiari e appaiono in parte trasversali sia rispetto alle zone geopolitiche sia rispetto alla grandezza del comune e alla distanza fisica dai centri erogatori di servizi (ospedali, atenei universitari, stazioni dell’alta velocità etc., vedi Cataldi, Emanuele e Maggini 2024).

    Proprietà, concentrazione della ricchezza e voto

    Tornando alla parte destra della Figura 2, abbiamo visto che quattro partiti risultano avere un effetto significativo del reddito da fabbricati sul proprio consenso, positivo nel caso di FdI e in misura minore del PD, negativo nel caso di FI e in misura minore del M5S. Su questa relazione incide però un altro fattore, ossia la concentrazione della proprietà immobiliare. Un comune con un alto reddito da fabbricati, in cui la ricchezza immobiliare è detenuta da un esiguo numero di grandi rentier è un caso economicamente, socialmente e forse anche politicamente diverso da un altro comune in cui, a parità di ricchezza immobiliare, quest’ultima è diffusa fra un alto numero di piccoli proprietari. Sull’importanza e le conseguenze politico-elettorali della concentrazione della proprietà immobiliare insistono Cagé e Piketty che riprendono il classico studio di Sigfried (1913) sulla geografia elettorale francese. Analizzando l’effetto sul voto della concentrazione della proprietà terriera, Sigfried (1913) rileva che laddove la proprietà terriera è rimasta nelle mani di pochi grandi proprietari il voto è prevalentemente monarchico e conservatore; laddove, viceversa, la proprietà è diffusa, il voto è prevalentemente repubblicano.

    Per verificare se, e in che modo, la concentrazione della proprietà immobiliare influenza l’effetto del reddito da fabbricati sul voto abbiamo costurito il rapporto fra numero di contribuenti del reddito da fabbricati (fonte: ISTAT) e popolazione residente del comune. La risultante variabile, espressa in percentili della distribuzione, ci fornisce una misura di concentrazione/diffusione della ricchezza immobiliare del comune. Abbiamo quindi testato, per i soli partiti che nella Figura 2 mostravano un effetto significativo del reddito da fabbricati – FdI, PD, M5S e FI – l’impatto sul voto dell’interazione fra il reddito da fabbricati e la concentrazione della proprietà. Il modello di interazione risulta significativo per tre partiti (FdI, M5S e FI). I rispettivi effetti marginali del reddito da fabbricati sul voto al variare della concentrazione della proprietà immobiliare sono visibili nella Figura 3.

    Figura 3. Effetto marginale del reddito da fabbricati sul voto a FdI, M5S e FI a diversi livelli di concentrazione della proprietà immobiliare

    Notiamo subito un effetto negativo e significativo (a p<0.001) dell’interazione fra la ricchezza immobiliare e la sua concentrazione nel caso di FdI. Quando la ricchezza immobiliare è fortemente concentrata nelle mani di pochi proprietari, l’effetto positivo della ricchezza immobiliare stessa sul voto al partito di Meloni è piuttosto forte, quasi 3,7 punti percentuali in più per un aumento di una deviazione standard della variabile. Viceversa, all’aumentare del numero di proprietari in rapporto alla popolazione, l’effetto della ricchezza sul voto a FdI diminuisce, fino a scomparire del tutto quando la proprietà è molto diffusa (gli ultimi due decili della distribuzione non mostrano più effetti significativi).

    Per il M5S l’effetto dell’interazione è invece positivo (e significativo a p<0.01). Il grafico ci aiuta a specificare meglio le caratteristiche della relazione osservata nella Figura 2. L’effetto negativo della ricchezza immobiliare, in questo caso, tende a diminuire man mano che aumenta la diffusione della ricchezza stessa, fino a scomparire negli ultimi decili della distribuzione. Una dinamica, quindi, del tutto speculare rispetto a FdI, sebbene con effetti complessivi sul voto molto più contenuti. Forza Italia segue lo stesso pattern del M5S ma con effetti ben più forti (e un coefficiente di interazione significativo a p<0.001).

    Complessivamente, per tutti e tre i partiti, il reddito da fabbricati ha un impatto significativo sul voto solo quando la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi grandi proprietari. Quando ciò avviene, al crescere della ricchezza aumenta il voto a FdI, mentre diminuisce il voto a M5S e FI. Al contrario, quando la ricchezza è diffusa fra un gran numero di proprietari, l’effetto del reddito da fabbricati scompare: in altri termini, la ricchezza immobiliare del comune non influenza il voto ai partiti.


    [1] L’unica eccezione è rappresentata da AVS, per il quale l’impatto del reddito imponibile medio non risulta significativo nei comuni sotto i 1000 abitanti.

    [2] Rientrano nella definizione di “unità immobiliari” gli appartamenti, le ville, i negozi, i box auto e altro. Le aree occupate dalle costruzioni e quelle che ne costituiscono pertinenze si considerano parti integranti delle unità immobiliari. Il reddito dei fabbricati trae origine dalla rendita catastale, che è il reddito medio ordinario, stabilito dal catasto, ricavabile da ciascuna unità immobiliare urbana.

    [3] Le mappe sono visibili ai seguenti link: Distribuzione reddito imponibile medio per comune; Distribuzione dei redditi da lavoro medi per comune; Distribuzione del reddito da fabbricati medio per comune.


    Riferimenti bibliografici

    Cagé J., Piketty T. (2024), Una storia del conflitto politico. Elezioni e disuguaglianze sociali in Francia 1789-2022. La Nave di Teseo.

    Cataldi, M., Emanuele, V., & Maggini, N. (2024), ‘Territorio e voto in Italia alle elezioni politiche del 2022’, in A. Chiaramonte and L. De Sio (eds.), Un polo solo. Le elezioni politiche del 2022, Bologna, Il Mulino, pp.177-216.

    De Sio L., Mannoni E., Cataldi M., Chi ha votato chi? Gruppi sociali e voto.

    Siegfried A., (1913), Le Tableau politique de la France de l’Ouest. Libraire Armand Colin.


  • Permane la frattura città-campagna tra centro-sinistra e centro-destra alle Europee 2024

    Permane la frattura città-campagna tra centro-sinistra e centro-destra alle Europee 2024

    Analizzando il voto per ampiezza demografica dei comuni sembrano permanere le differenze città-campagna osservate negli ultimi anni. Il centro-sinistra guadagna voti a scapito del centro-destra man mano che cresce la dimensione del comune. In particolare, i tre partiti di centro-destra (FI, FdI, Lega) diminuiscono monotonicamente all’aumentare della dimensione demografica, passando da un complessivo 52,6 percento nei comuni inferiore ai 5mila abitanti a un 35,9 percento nelle città con oltre 100mila abitanti. Discorso inverso per le forze progressiste (ad eccezione del M5S). Il PD sale di circa 11 punti passando dai micro-comuni (sotto i 5mila abitanti) alle grandi città (sopra i 100mila abitanti). Discorso analogo per AVS, che nelle grandi città ottiene il 9,5 percento. Ciò significa che, considerati insieme, PD e AVS superano il centro-destra nelle grandi città italiane (38,9% contro 35,9%), mentre nei micro-comuni sono sotto di quasi 29 punti.

  • Chi potrà cantare vittoria alle europee? Fattori strutturali e aspettative dei partiti

    Chi potrà cantare vittoria alle europee? Fattori strutturali e aspettative dei partiti

    Alla vigilia delle imminenti elezioni europee, nel dibattito pubblico sui media si vanno già formando delle aspettative sul risultato; e per ogni partito i commentatori vanno definendo delle “soglie” che ne determineranno il successo o l’insuccesso. Il tutto in un processo essenzialmente governato dall’attualità politica, e in cui si parte dal presupposto che le elezioni europee siano l’equivalente di un sondaggio sul voto politico. Tuttavia sappiamo (da analisi sistematiche sul voto europeo, su cui c’è ormai una letteratura consolidata) che le elezioni europee hanno caratteristiche particolari che ne distorcono un po’ il risultato. E quindi di queste caratteristiche dovremo tenere conto nell’interpretare il voto: al punto che per alcuni partiti un risultato in linea con le ultime politiche potrebbe essere un grande successo, mentre per altri potrebbe essere una cocente delusione. E perché? Andiamo a vederlo nel dettaglio.

    Cosa dice la teoria: le europee come elezioni di ‘secondo ordine’ La principale teoria riguardante le elezioni europee, sviluppata da Karlheinz Reif e Hermann Schmitt (1980) all’indomani delle prime elezioni per il Parlamento Europeo nel 1979 (e corroborata da decine di analisi nei decenni successivi) considera il voto alle europee come ‘di secondo ordine’ (second-order) rispetto al voto per le elezioni politiche nazionali. Il punto centrale della teoria è che alle europee la posta in palio è inferiore (‘there is less at stake’, p. 9) perché, a differenza che alle elezioni politiche, non si compete per il governo nazionale. Questa generale percezione di minore importanza genera alcuni assunti chiave che si traducono empiricamente in aspettative circa i risultati finali dei partiti. Le principali aspettative sono le seguenti:

    1.Minore partecipazione al voto. Diretta conseguenza della percezione delle europee come elezioni di ‘secondo ordine’ è un maggior tasso di astensione. I cittadini meno interessati alla politica – che magari alle elezioni politiche nazionali alla fine si convincono a votare vista l’importanza della posta in gioco – saranno più propensi a restare a casa, nel caso di queste elezioni di secondo ordine.

    2.I partiti di governo perdono voti. Questo assunto dipende molto dal momento del ciclo elettorale in cui cadono le elezioni europee. In generale, il governo, passato l’idillio della luna di miele (primi 100 giorni) inizia a pagare il cosiddetto ‘cost of ruling’ (Paldam 1981) dovuto all’inevitabile gap temporale tra le promesse elettorali e i tempi necessari affinché la traduzione di queste ultime in politiche pubbliche dispieghi i suoi effetti. La teoria ci dice che circa a metà della legislatura il governo tocca il punto minimo di popolarità per poi risalire con la fine della legislatura e l’avvicinarsi della successiva campagna elettorale (Tufte 1975). Inoltre, a prescindere dal momento in cui cadono, le elezioni europee – proprio in quanto ‘second order’ – costituiscono un’occasione per gli elettori, anche per quelli filo-governativi, per dare un segnale al governo, facendo ‘voice’ (Hirschman 1970) ossia esprimendo il proprio possibile malcontento per le specifiche politiche del governo (e senza rischi di farlo cadere, visto che non è un’elezione politica). Questo comporta quindi un possibile passaggio di voti dal governo all’opposizione.

    3.I grandi partiti perdono voti a vantaggio dei piccoli. Dal momento che la posta in palio è inferiore, il richiamo al voto strategico (o voto utile) non fa presa sull’elettorato. Mentre alle elezioni politiche l’elettore accantona spesso la propria prima preferenza per votare il suo ‘second best’ se quest’ultimo ha più chances di vincere e conquistare il governo (o semplicemente più chance di impedire la vittoria del partito più odiato), alle europee questi ‘effetti psicologici’ (Cox 1997) dei sistemi elettorali giocano un ruolo marginale: i piccoli partiti non saranno danneggiati dal ricatto del voto utile e (quasi) tutti gli attori in gioco saranno percepiti come alternative praticabili (viable).[1] Questo comporta quindi, rispetto alle elezioni politiche, maggiori chance per i partiti più piccoli.

    Gli assunti delle elezioni di secondo ordine applicati all’Italia del 2024 La teoria di Reif e Schmitt (1980) ha dimostrato di funzionare molto bene e predire efficacemente le performance dei partiti alle elezioni europee, diventando un punto di riferimento essenziale per tutti coloro che studiano questo tipo di competizione (Reif, Schmitt e Norris 1997; Marsh 1998; Hix e Marsh 2011). Possiamo quindi cercare di capire come gli assunti di partenza della teoria si applicano al caso italiano e quali conseguenze – in termini di performance positive o negative – possiamo attenderci dal voto del 8 e 9 giugno prossimi. Cominciando dalla partecipazione, l’affluenza si abbasserà rispetto alle politiche (aspettativa 1). Questo è praticamente certo: ma di quanto? Difficile prevederlo con certezza, anche se abbiamo alcuni punti di riferimento. Sia nel 2014 (rispetto alle politiche 2013) che nel 2019 (rispetto alle politiche 2018) il gap di partecipazione politiche-europee fu di circa 16-17 punti. Dovesse mantenersi questo trend, dal 63,9% delle politiche scenderemmo al 47-48%, circa 8-9 punti in meno rispetto al 56,1% del 2019. Difficile dire se davvero l’affluenza scenderà tanto in basso o se invece ci avviamo a raggiungere una sorta di plateau, avendo magari già in larga parte scontato gli effetti di lungo periodo (es. il ricambio generazionale) che incidono sulla partecipazione. Di certo possiamo affermare che se davvero scenderemo sotto il 50% di votanti, quelle dell’8 e 9 giugno sarebbero le prime elezioni della storia della Repubblica in cui la maggioranza assoluta degli italiani decide di astenersi. In secondo luogo: come inciderà il calo dell’affluenza sul voto ai partiti? Qui possiamo fare alcune congetture, legate al fatto che in genere l’affluenza non diminuisce in modo omogeneo sul territorio. Il differenziale di affluenza fra politiche ed europee è maggiore al Sud: alle politiche del 2022 l’affluenza al Sud (dal Lazio in giù) è stata di circa 12 punti inferiore rispetto al Centro-Nord, mentre elle europee del 2019 la distanza tra le due aree del paese fu di circa 17,4 punti.[2] Si tratta di oltre 5 punti aggiuntivi di astensione che andranno a danneggiare i partiti che hanno nelle regioni meridionali la propria area di forza. Su tutti il Movimento Cinque Stelle (M5S) (25,3% al Sud nel 2022 contro l’8,9% al Centro-Nord) e, in misura inferiore, Forza Italia (10% al Sud nel 2022 contro il 6,7% al Centro-Nord). Al contrario, ad avvantaggiarsi da questa discesa asimmetrica dell’affluenza saranno tutti i partiti più radicati nel Nord: e in particolare la Lega, il Partito Democratico (PD), l’alleanza Verdi-Sinistra e le due liste di centro di Stati Uniti d’Europa (SUE) e Azione.[3] Passando all’aspettativa 2, se i partiti di governo perdono voti, ci aspettiamo che – a parità di ogni altra condizione – Fratelli d’Italia (FDI) vada peggio rispetto alle politiche. Questo perché si tratta del partito che esprime la Presidente del Consiglio e che quindi è il più esposto in una competizione che cade vicino alla metà del ciclo elettorale, ossia nel momento di maggior ribasso della popolarità del governo. Anche gli altri partner di governo, Lega e Forza Italia, potrebbero subire dinamiche simili ma con un’attenuante potenzialmente decisiva: a differenza di FDI non sono partiti ‘grandi’ (aspettativa 3) e non esprimono la Presidente del Consiglio, quindi sono meno esposti alla protesta anti-governativa e anzi potrebbero addirittura beneficiare del voto di elettori filo-governativi che vogliono dare un segnale al partito della premier. Riguardo all’opposizione, il generale beneficio del voto di secondo ordine va commisurato rispetto alla grandezza del partito (ancora una volta, la combinazione delle aspettative 2 e 3). La teoria ci dice infatti che i grandi partiti perdono voti a favore dei piccoli. Quindi il PD e il M5S dovrebbero, a parità di ogni altra condizione, perdere voti a favore dei loro competitor posizionati al centro (SUE e Azione) e a sinistra (Verdi-Sinistra, Pace, Terra, Dignità). Inoltre, come corollario alla teoria, giova ricordare che analisi più recenti (es. Schulte-Cloos 2018) mostrano che le elezioni europee favoriscono soprattutto il successo dei partiti challenger (es. Libertà di De Luca o Pace, Terra, Dignità di Santoro) e, in particolare, di quei partiti che enfatizzano nelle proprie campagne elettorali nazionali il tema dell’Europa, sia in senso positivo (es. SUE, Azione) sia negativo (es. Lega).[4]

    Il risultato atteso dei partiti Possiamo a questo punto riassumere in una singola tabella le aspettative generate dalla teoria sulle performance attese dei partiti italiani: si tratta della Tabella 1. Limitandoci a valutare le conseguenze della teoria di Reif e Schmitt (1980) sui partiti italiani del 2024 – quindi senza tener conto degli effetti di breve periodo dovuti alla campagna elettorale, alla popolarità dei leader e alla qualità di candidati e programmi elettorali – siamo così in grado di definire la base strutturale del risultato, sulla quale poi valutare se i partiti, con i loro leader e le loro campagne, siano riusciti a fare meglio o peggio. Questa base strutturale risulta come segue. Anzitutto Fratelli d’Italia e M5S, per motivi diversi, dovrebbero peggiorare nettamente rispetto alle politiche del 2022. Al contrario, Lega, Verdi-Sinistra e i due partiti di centro (SUE e Azione) dovrebbero migliorare nettamente il proprio risultato. Infine, il PD dovrebbe migliorare leggermente, mentre Forza Italia dovrebbe registrare una lieve flessione. Tabella 1. Performance attesa dei partiti italiani alle europee 2024 rispetto alle politiche 2022 sulla base del modello. Sulla base di tali aspettative, potremo quindi valutare eventuali risultati devianti rispetto a questo modello come un successo o un insuccesso del partito in questione. Questo semplice strumento di analisi ci fornisce allora una guida utile per interpretare in modo relativamente più oggettivo il risultato del voto, tenendo conto dei vincoli strutturali che condizionano il risultato dei diversi partiti, a prescindere dalle loro performance di campagna. In un contesto, quello italiano, in cui – la notte elettorale e i giorni immediatamente successivi – tutti i partiti dichiarano, per un motivo o per un altro, di aver vinto (spesso usando lo strumento di comparazione più conveniente alla propria argomentazione: sondaggi della vigilia, aspettative pre-voto, confronto con le politiche, confronto con le europee, ecc.) ci sembra utile portare un contributo che permetta di separare diversi fattori. A questo punto non resta che attendere il risultato. Stiamo a vedere.  

    Bibliografia

    Cataldi, M., Emanuele, V., & Maggini, N. (2024), ‘Territorio e voto in Italia alle elezioni politiche del 2022’, in A. Chiaramonte and L. De Sio (eds.), Un polo solo. Le elezioni politiche del 2022, Bologna, Il Mulino, pp.177-216.

    Chiaramonte, A., De Sio, L. & Emanuele, V. (2020), Salvini’s success and the collapse of the Five-star Movement: The European elections of 2019, Contemporary Italian Politics, 12(2), 140-154.

    Hirschmann, A.O. (1970). Exit, Voice and Loyalty, Cambridge, Mass.: Harvard University Press.

    Hix, S., & Marsh, M. (2011). Second-order effects plus pan-European political swings: An analysis of European Parliament elections across time. Electoral Studies, 30(1), 4-15.

    Marsh, M. (1998). Testing the second-order election model after four European elections. British Journal of Political Science, 28(4), 591-607.

    Paldam, M. (1981). An essay on the rationality of economic policy: The test-case of the electional cycle. Public Choice, 37(2), 287-305.

    Reif, K., & Schmitt, H. (1980). Nine second‐order national elections–a conceptual framework for the analysis of European Election results. European Journal of Political Research, 8(1), 3-44.

    Reif, K., Schmitt, H., & Norris, P. (1997). Second‐order elections. European Journal of Political Research, 31(1‐2), 109-124.

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    Tufte, E.R. (1975). Determinants of the outcomes of midterm Congressional elections. American Political Science Review, 69(3), 812-826.

     

    [1] L’eccezione può essere rappresentata dalla presenza di alte soglie di sbarramento che possono far percepire come ‘sprecato’ il voto a formazioni minori che, secondo i sondaggi, sono date ampiamente sotto la soglia stessa (sul punto, vedi nota 4). Tuttavia, questo meccanismo si applica solo agli elettori più sofisticati che conoscono i sondaggi e i rapporti di forza tra i partiti.

    [2] Ad acuire ancor di più la differenza Nord-Sud in termini di partecipazione rispetto alle politiche contribuisce la contemporanea presenza delle elezioni regionali in Piemonte. Inoltre, si voterà per le elezioni comunali in circa 3700 comuni. Nel 2019, fu proprio nel Sud che si registrarono i maggiori differenziali fra comuni in cui si votava solo per le europee e comuni in cui si votava anche per le comunali (+27,8 punti in questi ultimi a fronte di una media di +20,5 in Italia, vedi Chiaramonte, De Sio e Emanuele 2020). Eppure, anche in questo caso, la distribuzione territoriale dei comuni in cui si voterà anche per le elezioni comunali premia il Centro-Nord (solo il 26% di questi comuni si trova al Sud e vi risiede solo il 23% circa della popolazione chiamata alle urne per le elezioni comunali).

    [3] Per approfondire, vedi Cataldi, Emanuele e Maggini (2024).

    [4] La performance attesa di Verdi-Sinistra, SUE e Azione, però, potrebbe risentire negativamente della presenza della soglia di sbarramento nazionale al 4% prevista dalla legge elettorale. I sondaggi pubblicati prima del blackout (https://www.youtrend.it/2024/05/24/supermedia-youtrend-agi-sue-avs-e-azione-supereranno-lo-sbarramento-2/) davano questi partiti attorno alla soglia e questo elemento potrebbe scoraggiare alcuni elettori potenziali. A maggior ragione, i partiti challenger minori, come Libertà e Pace, Terra, Dignità, stimati ampiamente sotto la soglia, rischiano di essere abbandonati dagli elettori più strategici.

  • Squeezing Blood from a Turnip? The Resilience of Social Democratic Governmental Power in Western Europe (1871–2022)

    Squeezing Blood from a Turnip? The Resilience of Social Democratic Governmental Power in Western Europe (1871–2022)

    Vincenzo Emanuele & Federico Trastulli (2023) Squeezing Blood from a Turnip? The Resilience of Social Democratic Governmental Power in Western Europe (1871–2022), Representation.

    In recent years, a growing body of literature has revived its interest in social democratic parties, emphasising their allegedly irreversible crisis in Western Europe. However, all such accounts focus solely on electoral results, thus neglecting governmental power, the decisive factor to realise social democratic parties’ policy goals. To address this gap, the article tests whether the decline of social democracy is confirmed in terms of governmental power, for which an index that remedies the limitations of existing measures is employed. Through comparative longitudinal analysis on 20 Western European countries and more than 600 legislatures between 1871 and 2022, the article finds that the governmental power of social democracy has remained fundamentally the same as in the golden age of class politics. In particular, in contexts of high party system fragmentation and strong radical left competition, social democratic parties have still managed to secure relevant government positions despite their declining electoral performance.

  • Class cleavage electoral structuring in Western Europe (1871–2020)

    Class cleavage electoral structuring in Western Europe (1871–2020)

    Emanuele, V. (2023), ‘Class cleavage electoral structuring in Western Europe (1871–2020)’, European Journal of Political Research,

    Despite the huge amount of studies on cleavages, scholars have never elaborated a dynamic model to conceptualize and measure the stages of electoral development of the class cleavage and, specifically, the stage corresponding to its full electoral structuring. To fill this gap, by combining some key electoral properties of the class cleavage, I build a model that returns, for each country in each election, the current stage of electoral development of the class cleavage. I test this model in 20 Western European countries from the late 19th century to 2020. Results show that an electorally structured class cleavage has characterized most of Western Europe’s electoral history. However, contrary to conventional wisdom, it is not merely a product of socio-structural factors that have been experiencing an irreversible decline. Conversely, its demise or resilience is a matter of the national political context, as it mostly depends upon specific party system characteristics.

  • Back to the (conservative) origins: the 2022 municipal election in Palermo

    Back to the (conservative) origins: the 2022 municipal election in Palermo

    Emanuele, V. & Improta, M. (2022). Back to the (conservative) origins: the 2022 municipal election in Palermo. Pôle Sud, 57, 85-97. https://doi.org/10.3917/psud.057.008

    The article has been published on Pôle Sud – Revue de Science Politique de l’Europe Méridionale and can be accessed here.

    Palermo is a political laboratory. It presents a clear moderate-conservative profile regarding voting behaviour since the early stages of Italy’s democratic instauration. After a continued centrality of Christian Democracy (DC) in the so-called First Republic and despite a structural advantage of centre-right political formations since the 1990s, the city was controlled by a key political figure: Leoluca Orlando, the incumbent of the 2022 electoral competition with centre-left positions on most crucial issues, yet the leader of civic lists that have traditionally obtained large consensus among Palermo’s citizens (Azzolina 2009). This study contributes to the electoral research on Palermo by investigating the outcome of the 2022 municipal election held on June 12, 2022. Along these lines, the study is structured as follows. Firstly, it illustrates the main features of Palermo’s electoral history by emphasising the role of Orlando’s legacy and the centre-right ruling class. Secondly, the study presents the electoral supply for the competition by highlighting the coalition strategies followed by the main political formations. Then, the third section deals with the electoral campaign, characterised by left parties’ disengagement and limited issue entrepreneurship. Moreover, the fourth part presents the electoral results, focusing particularly on the high abstentionism recorded, the vote shares obtained by candidates and parties, and the aftermath of the election. Then, a concluding section follows.

  • When institutions matter: electoral systems and intraparty fractionalization in Western Europe

    When institutions matter: electoral systems and intraparty fractionalization in Western Europe

    Emanuele, V., Marino, B., and Diodati, N. M. (2022) When institutions matter: electoral systems and intraparty fractionalization in Western Europe, Comparative European Politics, DOI: 10.1057/s41295-022-00319-z

    The comparative study of intraparty divisions and their determinants has been a long-debated matter, but some issues remain unresolved. First, the problem of the empirical identification of intraparty groups. Second, the lack of comparative perspective and large-N cross-country and cross-time analyses, given intraparty divisions have been studied mostly through theoretical or, at best, small-N analyses. Third, the underestimation of the potential role exerted by contextual factors because of the emphasis put almost exclusively on intraparty dynamics. To fill these gaps, the article employs a measure of visible intraparty fractionalization allowing for large-N cross-time and cross-country comparison. Moreover, by focusing on about 700 party cases in 11 Western European countries since 1965, the article shows that institutional factors, particularly electoral systems’ characteristics, impact intraparty fractionalization. Specifically, intraparty fractionalization is higher in more disproportional systems and where there are stronger incentives for personal vote.

  • Sud chiama Nord? Voto e territorio nell’Italia del 2022

    Sud chiama Nord? Voto e territorio nell’Italia del 2022

    Uno degli aspetti più discussi in questi giorni sul voto di domenica 25 settembre riguarda il consenso dei partiti italiani sul territorio. La meridionalizzazione del Movimento Cinque Stelle (M5S), l’arretramento verso Nord della Lega dopo l’espansione di questi anni a Sud del Po e perfino del Tevere e la debolezza del Partito Democratico (PD) al di fuori delle ZTL sono solo alcuni degli argomenti al centro del dibattito post-voto. Argomenti su cui vale la pena di fare chiarezza guardando empiricamente al rapporto fra voto e territorio sotto diversi aspetti: la nazionalizzazione della competizione, la dimensione demografica dei comuni e le zone geopolitiche.

    Fortissima territorializzazione del M5S, Lega sempre più nazionale

    Il primo indicatore su cui ci focalizziamo è quello relativo alla nazionalizzazione del voto. Rispondiamo ad una semplice domanda: quanto è omogeneo il consenso ai partiti sul territorio? Bochsler (2010) ha sviluppato lo standardized Party System Nationalization Score (sPSNS) che ci fornisce questa sintetica informazione. Si tratta di un indice che oscilla fra 0 e 100, dove a valori alti corrisponde una maggiore omogeneità territoriale del consenso. Per ipotesi, se ciascun partito ottenesse esattamente la stessa percentuale di voto in ogni unità territoriale (nel nostro caso, le regioni italiane), l’indice ci darebbe un valore di 100. Come vediamo nella Figura 1, il livello di nazionalizzazione nel nostro paese è cresciuto nel corso della Seconda Repubblica fino al picco massimo del 1976, per poi declinare, soprattutto in corrispondenza della transizione fra Prima e Seconda Repubblica, quando l’emersione della Lega Nord ha ridotto drasticamente l’omogeneità territoriale del voto nel paese. Nel corso della Seconda Repubblica abbiamo poi assistito ad un graduale riassestamento dell’indice su valori relativamente alti, anche in chiave comparata. Infine, nel 2018, con l’inizio del processo di meridionalizzazione del M5S, l’indice è tornato a scendere, mostrando valori che indicano una regionalizzazione complessiva del consenso piuttosto marcata. Il 2022 risulta complessivamente in continuità con il 2018. Si nota solo una leggera crescita del valore dell’indice (da 0.822 a 0.833). Dal momento che il valore aggregato dell’indice è frutto della composizione dei valori individuali dei partiti (pesati per il rispettivo consenso elettorale), è utile scendere al livello delle singole liste per capire quali partiti hanno ottenuto un consenso più omogeneo e quali invece risultano marcatamente concentrati in una parte del territorio.

    Figura 1. Nazionalizzazione del voto in Italia, Camera, 1948-2022.

    Nota: in continuità con lavori precedenti (Emanuele 2015; 2018), sono stati considerati i partiti che hanno ottenuto almeno il 3% di voto a livello nazionale o almeno il 4% in una regione.

    Fonte: nostre elaborazioni su dati del Ministero dell’Interno.

    La Tabella 1 fornisce il dettaglio dell’indice di nazionalizzazione per le singole liste. Possiamo distinguere i partiti italiani in tre categorie fondamentali: nazionalizzati (sPSNS superiore a 0.85), regionalizzati (sPSNS compreso fra 0.45 e 0.85) e locali (sPSNS inferiore a 0.45). Fratelli d’Italia (FDI), cresciuto dal 4,4 al 26%, come quasi sempre accade ai i partiti in espansione, si è ulteriormente nazionalizzato rispetto al 2018 (da 0.878 a 0.902) e risulta essere oggi il partito con il consenso più omogeneo sul territorio italiano (nel 2018 questo ‘record’ apparteneva a Liberi e Uguali). Fra i partiti classificabili come nazionalizzati troviamo il PD, in crescita rispetto al 2018 (da 0.860 a 0.888) grazie al parziale recupero nel Sud, e Forza Italia che invece segue il trend opposto e accentua un po’ di più la propria concentrazione nelle regioni meridionali. Sebbene rimanendo sotto il 3% dei consensi, Più Europa fa segnare un forte incremento dell’indice (da 0.808 a 0.860) che le permette di entrare nel gruppo dei partiti nazionalizzati.

    L’aspetto più interessante della tabella riguarda però i due partiti classificati come regionalizzati, la Lega e il M5S. Qui registriamo i cambiamenti più rilevanti rispetto al passato. Non è vero, come molti stanno dicendo, che la Lega si è rintanata nuovamente nelle regioni del Nord. In una fase di arretramento elettorale la concentrazione territoriale è solitamente l’esito più probabile (Caramani 2004). Tuttavia, non è questo il caso. Anzi, la Lega del 2022 registra il livello di nazionalizzazione più alto della sua storia politica: dopo essere stata un partito essenzialmente locale ai tempi della leadership di Bossi (con un sPSNS medio nel periodo 1992-2013 di 0.432, vedi Emanuele 2018, 195), la svolta nazionale di Salvini aveva portato l’indice di Bochsler a 0.713 nel 2018. Oggi la crescita dell’indice fino a 0.791 testimonia il fatto che l’arretramento elettorale è stato più forte nel Nord e ciò ha contribuito ad appiattire le differenze fra le diverse unità territoriali del paese. Il M5S registra invece una tendenza esattamente opposta. Al momento del suo primo boom elettorale, nel 2013, il partito di Grillo era il più ‘nazionalizzato’ della storia repubblicana insieme alla Democrazia Cristiana degli anni ‘50-’70 (Emanuele 2015). A partire dal 2018 abbiamo invece assistito all’avvio di un processo di profondo cambiamento, con la progressiva perdita dell’originale trasversalità territoriale a vantaggio di una sempre più marcata meridionalizzazione. Già nel 2018, con un sPSNS di 0.837, il M5S risultava il partito con il consenso più disomogeneo fra le principali forze politiche italiane e, in un’ottica diacronica, l’unico della storia del paese fra quelli con più del 20% dei consensi a mostrare un sPSNS inferiore a 0.850 (Chiaramonte e Emanuele 2018). Oggi il processo di meridionalizzazione si accentua ulteriormente e l’indice di nazionalizzazione mostra un crollo di 0.150 punti, un valore enorme per l’indice di Bochsler. Con 0.688, il partito di Conte è oggi a tuti gli effetti una forza politica regionalizzata. Infine, gli autonomisti altoatesini della SVP e la nuova lista ‘Sud chiama Nord’ di Cateno De Luca, capace di vincere il collegio di Messina sia alla Camera che al Senato, mostrano valori prossimi allo 0 dell’indice e si configurano chiaramente come partiti locali.

    Tabella 1. La nazionalizzazione dei partiti italiani, Camera 2022.

    La dimensione demografica: un’Italia di piccoli comuni, in cui domina la destra

    L’analisi della nazionalizzazione del voto ci ha fornito un primo quadro interpretativo. Però, per capire davvero cosa è successo a livello territoriale, dobbiamo  scendere ad un più basso livello di dettaglio e ‘spacchettare’ il consenso ai partiti italiani dentro le diverse categorie territoriali. Sulla scorta di studi classici sul tema (Corbetta, Parisi e Schadee 1988; Spreafico e Caciagli 1990) e di nostre precedenti analisi (Emanuele 2011; Emanuele 2013a) abbiamo diviso i 7904 comuni italiani  in 5 categorie di dimensione demografica: i ‘microcomuni’ (fino a 5000 abitanti), i piccoli centri (fra 5000 e 15000), i comuni di cintura (15000-50000), i medi centri urbani (50000-100000) e le grandi città (oltre 100000 abitanti). Abbiamo poi distinto fra tre zone geopolitiche, il Nord, la (ormai ex) Zona rossa (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche) e il Sud (dal Lazio in giù, ma con l’esclusione di Roma che è stata considerata separatamente nell’analisi dal momento che per caratteristiche socio-economiche e culturali si distingue nettamente dal resto del Sud).

    Se guardiamo al voto per dimensione demografica fra le due coalizioni principali, notiamo la riproposizione della tradizionale differenza fra blocco conservatore e progressista già osservato in tutte le elezioni precedenti. Questa volta, però, a differenza che in passato (vedi Emanuele 2013b), il distacco di oltre 18 punti a livello nazionale fra centrodestra e centrosinistra fa sì che la coalizione di Letta non riesca a sorpassare il centrodestra in nessuna categoria a livello nazionale. Tuttavia, come mostra la Figura 2, a fronte dei quasi 30 punti di distacco nei microcomuni (35 nei microcomuni del Nord), nelle grandi città meno di 3 punti separano le due coalizioni (e le grandi città della Zona rossa sono l’unica categoria in cui il centrosinistra è davanti). Queste differenze sono frutto di un andamento lineare molto chiaro del consenso al crescere dell’ampiezza demografica del comune: negativo per il centrodestra e positivo per il centrosinistra.

    E qui si innesta una gigantesca distorsione nel modo in cui viene raccontato il paese nella narrazione mediatica: un enorme bias ‘urbano’ porta a pensare che le dinamiche politiche prevalenti nel paese siano quelle delle grandi città. Eppure, guardando freddamente i numeri, ci accorgiamo di quanto poco contino le grandi città rispetto ai comuni inferiori e di come, fondamentalmente, l’Italia rimanga ancora oggi un paese di piccoli comuni. Nelle città con oltre 100.000 abitanti (inclusa Roma) abita il 23,3% della popolazione contro il 40,1% che invece risiede in comuni inferiori ai 15.000 abitanti. Questi ‘rapporti di forza’ sono rimasti sostanzialmente immutati negli ultimi 15 anni (Emanuele 2011, 119). Un’Italia spesso trascurata e dimenticata ma che esiste e vota (solitamente a destra). Ma c’è di più: se ne facciamo una questione di voti validi, dalle grandi città (dove l’astensione è più alta) proviene appena il 18,1% dei voti. Le elezioni si vincono in provincia.

    Figura 2. Voto alle due coalizioni per categoria di dimensione demografica dei comuni, Camera 2022.

    Grandi città, piccoli centri e zone geopolitiche: le molte ‘Italie’ del 2022

    Scendendo ancora nel dettaglio, la Tabella 2 riporta la percentuale di voti raccolta dai principali partiti italiani nelle cinque categorie di dimensione demografica (più Roma) sia nell’Italia nel suo complesso che nelle tre zone geopolitiche. Emerge un quadro per certi aspetti noto con alcuni profili di novità e l’immagine complessiva di un territorio nazionale frastagliato. Non c’è una sola Italia elettorale, ma molte e diverse. Al di là di alcune peculiarità residuali dovute a retaggi subculturali e vecchi radicamenti, si notano in particolare due linee di faglia che distinguono le traiettorie del consenso ai partiti: la frattura Centro-Nord vs. Sud (con la Zona rossa ormai sempre più assimilabile alle regioni settentrionali) e la frattura città-campagna. Da queste fratture emergono fondamentalmente tre ‘Italie’ che si differenziano nettamente circa il comportamento di voto degli elettori e il consenso dei partiti: l’Italia dei piccoli comuni, l’Italia delle grandi città del Centro-Nord e infine il Sud.

    Tabella 2. Voto ai partiti per zona geopolitica e dimensione demografica dei comuni, Camera 2022.

    Nota: Valle d’Aosta esclusa dall’analisi.

    Fonte: Elaborazione su dati ISTAT e Ministero dell’Interno.

    I partiti della coalizione di centrodestra sono caratterizzati, come mostra la Tabella 3, da un profilo marcatamente ‘Village oriented’ (Emanuele 2011, 134): il loro consenso diminuisce monotonicamente all’aumentare dell’ampiezza demografica del comune. Se questa non è affatto una novità per la Lega, che da sempre ha nei microcomuni e nei piccoli centri le proprie zone di forza, lo è maggiormente per Forza Italia che in passato aveva mostrato un profilo ‘All around’, cioè sostanzialmente omogeneo fra le varie categorie di dimensione demografica. E anche FDI devia sensibilmente dal suo progenitore, Alleanza Nazionale, che invece aveva elle grandi città (del Sud in particolare) la propria zona di forza.

    Appare evidente come nel caso di Forza Italia sia intervenuta una trasformazione radicale nel profilo del partito che ha perso posizioni nel Nord produttivo e si è ramificato sempre di più nel Sud, assumendo sostanzialmente il profilo di un partito notabiliare post-democristiano (Baccetti 2007), con un forte consenso nei piccoli comuni e un rapporto di franchising delle elite locali con il brand nazionale (Carty 2004). Il partito di Berlusconi supera il 12% nei microcomuni del Sud, quasi il triplo del consenso che ottiene invece a Roma.

    Per quanto concerne FDI, invece, sembra sia intervenuto un radicale processo di sostituzione, soprattutto nel Nord: il partito di Giorgia Meloni è diventato il punto di riferimento di territori e gruppi sociali che in passato erano ancorati alla Lega. Solo così possiamo spiegare il profilo marcatamente village oriented di FDI, che ad esempio lascia sul campo 10 punti percentuali nel passaggio fra i microcomuni del Nord (un tempo cassaforte leghista) e le grandi città settentrionali. La Lega, che a differenza di quanto pensavano molti, non è scomparsa nel Sud (ha il 5,9%, più del Terzo polo), è però stata cannibalizzata da FDI nel Centro-Nord. Mantiene il suo profilo tipicamente rurale, con il 15% abbondante nei microcomuni del Nord, circa il doppio di quanto ottiene nei grandi centri della stessa area. Entrambi, sia la Lega che FDI, soffrono al Sud. Per FDI questo elemento segna una forte discontinuità con la tradizione della destra italiana: nel 1996 Allenza Nazionale era il primo partito nel Sud e dominava in particolare nelle grandi città. Oggi invece, il partito di Meloni si ferma al 18,5% nei grandi centri meridionali.

    Il Mezzogiorno è, lo abbiamo già anticipato, l’area di forza del M5S. Da questa zona provengono 61 voti su 100 al partito di Giuseppe Conte. Per comprendere appieno la sovra-rappresentazione del M5S in quest’area del paese, basti pensare che al Sud è stato espresso il 35% del totale dei voti validi. Una sproporzione che raramente si è vista in partiti nazionali con un consenso superiore al 15%. Il profilo del partito, a livello nazionale, è rimasto sostanzialmente all around: l’area di maggior forza è ancora quella dei medi centri urbani, come già nel 2013 (Emanuele 2013a): Eppure, lo inseriamo come ‘City oriented’ perché nell’area chiave del suo consenso, il Sud, mostra una crescita monotonica fra microcomuni (21,4%) e grandi città (31,8%). Questo andamento è visibile, fatte le dovute proporzioni, anche al Nord, dove fra i microcomuni il partito di Conte registra la più bassa percentuale in assoluto fra le categorie prese in considerazione (6,5%)[1]. Nella Zona rossa, invece, il Movimento è indifferente alla dimensione demografica (oscilla tra il 10 e l’11% nelle diverse categorie).

    Tabella 3. Partiti italiani e territorio: una sintesi

    Il PD conferma il profilo urbano che ha mostrato senza eccezioni sin dalla sua fondazione (Emanuele 2011). Nelle grandi città del paese è il primo partito con il 23% (stessa percentuale di Roma dove però è superato da FDI). Nel Nord, dove il partito è complessivamente sotto la media nazionale (18,7% vs. 19,1%) è doppiato da FDI nei comuni inferiori ai 15.000 abitanti e invece risulta primo nelle grandi città con il 24,5%. Nella Zona rossa il partito di Letta mantiene una relativa sovra-rappresentazione in tutte le categorie, ma è battuto nettamente da FDI nei comuni inferiori ai 50.000 abitanti. Lo storico radicamento subculturale, che si traduceva in un profilo all around nelle regioni rosse, è ormai un ricordo del passato. Anche qui, come nel Nord, l’andamento del partito è di crescita monotonica verso le grandi città. Interessante infine notare che al Sud il profilo del partito ricalca esattamente quello delle elezioni precedenti. Sebbene si tratti di piccole oscillazioni rispetto alla media (15,3%, in crescita rispetto al 2018), il partito di Letta mostra una relativa sovra-rappresentazione non solo nelle grandi città (dove comunque è surclassato dal M5S che prende quasi il doppio dei suoi voti), ma anche nei microcomuni meridionali (16,6%), con un andamento a ‘U’ che veniva fatto registrare già dal Pds nel 1996 (Emanuele 2011, 124).

    Oltre al PD, il gruppo dei partiti city oriented è popolato da altre tre liste che nella Prima Repubblica sarebbero state probabilmente chiamate con l’appellativo di ‘partiti laici’. La lista Sinistra-Verdi, Più Europa (+EU) e soprattutto la neonata compagine di Azione-Italia Viva (AZ-IV) raccolgono un voto ‘di opinione’ (Parisi e Pasquino 1977), prevalentemente urbano, concentrato nelle aree più avanzate del paese e composto in gran parte da ‘vincenti della globalizzazione’ (Kriesi et al. 2006). Tutte e tre le liste crescono monotonicamente dai microcomuni alle grandi città in tutte le zone geopolitiche, senza alcuna eccezione. E tutto questo avviene nella assoluta diversità dei programmi proposti agli elettori: Sinistra-Verdi e AZ-IV si sono scontrati per tutta la campagna elettorale e proponevano programmi radicalmente opposti sull’energia, l’ambiente e l’economia. Eppure si ritrovano sovra-rappresentati negli stessi ‘mondi’. Guardando al profilo di AZ-IV – la principale novità dell’offerta politica di questa tornata elettorale – si nota una doppia frattura, con una netta sovra-rappresentazione nel Centro-Nord e nelle grandi città e una relativa debolezza al Sud e nei piccoli centri. La lista di Calenda è quarta nel Nord (dove supera il M5S), nella Zona rossa (dove fa meglio della Lega) e a Roma (dove ottiene il 10,7%), mentre è solo sesta nel Sud, superata nettamente da Forza Italia e perfino dalla Lega (come poi anche a livello nazionale). Il Terzo polo oscilla fra il 4,8% nei microcomuni del Sud e il 12,1% delle grandi città del Nord, dove è la terza lista più votata dopo FDI e PD. Considerando insieme le tre liste di opinione, l’aggregato di Sinistra-Verdi, +EU e AZ-IV totalizza il 22,6% nelle grandi città del Nord (e sfiora il 20% anche nelle grandi città della Zona rossa e a Roma), mentre si ferma all’8,6% nei microcomuni del Sud.

    Non sembra dunque esserci una risposta omogenea degli elettori alla crisi politica da cui è scaturita questa campagna elettorale estiva. Al contrario, abbiamo individuato almeno tre ‘Italie’ distinte. Nel quadro di una netta vittoria del centrodestra che ha nell’Italia dei piccoli comuni le sue roccaforti, distinguiamo almeno due territori di opposizione: da un lato le aree urbane del Centro-Nord, feudo del PD e dei partiti laici di opinione; dall’altro il Sud, cassaforte elettorale del M5S. L’impressione è che si tratti di tre ‘Italie’ che si stanno differenziando sempre di più dal punto di vista socio-economico e culturale e che di conseguenza sollevano domande diverse nei confronti della politica. Ricomporre le divisioni non sarà semplice.

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    [1] Come mostra la Tabella 3, inoltre, il rapporto fra lo scarto tra massima (31,8%) e minima (6,5%) performance e la media nazionale del M5S (15,4%)  è di 1,64, la più alta fra i partiti italiani.

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    Sulla base delle proiezioni Quorum per Sky TG24*, i risultati delle elezioni politiche italiane del 2022 sembrerebbero configurare un sistema partitico italiano che si confermerebbe come molto instabile. Come si vede dai dati riportati nella Figura 1, la volatilità elettorale si attesterebbe sopra i 30 punti, risultando quindi la terza più alta della storia repubblicana dopo il 1994 e il 2013. (modafinil)

    Figura 1. Volatilità elettorale in Italia (1948-2022)

    In chiave storico-comparata, considerando l’intero universo delle elezioni politiche dell’Europa Occidentale dal 1945 ad oggi, queste elezioni italiane registrerebbero l’ottavo livello di volatilità più alto (31,8 punti), come si vede dalla Figura 2.

    Figura 2. Elezioni con la più alta volatilità in Europa occidentale (1945-2022)

    Il dato più rilevante è però il fatto che l’instabilità che sembrerebbe emergere dalle elezioni politiche italiane del 2022 si inserisce in un quadro di perdurante instabilità del sistema partitico, che caratterizza il nostro paese dal 2013. Come mostra la Figura 3, considerando i casi di maggiore volatilità registrati in 3 elezioni consecutive, l’Italia del decennio 2013-2022 registra la più alta volatilità complessiva, con un valore aggregato di 95,05 punti, superiore anche a quello della Grecia nel drammatico periodo 2012-2015 (87,7 punti).

    Normalmente, dopo un’elezione con alta volatilità, si assiste ad una successiva ristabilizzazione del sistema. Già nel 2018 avevamo commentato l’eccezionalità di due elezioni consecutive con alta volatilità. Adesso il caso italiano diventa ancora più eclatante e rafforza l’idea che il processo di deistituzionalizzazione del sistema partitico sia ancora in corso.

    Figura 3. I casi di volatilità più alta in 3 elezioni consecutive in Europa occidentale (1945-2022)

    *I DATI DI VOLATILITA’ CALCOLATI SUI RISULTATI FINALI SONO DISPONIBILI NEL DATASET DI EMANUELE (2015) QUI.