Autore: Vincenzo Emanuele

  • L’Italicum punto per punto: ecco cosa prevede

    Vincenzo Emanuele

    La legge elettorale approvata al Senato lo scorso 27 gennaio configura un sistema elettorale che si pone in continuità con quelli già da anni sperimentati in Italia a tutti i livelli di governo – nel senso che si tratta di un sistema “misto” maggioritario-proporzionale i cui elementi caratterizzanti sono il premio di maggioranza e il doppio turno eventuale –  ma che presenta comunque significative novità. Le più rilevanti riguardano: 1) le modalità di assegnazione del premio di maggioranza; 2) la previsione di un ballottaggio; 3) la soglie di sbarramento;  4) il numero e l’ampiezza dei collegi elettorali; 5) le modalità di elezione dei rappresentanti. Vediamo però come funzionerebbe nel suo complesso il nuovo sistema elettorale alla Camera, analizzandolo nei suoi meccanismi principali.

    A. Circoscrizioni e collegi plurinominali. Il territorio nazionale è suddiviso in 20 circoscrizioni elettorali, corrispondenti alle regioni italiane. A sua volta ciascuna circoscrizione, con l’eccezione della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige, per le quali sono previste disposizioni particolari (vedi sotto), è divisa in collegi plurinominali, in ognuno dei quali è assegnato un numero di seggi compreso fra 3 e 9 a seconda della popolazione residente, sulla base dei risultati dell’ultimo censimento generale della popolazione, per un totale di 100 collegi plurinominali. La popolazione di ciascun collegio può scostarsi dalla media della popolazione dei collegi della circoscrizione di non oltre il 20% in eccesso o in difetto. La circoscrizione Molise è costituita da un unico collegio plurinominale. (Xanax)

    B. Liste e pluricandidature. Le liste sono presentate nei collegi plurinominali e sono formate da un numero di candidati compreso tra la metà e il totale dei seggi spettanti al collegio. In altri termini, le liste dei candidati sono relativamente “corte”. Per presentare una lista in un collegio sono necessarie tra le 1500 e le 2000 sottoscrizioni da parte di elettori residenti in quel collegio. Ogni lista è composta da un candidato capolista (il ‘capolista bloccato’) e da un elenco di candidati presentati secondo un ordine numerico. E’ prevista la possibilità di presentare pluricandidature per i soli capolista, fino a un massimo di 10 collegi plurinominali. Mentre quindi un candidato può presentarsi da capolista in massimo 10 collegi, un candidato non capolista può presentarsi in un unico collegio plurinominale.

    C. Voto, scheda e norme di genere. L’elettore esprime il suo voto a favore di una lista tracciando un segno sul relativo simbolo. L’elettore può esprimere uno o due voti di preferenza per i candidati di una lista. Il nominativo del candidato capolista ‘bloccato’ di ciascuna lista è riportato sulla scheda, alla sinistra del simbolo della rispettiva lista. Alla destra del simbolo della lista sono presenti due righe per esprimere i due voti di preferenza indicando nome e cognome del candidato votato. Sono poi previste alcune norme volte a favorire l’equilibrio di genere tra candidati uomini e donna: 1) I candidati non capolista in ciascun collegio sono presentati secondo un ordine alternato di genere,  tale che non vi siano più di due candidati consecutivi dello stesso genere e che nessuno dei due sessi sia rappresentato in misura superiore al 50% nel complesso dei candidati della lista nella circoscrizione; 2) Come detto, l’elettore può esprimere uno o due voti di preferenza per i candidati di una lista. Se esprime due voti, questi devono essere attribuiti a candidati di genere diverso, pena la nullità del voto; 3) In ogni circoscrizione, nessuna lista può prevedere più del 60% di candidati capolista dello stesso sesso nei collegi plurinominali di quella circoscrizione. Il mancato rispetto di tali norme comporta la non ammissione della lista.

    D. Soglie di sbarramento. L’accesso alla ripartizione dei seggi e, dunque, alla rappresentanza parlamentare dipende per ciascuna lista dal numero di voti ottenuti, ossia dal raggiungimento della soglia di sbarramento che è del 3% del totale dei voti validi a livello nazionale (Valle d’Aosta e Trentino Alto-Adige compresi). Per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute presentate esclusivamente in circoscrizioni comprese in una delle regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela di tali minoranze linguistiche, la soglia è il 20% dei voti validi espressi nel complesso delle circoscrizioni della regione in cui sono presenti.

    E. Arene di competizione. Ai fini dell’elezione della Camera dei deputati si possono distinguere quattro arene:

    1. la prima, e principale, è quella corrispondente all’intero territorio nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza e dei seggi alle liste che superano la soglia di sbarramento;
    2. la seconda è il collegio uninominale della Valle d’Aosta, che assegna un seggio con formula plurality (della maggioranza relativa) al candidato che ha conseguito il maggior numero di voti;
    3. la terza è costituita dalla circoscrizione Trentino Alto Adige, in cui i seggi spettanti in base alla popolazione residente (11) sono assegnati con formula plurality negli 8 collegi uninominali in cui è diviso il suo territorio e per il resto con formula proporzionale d’Hondt a livello della circoscrizione;
    4. la quarta arena è costituita dalla circoscrizione estero, nella quale continuano ad essere assegnati 12 seggi e per la quale valgono le norme già vigenti.

    Occorre qui sottolineare due novità rispetto alla legge Calderoli. La prima è che il Trentino Alto Adige presenta regole diverse dal resto delle circoscrizioni. La seconda novità è che lo stesso Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta non sono arene completamente separate dalla prima, poiché i voti in esse espressi sono computati ai fini del raggiungimento delle soglie di sbarramento alla rappresentanza e delle soglie per l’attribuzione del premio di maggioranza nell’arena principale (non era così per la Valle d’Aosta con legge Calderoli, questione sulla quale molti, in passato, hanno espresso dubbi di legittimità costituzionale).

     F. Premio di maggioranza, ballottaggio e attribuzione dei seggi alle liste. Il sistema elettorale in questione è majority-assuring, assicura cioè sempre e comunque al vincitore la maggioranza assoluta dei seggi. Ciò accade grazie al premio e all’eventuale ballottaggio,.  Sono possibili due situazioni:

    1)La lista con il maggior numero di voti validi ha ottenuto al primo turno almeno il 40% del totale dei voti validi espressi. In tal caso se tale lista ha conseguito almeno 340 seggi con il semplice riparto proporzionale dei seggi (con metodo del quoziente e dei più alti resti) resta ferma tale attribuzione; se invece la lista che ha raccolto il 40% dei voti non ha raggiunto la quota-premio di 340 seggi, tale quota-premio gli viene comunque attribuita. Si procede poi alla ripartizione (sempre a livello nazionale) dei seggi spettanti alle altre liste che hanno superato lo sbarramento del 3% (le ‘liste di minoranza’). A tal proposito si calcola il ‘quoziente di minoranza’, dato dal totale delle cifre elettorali nazionali di tali liste diviso per il numero dei seggi da assegnare, ossia 618-340 = 278 (i 12 seggi eletti all’estero non entrano nel computo). Si procede quindi alla determinazione del totale dei seggi spettanti a ciascuna lista di minoranza.

    2) La lista con la maggiore cifra elettorale nazionale non ha raggiunto il 40% del totale dei voti validi espressi. In tal caso si procede a distanza di due settimane ad un secondo turno di votazione – il ballottaggio – tra le due liste che al primo turno hanno conseguito la maggiore cifra elettorale nazionale. Tra il primo e il secondo turno non sono consentiti apparentamenti con altre liste rimaste fuori dal ballottaggio, per cui le liste che partecipano al ballottaggio lo fanno nella stessa configurazione del primo turno. Il premio di maggioranza è aggiudicato alla lista che consegue il maggior numero di voti in questo turno di ballottaggio, che ottiene dunque 340 seggi. Restano valide in questo caso le modalità di assegnazione dei seggi alle liste di minoranza riportate al punto 1).

    Oltre al ballottaggio, il premio assegnato alla lista invece che alle coalizioni di liste come avveniva con la legge Calderoli è una novità molto significativa di questo sistema elettorale..

    G. Dal livello nazionale ai collegi plurinominali. Una volta determinato a livello nazionale, a seguito dell’eventuale premio di maggioranza assegnato al primo o al secondo turno, il numero dei seggi spettanti alle liste, si procede alla loro distribuzione territoriale, in prima battuta alle circoscrizioni e poi, all’interno di ciascuna di esse, ai vari collegi plurinominali. Ciò avviene tramite il metodo del quoziente e dei più alti resti: si determina il ‘quoziente di maggioranza’ (totale voti lista vincente a livello nazionale/ numero di seggi ad essa spettanti) per la lista vincente al fine di attribuire poi i seggi ad essa spettanti  nelle varie circoscrizioni sulla base delle diverse cifre elettorali conseguite dalla lista nelle varie circoscrizioni; si determina poi il ‘quoziente di minoranza’ per tutte le altre liste sopra-soglia al fine di attribuire i seggi rimanenti ad esse spettanti nelle varie circoscrizioni. Si procede poi allo stesso modo dalle circoscrizioni ai collegi, sempre con il metodo del quoziente, questa volta circoscrizionale, di maggioranza e di minoranza.

    H. Dai collegi all’elezione dei deputati. Una volta determinati i seggi spettanti a ciascuna lista in ciascun collegio, saranno eletti per ciascuna lista il capolista e successivamente i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti di preferenza in ciascun collegio. In caso di parità di preferenza conterà l’ordine di presentazione dei candidati nella lista.

  • Sorpasso a destra? Il realignment in Europa occidentale dal Labour a Salvini

    Vincenzo Emanuele

    Uno dei temi dominanti del dibattito pubblico delle ultime settimane riguarda la situazione del centrodestra italiano, sulla cui egemonia Matteo Salvini ha da tempo lanciato un’OPA. Inizialmente ritenuta poco credibile dai media e dagli operatori dell’informazione, l’operazione di Salvini è stata portata avanti con successo già a partire dalla campagna elettorale delle europee, quando tutta l’attenzione mediatica era focalizzata esclusivamente sul duello Renzi-Grillo. Il 6,2% ottenuto dalla Lega il 25 maggio è stato il punto di partenza per la costruzione di una strategia volta ad impadronirsi della leadership del centrodestra italiano, nel quadro di un cedimento strutturale del blocco che per vent’anni è stato guidato da Berlusconi e nel progressivo disorientamento dell’elettorato conservatore, sempre più privo di punti cardinali. Messe in soffitta le storiche rivendicazioni secessioniste e il poco credibile riferimento alla ‘Padania’, archiviato il leader storico (Bossi) e ripulito il partito dopo gli scandali degli ultimi anni, Salvini ha drasticamente modificato la piattaforma programmatica e la collocazione politica della Lega sia nel quadro interno che nel quadro europeo. Ha intuito, prima e meglio di altri, che in Italia (come nel resto dell’Europa) si stava sviluppando un nuovo asse di competizione politica non omologabile alla tradizionale divisione destra-sinistra e basato sull’atteggiamento nei confronti dell’Europa e dell’euro (Eurofili vs. Euroscettici). Si è quindi posto alla guida del fronte antieuropeista che si andava coagulando anche in Italia (da Nord a Sud) e lo ha fatto con più forza e convinzione di Grillo che pure ci aveva provato. (https://veroinn.com/) Ha poi saldato il tema europeo con i temi classici della destra e in parte anche della Lega: stop all’immigrazione, attacco allo stato inefficiente, difesa dei ‘produttori’ soffocati dalle tasse di Roma e dai diktat di Bruxelles. Sono temi che interessano sia il pescatore siciliano che l’allevatore padano. Salvini ha quindi ‘nazionalizzato’ il discorso politico della Lega, cercando di avvicinare quest’ultima nell’omologo italiano del Front National francese: un partito di estrema destra, anti-euro, anti-immigrati e anti-tasse.

    E’ presto per dire se l’operazione riuscirà. La Lega si chiama ancora ‘Lega Nord’ e Salvini spera di prendere i voti al centro-sud con una lista personale (‘Noi con Salvini’). E’ tuttavia evidente che per dare forza e credibilità al nuovo messaggio nazionale della Lega il problema della creazione di un partito unico nazionale si pone.

    Questa strategia di Salvini sembra aver dato già i suoi frutti a livello dell’opinione pubblica. Dopo il 6,2% delle europee e sfruttando lo smarrimento generale in cui è precipitato il centrodestra negli ultimi mesi, la Lega è cresciuta nei sondaggi a ritmi vertiginosi fino a superare Forza Italia. Secondo l’ultimo sondaggio EMG la Lega ha raggiunto il 15,9% mentre Forza Italia è ferma al 12%. Dati simili vengono confermati anche dagli altri istituti. Del resto già il sondaggio CISE-OP di Novembre 2014 individuava la presenza di un potenziale elettorale per la Lega maggiore di quello di Forza Italia (23,6% contro 20.5%).

    Il sorpasso di Salvini su Berlusconi è al momento visibile solo sui sondaggi, ma è un dato da non sottovalutare. Se confermato alle elezioni politiche sarebbe infatti di un risultato di portata storica che ha pochi esempi nell’intera storia dell’Europa occidentale. Si tratterebbe infatti di un ‘riallineamento elettorale’ all’interno di un blocco politico. La letteratura parla a tal proposito di ‘electoral realignment’ (Key 1955; Dalton et al. 1984) per intendere il fenomeno dello spostamento in massa di elettori da un partito ad un altro con conseguente ribaltamento dei rapporti di forza. Questo cambiamento può avvenire in modo repentino, attraverso una ‘elezione critica’, o può essere progressivo (si parla in questo caso di ‘secular realignment’). Il caso forse più noto è avvenuto ormai quasi un secolo fa nel Regno Unito, quando il Labour Party superò i Liberali diventando la principale alternativa ai Tories e ristrutturando il two-party system britannico per i 90 anni successivi.

    Allargando l’orizzonte dell’analisi comparata e prendendo in esame gli anni dal 1945 ad oggi in 19 paesi dell’Europa occidentale[1] per un totale di 336 elezioni, abbiamo verificato quanto spesso, in quali paesi e ad opera di quali partiti, è avvenuto un riallineamento intrablocco, analogo a quello che potrebbe avvenire in Italia tra Lega Nord e Forza Italia. Per effettuare questo calcolo abbiamo considerato, per ciascun paese, due blocchi contrapposti, quello di sinistra (partiti socialisti, socialdemocratici e comunisti) e quello di destra o – per i paesi scandinavi – ‘borghese’ (partiti conservatori, liberali, agrari, di estrema destra). Naturalmente, per effettuare una simile analisi comparata, sono state necessarie alcune forzature in quei paesi caratterizzati dalla presenza di cross-cutting cleavages (Lipset e Rokkan 1967), come Svizzera, Belgio e Olanda, in cui i partiti liberali e cristiano-democratici sono stati considerati all’interno dello stesso blocco di destra o ‘borghese’.

    I dati parlano chiaro: un riallineamento elettorale con conseguente ribaltamento dei rapporti di forza all’interno di un blocco politico è un evento molto raro nella storia elettorale dell’Europa occidentale: è infatti avvenuto solo 37 volte su un totale di 336 elezioni e dunque su un totale di 706 casi potenziali (in ogni elezioni può esserci un riallineamento sia nel blocco di destra che in quello di sinistra). Complessivamente si tratta del 5,5% dei casi. Solo una volta su 18 dunque assistiamo a tale fenomeno.

    Tab. 1 – Casi di riallineamento intrablocco in Europa occidentale

    In 6 paesi su 19 (Austria, Germania, Lussemburgo, Malta, Portogallo e Regno Unito) non è avvenuto alcun riallineamento dal 1945 e i due blocchi continuano ad essere dominati ancora oggi dagli stessi partiti di 70 fa (40 nel caso del Portogallo). La Tabella 1 illustra nel dettaglio i 37 casi di realignment nei 13 paesi coinvolti: emerge chiaramente come il fenomeno abbia riguardato soprattutto i paesi scandinavi (7 casi in Danimarca, 5 in Finlandia, 4 in Norvegia e Svezia) e nella fattispecie i rispettivi partiti borghesi che si alternano quale principale competitor del dominante Partito socialdemocratico (ben 18 casi su 20 in questi 4 paesi rientrano in questa fattispecie). Il fenomeno ha poi avuto una certa rilevanza anche in Belgio e nei Paesi Bassi (3 casi a testa, sempre riguardanti il blocco di centrodestra).

    E in Italia? Osservando la Tabella 1 scopriamo che vi sono stati due casi di riallineamento. Il primo ha riguardato il blocco di sinistra, con il sorpasso del PCI sul PSI avvenuto nel 1953. Casi analoghi di riallineamenti a sinistra tra socialisti e comunisti sono avvenuti in Finlandia (1962 e 1966), Francia (1978) e Islanda (1987 e 1995). Il secondo caso di riallineamento italiano, ben più recente, è avvenuto nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, con l’elettorato moderato che, dopo la scomparsa della DC, si è spostato su Forza Italia anziché sull’erede naturale dello scudocrociato (il PPI). In questo secondo caso però si tratta di una situazione atipica, nella quale uno dei due partiti facenti parte del confronto è nuovo (Forza Italia) e l’altro cambia nome, forma e struttura tra le due elezioni prese in considerazione (il passaggio da DC a PPI tra il 1992 e il 1994).

    E’ infine interessante notare l’evoluzione nel tempo del fenomeno in questione: oltre la metà dei casi (19 su 37) sono avvenuti dopo il 1990, ossia negli ultimi 25 anni sui 70 presi in considerazione dall’analisi. Tra questi, due sono particolarmente eclatanti e riguardano il contesto di due paesi drammaticamente segnati dalla crisi economica che si è abbattuta sull’Europa a partire dal 2008: l’Irlanda, dove nel 2011 il Fine Gael ha spezzato il quasi secolare dominio del Fiánna Fail nel blocco non-socialista e la Grecia, in cui nel Maggio 2012 il Pasok è stato sostituito nel ruolo di partito leader del fronte progressista da Syriza dopo oltre 30 anni in cui si era alternato con i conservatori di Nuova Democrazia alla guida del paese.

    La Lega di Salvini sarà il prossimo caso?

     

     

    Riferimenti bibliografici

    Dalton, R.J. Flanagan S C and Beck P A (1984) Electoral Change in Advanced Industrial Democracies: Realignment or Dealignment? Princeton: Princeton University Press.

    Key V O (1955) A Theory of Critical Elections. The Journal of Politics 17: 3-18.

    Lipset, S.M. e Rokkan, S. (1967), Cleavage Structures, Party Systems and Voter Alignments: An Introduction, in S.M. Lipset and S. Rokkan (a cura di), Party Systems and Voter Alignments: Cross-National Perspectives, New York, The Free Press, pp. 1-64.



    [1] Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito.

  • Regionali in Calabria, tutti sul carro del vincitore?

    di Vincenzo Emanuele e Bruno Marino

     Mario Oliverio è il nuovo Presidente e il centrosinistra riconquista la regione che nel 2010 era stata vinta dal centrodestra di Scopelliti. Il centrosinistra ha conquistato 19 seggi, il centrodestra 8, mentre la coalizione UDC-NCD ha ottenuto 3 seggi. Rimarranno senza rappresentanza il M5S e la sinistra radicale (vedi Tabella 1).

    L’altro fatto rilevante ha riguardato la partecipazione al voto. L’affluenza è crollata di oltre 15 punti, passando dal 59,3% al 44,1%, seguendo un trend di disaffezione che colpisce ormai da anni con regolarità nelle elezioni a tutti i livelli (politiche, europee, regionali, amministrative), pur senza raggiungere i livelli dell’Emilia-Romagna[1].

    Tab. 1 – Il nuovo Consiglio regionale della Calabria: liste e seggi.

     

    Come possono essere interpretati questi dati?

    Per quanto riguarda la partecipazione, com’è noto, il caso calabrese non è isolato. Il calo di partecipazione in Calabria si inserisce in un più ampio quadro meridionale che ha visto la partecipazione scendere al 47,4% in Sicilia alle regionali 2012 (-19,2 punti rispetto alle regionali 2008), al 47,6% in Basilicata nel 2013 (-15,2% rispetto al 2008), al 52,2% in Sardegna (15,4 punti in meno rispetto al 2014). Come già sottolineato da De Sio e Emanuele (2012, 140) a proposito del voto siciliano, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’eclissi delle forme più strutturate di organizzazione e intermediazione del voto clientelare, dovuta sia a divisioni delle élite partitiche sia alla scarsa disponibilità di risorse da distribuire in cambio di consenso a causa della crisi economica. Le similitudini con il caso siciliano però finiscono qui. Mentre nel 2012 in Sicilia questa eclissi del voto clientelare si traduceva nella contemporanea esplosione dell’astensione e del voto di protesta (il M5S diventava primo partito con il 15% dei voti), in Calabria l’elemento della protesta sembra mancare. Naturalmente, c’è il fattore tempo da tenere in considerazione. Nel 2012 in Sicilia in M5S poteva essere visto come una novità nel panorama politico nazionale (e locale), mentre è possibile che il partito di Grillo sia stato considerato dagli elettori calabresi come già parte del sistema (in altre parole, come un movimento che si è, almeno in parte, istituzionalizzato.

    In Calabria, infatti,  gli elettori che vanno a votare preferiscono, al voto di protesta, un più “pragmatico” voto per la coalizione giudicata vincente. È anche così che si spiegano i 38 punti di scarto sia tra i due candidati che tra le due coalizioni (vedi Tabella 2). La “protesta”, ossia il voto al M5S, diventa una nicchia residuale (5%) lontanissima dai risultati ottenuti da Grillo alle Politiche 2013 (24,9%) e alle Europee 2014 (21,5%)

    Tab. 2 – Regionali 2014 in Calabria: voti ai candidati Presidente, valori assoluti e percentuali

     

     La vittoria di Oliverio e della sua coalizione è talmente eccezionale nelle proporzioni da apparire strana in una regione apparentemente assai contendibile. In Calabria dal 1995 ad oggi c’è stata una quasi perfetta alternanza tra centrosinistra (che ha vinto nel 2005 e nel 2014) e centrodestra (che ha superato il centrosinistra nel 1995, nel 2000 e nel 2010). Eppure, guardando i risultati passati, l’enorme scarto a favore del candidato vincente non è una novità: nel 2005 Agazio Loiero conquistò la regione con il 59% e 20 punti di scarto, Scopelliti nel 2010 vinse col 57,8% e 25 punti di scarto. Oggi, se alla coalizione di Wanda Ferro sommiamo i voti di NCD ed UDC, che si presentavano con un proprio candidato (mentre nel 2010 erano all’interno del centrodestra berlusconiano), i punti di scarto scendono a circa 29.

    In altre parole, da un più 20% del centrosinistra nel 2005 si passa ad un più 25% per il centrodestra nel 2010 e successivamente ad un più 29% per il centrosinistra nel 2014. Una incredibile volatilità, che fa emergere l’ipotesi che si sia verificato un potente effetto bandwagon[2] in salsa meridionale, con notabili e ras delle preferenze che si sono spostati dal centrodestra al centrosinistra cambiando casacca per continuare a godere delle prebende del potere locale, muovendo così pacchetti di voti in direzione di Oliverio e rendendo ancora più largo il margine tra le due coalizioni. D’altra parte, non è un mistero che il voto calabrese, proprio come quello di altre regioni meridionali, sia fondamentalmente candidate-oriented (Fabrizio e Feltrin 2007, 181) e “filogovernativo” (Raniolo 2010, 131). Da un lato si tratta di un voto basato su una relazione individualistica dell’elettore con la politica. L’elettore vota il candidato a prescindere dal partito e dallo schieramento in cui di volta in volta si trova. Dall’altro è un voto che tende a spostarsi a sostegno di chi deterrà le leve del potere, in questo caso le leve del governo della Regione.

    Alcuni dati supportano questa ipotesi. Cominciando dai risultati delle liste, sorprende la misura del successo di Oliverio e soprattutto delle liste più o meno personali a suo sostegno. Il PD ottiene infatti il 23,7%, 8 punti in più rispetto al 2010 (vedi Tabella 3). Se invece confrontiamo il risultato del partito di Renzi ed Oliverio col più vicino voto europeo (35,8%) notiamo un calo di 12 punti in pochi mesi. Eppure, se usciamo dai confini dell’ “etichetta” PD e sommiamo al 23,8% dei democratici anche la lista del presidente Oliverio, il risultato è invece praticamente identico a quello delle europee (36,1%). Quello che impressiona è il consenso ricevuto dalle liste pro-Oliverio che non fanno riferimento a partiti nazionali né direttamente (come la lista PD) né indirettamente (come la lista “La Sinistra” che mette insieme SEL, Comunisti italiani e IDV): esse totalizzano il 33,6% dei voti, risultando largamente il primo “partito” della Regione con 10 punti più del PD. Un vero e proprio blocco dominante, formato da notabili locali e collettori di voti, nonché transfughi in cerca di una nuova ricollocazione politica. Un certo numero di politici si è infatti spostato, in occasione delle elezioni, dal centrodestra al centrosinistra portando così la propria dote di voti a supporto di Oliverio[3].

    Tab. 3 – Risultati delle regionali 2014 a confronto con le regionali 2010, le politiche 2013 e le europee 2014, valori assoluti e percentuali

     

    Osservando i risultati elettorali a livello circoscrizionale, notiamo un altro fatto apparentemente strano e meritevole di attenzione: Oliverio e le sue liste ottengono i risultati migliori nella circoscrizione Sud, quella di Reggio Calabria, tradizionalmente considerata un feudo della destra democristiana e missina prima e berlusconiana poi, rispetto alle altre province in cui la sinistra è sempre stata più forte (specialmente a Cosenza). Ad esempio, il centrodestra di Berlusconi sfiorava la maggioranza assoluta nella provincia di Reggio Calabria nel 2008, mentre nel 2010 Scopelliti arrivava al 68,9%, lasciando Loiero con appena il 24,6%. Anche nel 2013, pur perdendo molti voti, la provincia di Reggio Calabria risultava quella più a destra dell’intera regione. Andando ancora più indietro nel tempo, il MSI raggiungeva, a Reggio e provincia, il 20,2% nel 1972, terza provincia d’Italia dopo Catania e Napoli (Ignazi 1990, 110). Ebbene, Oliverio ottiene i risultati migliori proprio nella provincia di Reggio con il 62,7% delle preferenze.

    Proprio nella provincia di Reggio si trovano moltissimi comuni sciolti per infiltrazioni criminali negli ultimissimi anni (2012-2013)[4], come San Luca, Platì, Melito di Porto Salvo, Montebello Ionico, Careri, Bova Marina e Bagaladi. Aree “difficili” in cui il voto è spesso inquinato da meccanismi clientelari (quando non criminali) di riproduzione del consenso. Tutti comuni in cui il centrodestra di Scopelliti era largamente maggioritario nel 2010 e che oggi votano Oliverio e le sue liste con percentuali sempre decisamente superiori alla media provinciale, oscillanti tra il 69% di San Luca e il 78% di Platì. Spesso, inoltre, la lista più votata non è il PD, ma altre liste a sostegno di Oliverio, come a San Luca (Autonomia e diritti 25,9%), a Melito di Porto Salvo e a Montebello Ionico (in cui sono primi i Democratici e Progressisti con il 29,6 e il 22,4%).

    Infine, è molto utile analizzare l’andamento del tasso di preferenza, ossia il rapporto tra il totale dei voti di preferenza espressi a favore dei candidati e il totale dei voti alle liste. Il tasso di preferenza in queste regionali è stato del 86,8%, in crescita rispetto al 2010 (84%) e stabile rispetto al 2005. La presenza del Movimento 5 Stelle, in cui solo 1 elettore su 2 esprime una preferenza, contribuisce ad abbassare leggermente il dato complessivo: senza il M5S il tasso sfiora l’89%. Nella provincia di Reggio Calabria il tasso di preferenza tocca quota 90% con la punta del 97% per la lista “Democratici Progressisti”. Nel complesso le liste a sostegno di Oliverio che non fanno riferimento a partiti nazionali (ossia tutte tranne la lista del PD e la lista “La Sinistra”) risultano fra quelle con i maggiori tassi di preferenza, raggiungendo una media del 94,3% in provincia di Reggio.

    Tutte queste evidenze empiriche sembrano dare forza all’ipotesi di un potente effetto bandwagon a favore di Oliverio e porre l’evidenza sulle specificità locali del voto, spingendoci a non enfatizzare eccessivamente il rilievo del risultato calabrese in chiave nazionale (come test indiretto sul governo Renzi).

    Passando ad analizzare i risultati del centrodestra, Forza Italia si riduce invece al 12%, con meno di 100.000 voti in regione (perdendo più di 170.000 voti rispetto al 2010 e 50.000 rispetto alle europee di maggio). Ovviamente, bisogna sottolineare la presenza della lista Casa delle Libertà che raggiunge l’8,6%, quindi il risultato dell’area “(post) berlusconiana” supera il 20%, ma va ricordato che anche alle Regionali 2010 era presente una lista vicina al principale partito di centrodestra, ovvero la lista Scopelliti, che raggiunse il 9,9% dei suffragi, quindi possiamo dire che il confronto 2010-2014 è impietoso.

    Se FI piange anche i suoi competitor nel centrodestra, NCD-UDC, non ridono, anzi: Alfano si era impegnato molto nella campagna elettorale in Calabria, nella speranza di superare i rivali ed emergere come il primo partito del centrodestra calabrese. E invece, proprio in una regione che è una delle principali roccaforti, le liste di NCD e UDC non vanno complessivamente oltre l’8,8%, perdendo terreno rispetto alle europee (9,4%) e perfino rispetto alle regionali 2010 in cui la sola UDC aveva preso il 9,4%.

    Concludendo, oggi su Repubblica Ilvo Diamanti ha scritto che la Calabria si scopre più rossa dell’Emilia. Queste prime analisi del voto in realtà sembrano portare ad una interpretazione diversa del risultato: la Calabria non è diventata “rossa”. Al massimo è il “carro” del governo regionale ad essere diventato di colore rosso. Ma a spingerlo c’è lo stesso blocco politico (e sociale) che governa da sempre, spostandosi “gattopardescamente” di volta in volta a sostegno del “carro” vincente, perché tutto cambi affinché tutto rimanga com’è.

    Riferimenti bibliografici

    De Sio, L. e Emanuele, V. (2012), Conclusioni. Dall’Europa alla Sicilia, verso le elezioni politiche 2013, in L. De Sio e V. Emanuele (a cura di), Un anno d elezioni verso le Politiche 2013, Dossier CISE (3), Roma, CISE.

    Fabrizio, D. e Feltrin, P. (2007), L’uso del voto di preferenza: una crescita continua, in A. Chiaramonte, e G. Tarli Barbieri (a cura di) Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle Regioni italiane, pp. 175-199.

    Noelle-Neumann, E. (2002), La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinione pubblica, Roma, Meltemi.

    Raniolo, F. (2010), Tra dualismo e frammentazione. Il Sud nel ciclo elettorale 1994-2008, in R. D’Alimonte, e A. Chiaramonte (a cura di), Proporzionale se vi pare. Le elezioni politiche del 2008, Bologna, Il Mulino, pp. 129-171.


    [2] Per effetto bandwagon (ossia “carro della banda”) si intende la salita “sul carro del vincitore”, ossia la tendenza di elite ed elettori a sostenere il candidato/partito ritenuto vincente. Per approfondire vedi Noelle-Neumann (2002).

    [3] Ad esempio Elio Belcastro, votato da più di 1.500 persone nella lista Calabria in Rete (circoscrizione Sud), a sostegno di Oliverio, è stato candidato per l’MPA alle Politiche del 2008 ed è stato sottosegretario all’Ambiente nell’ultimo governo Berlusconi. Salvatore Magarò, il più votato nella lista Calabria in Rete nella circoscrizione Nord a sostegno di Oliverio (3.241 preferenze), è stato assessore al bilancio nella giunta Scopelliti. Pasquale Tripodi ha ottenuto 6.120 preferenze, risultando il candidato più votato nella circoscrizione Sud nella lista Centro Democratico, a supporto di Oliverio. Proveniente dall’UDEUR, nel 2010 è stato eletto nelle liste dell’UDC, che sostenevano il candidato Presidente del centrodestra, Giuseppe Scopelliti. Flora Sculco, eletta al consiglio regionale grazie a più di 9.000 preferenze nella lista Calabria in Rete (circoscrizione Centro) nella coalizione di Oliverio, era membro de “I Demokratici”, associazione culturale che ha sostenuto il centrodestra negli ultimi anni e che è stata fondata da Enzo Sculco, padre di Flora. Enzo Sculco, a sua volta, è stato in passato consigliere regionale della Margherita, prima di appoggiare per un certo periodo di tempo Giuseppe Scopelliti. Si vedano in proposito https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/21/regionali-in-calabria-carro-oliverio-gia-pieno-riciclati/1226323/; https://www.repubblica.it/politica/2014/11/19/news/elezioni_in_calabria_cos_gli_amici_di_scopelliti_si_preparano_a_saltare_sul_carro_del_vincitore-100982516/ ; https://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/10/12/giuliano-santoro-onorevole-che-fine-ha-fatto/.

  • Elezione indiretta delle Province, ecco come funziona

    di Vincenzo Emanuele

    Le province, a differenza di quanto si sente spesso dire, non sono abolite. E in attesa di una legge costituzionale che provveda a tale scopo, bisogna eleggerne gli organi.

    Per effetto dell’entrata in vigore della legge Delrio (la 56/2014), nelle prossime settimane, tra il 28 settembre e il 12 ottobre, si terrà in tutta Italia la prima tornata di “elezioni” per i consigli metropolitani, i Presidenti delle province e i consigli provinciali.

    L’approvazione della suddetta legge ha profondamente modificato, sia nell’assetto che nelle funzioni, il livello amministrativo provinciale, trasformando le 86 province a statuto ordinario in “enti di area vasta”, limitandone le competenze e soprattutto eliminando l’elezione diretta dei suoi organi legislativi (i consigli provinciali) ed esecutivi (il Presidente, mentre le Giunte provinciali sono abolite). Consiglieri provinciali e Presidenti delle province saranno dunque eletti indirettamente e non percepiranno alcuna indennità aggiuntiva. Inoltre la legge dà finalmente attuazione alle città metropolitane, inserite in Costituzione con la riforma del Titolo V ma mai realizzate. Nascono così, oltre a Roma Capitale, le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. In queste 10 città il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia autonoma e di conseguenza gli organi della città metropolitana (il Sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana) sostituiscono quelli della provincia (in tal modo non si avranno doppi organi).

    Ma cerchiamo i riassumere più nel dettaglio le modalità di elezione di questi organi:

    Città metropolitane

    Gli organi sono tre, ma solo uno è elettivo. Il Sindaco metropolitano è infatti il sindaco del comune capoluogo, mentre la conferenza metropolitana è composta dal sindaco metropolitano e dai sindaci dei comuni della città metropolitana.

    Il Consiglio metropolitano è invece l’organo elettivo di secondo grado, composto dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione della città metropolitana (24 consiglieri nelle città metropolitane con popolazione residente superiore a 3 milioni di abitanti, 18 in quelle con popolazione residente superiore a 800.000 e inferiore o pari a 3 milioni di abitanti, 14 consiglieri nelle città metropolitane fino a 800.000 abitanti). Il Consiglio resta in carica 5 anni. L’elettorato attivo e passivo coincide: si tratta dei sindaci e dei consiglieri dei comuni della città metropolitana.

    Per l’elezione del Consiglio metropolitano vengono presentate liste di candidati che devono essere sottoscritte da almeno il 5% degli aventi diritto al voto (quindi il 5% dei sindaci e dei consiglieri dei comuni della città metropolitana). L’elettore vota per una delle liste e può anche esprimere un voto di preferenza per un candidato di quella stessa lista.

    I voti degli elettori, però, non pesano tutti allo stesso modo. I comuni della città metropolitana sono infatti divisi in 8 fasce demografiche[1] e il voto di sindaci e consiglieri va ponderato per la quota di popolazione che essi rappresentano rispetto al totale della popolazione della città metropolitana. Facciamo un esempio concreto: a Bari la popolazione del comune capoluogo rappresenta circa il 25% della popolazione dell’intera città metropolitana. Eppure gli aventi diritto al voto del comune di Bari (sindaco e consiglieri) sono appena 37 su un totale di 759 fra sindaci e consiglieri dei comuni di tutta la città metropolitana (il 4,8%). Allo stesso tempo, i 22 elettori appartenenti a comuni inferiori ai 3000 abitanti rappresentano appena lo 0,3% della popolazione della città metropolitana di Bari. La ponderazione interviene a riequilibrare i rapporti di forza. Così ognuno dei 37 voti degli elettori del comune di Bari avrà un indice di ponderazione di 777,351, mentre il voto dei 22 elettori dei comuni inferiori a 3000 abitanti peserà solo 14,772.

    Una volta effettuata la ponderazione, si sommano i voti ponderati (voto*indice di ponderazione) ottenuti in tutte le fasce, determinando così la cifra elettorale ponderata di ogni lista e la cifra elettorale ponderata di ogni candidato. I seggi spettanti a ciascuna lista vengono individuati tramite l’applicazione del metodo D’Hondt e vengono quindi eletti i candidati della lista con la cifra individuale ponderata più alta. In caso di parità fra due o più candidati viene eletto il candidato del sesso meno rappresentato tra gli eletti della lista e, in caso di ulteriore parità, prevale il candidato più giovane.

    Province

    Come detto in precedenza, le Giunte provinciali sono abolite. Restano il Consiglio provinciale e il Presidente della Provincia. Vi è inoltre l’Assemblea dei sindaci, composta dai primi cittadini di ogni comune e presieduta dal Presidente della Provincia, avente poteri consultivi.

    Il Consiglio provinciale, proprio come il consiglio metropolitano, è un organo elettivo di secondo grado composto dal Presidente della Provincia e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione della città metropolitana (16 consiglieri nelle province con popolazione residente superiore a 700000 abitanti, 12 in quelle con popolazione residente superiore a 300.000 e inferiore o pari a 700000 abitanti, 10 consiglieri nelle province fino a 300.000 abitanti). I consiglieri restano in carica 2 anni. L’elettorato attivo e passivo coincide, trattandosi anche in questo caso dei sindaci e dei consiglieri dei comuni della provincia. Limitatamente alle prime elezioni, però, la legge stabilisce che sono eleggibili anche i consiglieri provinciali uscenti.

    Le modalità di elezione del Consiglio provinciale sono identiche a quelle del consiglio metropolitano (proporzionale di lista con metodo D’Hondt e preferenza). Vige anche in questo caso il meccanismo della ponderazione del voto a seconda della fascia demografica di afferenza dell’elettore. Una volta determinata la cifra individuale ponderata di ciascun candidato viene formata una graduatoria unica di tutti i candidati. Anche in questo caso, in situazioni di parità prevale il sesso meno rappresentato tra gli eletti e, in caso di ulteriore parità, il candidato più giovane.

    Il Presidente della Provincia viene eletto dai consiglieri comunali e dai sindaci della provincia, tra quei sindaci che hanno un mandato che scade non prima di 18 mesi. In questo caso, dunque, elettorato attivo e passivo non coincidono. Il Presidente resta in carica 4 anni (salvo decadere automaticamente alla cessazione della carica di Sindaco) e per candidarsi necessita di un numero di sottoscrizioni a suo sostegno pari almeno al 15% degli aventi diritto al voto. Il sistema elettorale per l’elezione del Presidente della Provincia è un “first-past-the-post” con ponderazione: l’elettore vota per uno dei candidati e viene eletto il candidato che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale ponderata. In caso di parità è eletto il candidato più giovane.
     



    [1] A (comuni fino a 3000 abitanti), B (3001-5000), C (5001-10000), D (10001-30000), E (30001-100000), F (100001-250000), G (250001-500000), H (500001-1000000), I (comuni con popolazione superiore a 1000000 di abitanti).

  • Il PPE perde voti e seggi, ma rimane il primo gruppo nel Parlamento Europeo

    di Vincenzo Emanuele

     Alla fine il Partito Popolare Europeo (PPE) ce l’ha fatta. Si conferma la prima forza politica europea per numero di voti complessivi raccolti, nonché il gruppo di maggioranza relativa in seno al Parlamento Europeo (PE). Per i popolari la sfida delle elezioni europee 2014 sembrava molto difficile alla vigilia. Dopo 10 anni di Presidenza Barroso e tre legislature di consecutive con la maggioranza relativa nel PE, il PPE viene ormai considerato il partito di governo dell’UE. Visto il bassissimo consenso per le politiche di austerità portate avanti dall’Unione, in molti prevedevano un’alternanza alla guida della UE. Come è stato scritto in un altro articolo prima del voto, l’essere percepiti come incumbent in un tempo di aspra crisi economica avrebbe potuto avere conseguenze nefaste per i risultati elettorali del PPE, minacciati alla propria destra dalla crescita del gruppo dei partiti anti-europeisti, nonché sfidati alla propria sinistra dal rivale storico, il PSE, che presentava un candidato forte e autorevole come Martin Schulz alla guida della Commissione. Anche la scelta di un candidato come il lussemburghese Jean-Claude Juncker, che si poneva in perfetta linea di continuità con le politiche di austerità portate avanti fino ad oggi, poteva apparire un’opzione perdente. Insomma c’erano tutte le premesse per assistere, dopo 15 anni, ad un ribaltamento delle forze in campo in Europa e ad una vittoria dei socialisti.

    Il PPE è invece riuscito a mantenere la maggioranza relativa in seno al PE. Ha ottenuto 214 seggi, che potrebbero presto diventare 220 dal momento che il rumeno PNL (Partito Nazionale Liberale), finora membro dell’ALDE, ha chiesto di aderire al gruppo, portando in dote 6 preziosi seggi. I 214 seggi raccolti in queste elezioni europee segnano un deciso passo indietro rispetto al 2009, quando i seggi furono 270 (265 ai quali si sono aggiunti i 5 seggi della Croazia entrata nel 2013). Una perdita di 56 seggi a cui fa da contraltare la leggera avanzata del PSE (191 seggi, + 7 rispetto al 2009). Il gap tra i due grandi europartiti si è così ridotto a 23 seggi. Il risultato rende ancora più indispensabile la necessità di trovare un accordo per il governo dell’Unione. Un accordo che presumibilmente si concluderà con la formazione di una grande coalizione PPE-PSE con i popolari nuovamente alla guida della Commissione.

    Fig. 1 – Andamento elettorale del PPE. Percentuale di seggi nel PE (1979-2014).

     

    Come mostra la Figura 1, ragionando in termini di percentuali di seggi, il PPE ha ottenuto il 32,1% dei seggi nel nuovo Parlamento. Si tratta del risultato più basso degli ultimi 15 anni. Da quando aveva avuto pieno compimento la strategia di allargamento ad altre forze politiche conservatrici e liberali estranee alla tradizione democratico-cristiana (Delwit 2001; Hanley 2002; Hix 2002), il PPE era sempre rimasto attorno al 36-37% dei seggi. Ma c’è da dire che la competizione, sia nelle arene nazionali, sia in quella europea, era quasi sempre strutturata in termini di sfida tra popolari e socialisti, con pochissime eccezioni, nelle quali potevano inserirsi forze liberali (Estonia). Con queste elezioni lo scenario è radicalmente cambiato. In ben 5 paesi hanno vinto partiti non afferenti ai due grandi gruppi popolare e socialista (oltre all’Estonia, Francia, Regno Unito, Danimarca e Belgio). La prepotente avanzata dei partiti euroscettici (quando non esplicitamente anti-UE) avrebbe potuto danneggiare soprattutto il PPE, vista la collocazione su posizioni di estrema destra di molti di questi partiti. Invece in alcuni contesti anche i socialisti ne hanno subito le conseguenze (come ad esempio in Francia).

    Tab. 1 – Risultati elettorali (% di voti e seggi) del PPE nei paesi membri e differenze con il 2009.

    Paese

    2014

    Differenze con il 2009

    % Voti

    Seggi

    Voti

    Seggi

    Austria

    27

    5

    -3

    -1

    Belgio

    16.9

    4

    -2.6

    -1

    Bulgaria

    30.9

    6

    -1.4

    0

    Cipro

    37.8

    2

    1.8

    0

    Croazia*

    41.4

    5

    4.6

    0

    Danimarca

    9.1

    1

    -3.6

    0

    Estonia

    13.9

    1

    1.7

    0

    Finlandia

    27.8

    3

    1

    -1

    Francia

    20.8

    20

    -7.1

    -9

    Germania

    35.3

    34

    -2.5

    -8

    Grecia

    22.7

    5

    -9.6

    -3

    Irlanda

    22.3

    4

    -6.8

    0

    Italia

    21.7

    17

    -20.1

    -18

    Lettonia

    46.2

    4

    12.5

    1

    Lituania

    17.4

    2

    -8.3

    -2

    Lussemburgo

    37.7

    3

    6.3

    0

    Malta

    40

    3

    2.8

    1

    Paesi Bassi

    15

    5

    -4.8

    0

    Polonia

    38.1

    23

    -12.5

    -5

    Portogallo

    27.7

    7

    -12.4

    -3

    Regno Unito

    0

    0

    0

    0

    Repubblica Ceca

    26

    7

    18.3

    5

    Romania**

    24.7

    9

    -13.9

    -5

    Slovacchia

    33.2

    6

    6

    0

    Slovenia

    41.4

    5

    -5.4

    2

    Spagna

    26.1

    17

    -16.1

    -6

    Svezia

    19.6

    4

    -3.1

    -1

    Ungheria

    51.5

    12

    -4.9

    -2

    * Il totale voti 2014 si riferisce ad una lista nella quale è presente anche un partito afferente al gruppo ECR. Le differenze di voti e seggi fanno riferimento all’elezione tenutasi nel 2013 dopo l’ingresso della Croazia nell’UE.
    ** Il risultato non è comprensivo di voti e seggi ottenuti dal Partito Nazionale  Liberale (PNL), finora membro dell’ALDE, che ha richiesto l’adesione al PPE.

     

    La Tabella 1 riporta, per ciascun paese, la percentuale di voti ottenuta dai partiti afferenti al PPE, il totale di seggi conquistati dal gruppo e le differenze (punti percentuali e seggi) rispetto al 2009. E’ facile notare una predominanza di segni negativi, che indicano una perdita di voti (e seggi) rispetto al 2009. Nel complesso il PPE cresce in 9 paesi e arretra in 16, mentre nel Regno Unito continua a non avere alcun rappresentante. (Valium) I paesi in cui cresce maggiormente sono, con l’eccezione del Lussemburgo, tutte nazioni entrate a partire dal maxi allargamento a Est del 2004 (Repubblica Ceca, Lettonia, Slovacchia, Croazia, Malta). Le perdite maggiori invece riguardano soprattutto i paesi dell’Europa Occidentale, e in particolare l’Italia (-20,1 punti), la Spagna (-16,1), il Portogallo (-12,4) e in misura minore anche, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda Paesi Bassi e Svezia. Nella ex Europa dei 15 il PPE guadagna voti rispetto a 5 anni fa solo nel piccolissimo Lussemburgo. Ma anche nei due principali paesi dell’Est Europa, Polonia e Romania, il PPE fa registrare un arretramento rilevante (-12,5 e -13,9 rispettivamente). In alcuni di questi casi, per via dei pochi seggi assegnati al paese, della formula elettorale e dell’assetto della competizione partitica, la perdita di voti non comporta una perdita di seggi. Da questo punto di vista, il PPE subisce un vero e proprio crollo in Italia (-18 seggi), dovuto alla débacle di Forza Italia rispetto al successo del Pdl nel 2009. Perdite consistenti riguardano poi la Germania , la Francia e la Spagna (-8, -9, -6), mentre la crescita più sensibile avviene in Repubblica Ceca, in cui la pattuglia popolare cresce da 2 a 7 deputati. La maggioranza relativa in seno al gruppo rimane saldamente in mano alla Cancelliera Merkel e al suo partito (la CDU-CSU) con 34 seggi (il 15,9% del totale del gruppo). Nel complesso si delinea uno spostamento dei rapporti di forza interni verso i paesi dell’Est, che ora contano 85 rappresentanti, quasi il 40% del totale del gruppo (nel 2009 erano sempre 85, ma corrispondevano al 32% del gruppo). Insomma se il PPE riesce a rimanere la prima forza politica europea lo deve soprattutto al contributo dell’Europa Centrale e Orientale.

    Per quanto riguarda il rendimento misurato in termini di voti percentuali raccolti dal gruppo, la media non ponderata di voti è 27,6% (-3,5 punti rispetto al 2009). Si segnala la strepitosa performance dell’Ungherese FIDESZ che, sebbene in calo di quasi 5 punti, riesce a mantenersi sopra la maggioranza assoluta dei consensi (51,5%). Il PPE poi sfiora supera il 40% in altri 3 paesi dell’Est (Croazia, Lettonia e Slovenia), mentre i risultati peggiori sono quelli dei rappresentanti di Danimarca (9,1%), Estonia (13,9%) e Paesi Bassi (15%).La Tabella 1 riporta, per ciascun paese, la percentuale di voti ottenuta dai partiti afferenti al PPE, il totale di seggi conquistati dal gruppo e le differenze (punti percentuali e seggi) rispetto al 2009. E’ facile notare una predominanza di segni negativi, che indicano una perdita di voti (e seggi) rispetto al 2009. Nel complesso il PPE cresce in 9 paesi e arretra in 16, mentre nel Regno Unito continua a non avere alcun rappresentante. I paesi in cui cresce maggiormente sono, con l’eccezione del Lussemburgo, tutte nazioni entrate a partire dal maxi allargamento a Est del 2004 (Repubblica Ceca, Lettonia, Slovacchia, Croazia, Malta). Le perdite maggiori invece riguardano soprattutto i paesi dell’Europa Occidentale, e in particolare l’Italia (-20,1 punti), la Spagna (-16,1), il Portogallo (-12,4) e in misura minore anche, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda Paesi Bassi e Svezia. Nella ex Europa dei 15 il PPE guadagna voti rispetto a 5 anni fa solo nel piccolissimo Lussemburgo. Ma anche nei due principali paesi dell’Est Europa, Polonia e Romania, il PPE fa registrare un arretramento rilevante (-12,5 e -13,9 rispettivamente). In alcuni di questi casi, per via dei pochi seggi assegnati al paese, della formula elettorale e dell’assetto della competizione partitica, la perdita di voti non comporta una perdita di seggi. Da questo punto di vista, il PPE subisce un vero e proprio crollo in Italia (-18 seggi), dovuto alla débacle di Forza Italia rispetto al successo del Pdl nel 2009. Perdite consistenti riguardano poi la Germania , la Francia e la Spagna (-8, -9, -6), mentre la crescita più sensibile avviene in Repubblica Ceca, in cui la pattuglia popolare cresce da 2 a 7 deputati. La maggioranza relativa in seno al gruppo rimane saldamente in mano alla Cancelliera Merkel e al suo partito (la CDU-CSU) con 34 seggi (il 15,9% del totale del gruppo). Nel complesso si delinea uno spostamento dei rapporti di forza interni verso i paesi dell’Est, che ora contano 85 rappresentanti, quasi il 40% del totale del gruppo (nel 2009 erano sempre 85, ma corrispondevano al 32% del gruppo). Insomma se il PPE riesce a rimanere la prima forza politica europea lo deve soprattutto al contributo dell’Europa Centrale e Orientale.

    Infine, una nota conclusiva sulle performances degli incumbents, ossia i paesi nei quali il PPE esprime il Primo Ministro o il Presidente. Si tratta di 10 paesi su 28, segnati in neretto nella Tabella 1. In 8 casi su 10 il PPE ha perso voti, in alcuni casi in modo consistente (Spagna, Portogallo, Polonia), segno che il combinato disposto della crisi economica e del tipo di elezione “second order” (Reif e Schmitt 1980) si è tradotto, come nelle previsioni, in una punizione dei governi in carica. Solo in due occasioni il partito al governo non perde voti ma anzi cresce, seppur lievemente: Cipro e Finlandia.

    Riferimenti bibliografici

    Delwit P. (2001), The European People’s Party:stages and analysis of a transformation, in Delwitt P., Kulachi E., Van de Walle C., The Europarties:  organization and influence,  Free University of Brussels (ULB).

    Hanley, D. (2002), Christian Democracy and the paradoxes of Europeanization,  Sage Publications.

    Hix S. (2002),  Parliamentary behavior with two principals: Preferences, Parties and Voting in the European Parliament,  Midwest Political Science Association.

    Reif, K. e Schmitt, H., (1980), Nine second-order national elections- A conceptual framework for the analysis of european election results, in European journal of political research, n. 8, pp. 3-44.

     

  • Affluenza, un calo atteso. Al Sud 1 su 2 si astiene

    di Vincenzo Emanuele

    Mentre il risultato elettorale che si va delineando consegna un quadro politico terremotato rispetto alle Politiche di un anno fa, i dati relativi alla partecipazione al voto risultano più vicini alle pessimistiche previsioni della vigilia. Dal punto di vista dell’affluenza, le elezioni Europee del 2014 in Italia sono state senz’altro elezioni di “secondo ordine”. Secondo la consolidata teoria di Reif e Schmitt (1980), alle elezioni europee, essendoci un minore interesse in gioco rispetto alle politiche (manca infatti il “premio” della conquista del governo) gli elettori sono meno interessati e ciò si traduce in più bassi livelli di partecipazione al voto.
    Il dato italiano conferma in pieno questo assunto: ha votato il 58,7% nel territorio nazionale e il 57,2% se consideriamo anche la circoscrizione estero. L’astensionismo è dunque cresciuto di quasi 8 punti rispetto alle europee del 2009 (66,5%) e di 16,5 punti rispetto alle politiche di un anno f (75,2%). Il calo era largamente atteso, e si inserisce in un trend ormai trentennale di declino della partecipazione elettorale che tocca tutti i tipi di consultazione, dalle politiche alle comunali. Eppure non si pensava forse ad una diminuzione dell’affluenza tanto pronunciata. Un rapido confronto con il recente trend delle politiche, in cui la partecipazione è passata dal 80,5% del 2008 al 75,2% del 2013 faceva ritenere plausibile un analogo abbassamento attorno ai 5 punti anche alle europee. Questo calo è stato invece di quasi 8 punti rispetto a 5 anni fa. Certo, si può addurre la questione del voto in una sola giornata contro i due giorni in cui si votò nel 2009. Ma a questo elemento fa da contraltare il traino che avrebbe potenzialmente potuto esercitare la contemporanea presenza delle elezioni regionali in Piemonte e in Abruzzo[1] . Insomma, se queste dovevano essere le prime “vere” elezioni europee, vista la centralità che l’UE ha assunto in seguito alla crisi economica che ha colpito l’Europa dal 2008, almeno dal punto di vista della partecipazione al voto in Italia non lo sono state. Nemmeno l’enfasi posta dai media sullo scontro Grillo-Renzi è bastata a contenere la crescita dell’astensionismo.

    La Figura 1 traccia il trend di partecipazione alle elezioni europee in Italia dal 1979 ad oggi. E’ facile notare come il progressivo declino dell’affluenza abbia subito una prepotente accelerazione a partire dal 2004. Dal 1979 al 2004 infatti la partecipazione è scesa complessivamente di 13 punti in 25 anni (circa mezzo punto l’anno). Dal 2004 al 2014, invece, è diminuita di ben 14,4 punti (poco meno di un punto e mezzo l’anno).
    Fig. 1 Andamento della partecipazione al voto alle europee nel territorio nazionale, 1979-2014

    Questo dato italiano si inserisce in un quadro europeo in parziale controtendenza: nel complesso dell’Unione la partecipazione ha tenuto, rimanendo stabile attorno al 43%. L’Italia rimane uno dei paesi con la più alta affluenza alle urne, ma il gap dal resto d’Europa si è ridotto.

    Tab. 1 Affluenza alle Europee 2014 per regione e area geopolitica e confronto con il 2009 e il 2013

    La disaggregazione del dato nazionale (58,7%) per regione e area geopolitica (Tabella 1) rivela alcuni risultati interessanti. Come accade tradizionalmente, la partecipazione è stata più alta della media nazionale nelle regioni rosse (68,2%) e al Nord (64,5%), mentre è stata largamente inferiore alla media al Sud, in cui un elettore su due si è astenuto. Inoltre, il gap tra Centro-Nord e Sud del paese si sta allargando rispetto al passato. Osservando i dati sul “differenziale territoriale di partecipazione[2]” rispetto alle Europee di 5 anni fa e alle Politiche 2013 (ultime due colonne della Tabella 1), si nota che in entrambi i confronti il Sud è l’area del paese con il differenziale di partecipazione più alto. Nelle regioni meridionali l’astensione è cresciuta di 9 punti rispetto alle Europee 2009 e di oltre 19 rispetto alle Politiche di un anno fa. La crescita dell’astensione rispetto alle Politiche è impressionante in Sardegna (+26,3 punti) e comunque di 20 punti o superiore anche in Molise, Sicilia e Basilicata. Regge solo l’Abruzzo, grazie al traino delle elezioni regionali (+2,1 l’affluenza rispetto alle Europee 2009). Mentre la Zona rossa presenta dati di partecipazione alti e piuttosto omogenei (tra il 66 e il 71%), al Nord è evidente una netta discrepanza tra il Nord Ovest e il Nord Est. In Piemonte (grazie anche alla contemporanea presenza delle elezioni regionali), Lombardia e Liguria si assiste ad una maggiore tenuta della partecipazione rispetto alle Politiche (tra i 10 e i 14 punti di calo), nel Nord Est il crollo assume proporzioni simili a quelle del Sud: in Veneto l’affluenza è scesa di 18 punti, in Friuli di 20, in Trentino-Alto Adige di 28 punti. Nel complesso, l’astensionismo aggiuntivo rispetto alle Politiche 2013 è stato più forte nelle regioni geograficamente periferiche del paese, dal Nord (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige) al Sud (Sardegna, Sicilia).

    Fig. 2 Mappa della partecipazione all’Europee 2014 per provincia (Natural breaks).

    Per provare a fornire un’ interpretazione meno impressionistica e più ragionata della partecipazione al voto è necessario scendere ulteriormente nel dettaglio subnazionale (la Figura 2 presenta la mappa dell’affluenza a livello provinciale[3]) e inserire nel ragionamento anche un indicatore non elettorale come il livello di civismo. Sviluppato da Pedersini e Cartocci (2004), il livello di civismo è un indicatore molto utilizzato dalla letteratura sociologica e politologica. Fa riferimento alla dotazione di capitale sociale ed è calcolato, per ciascuna provincia italiana, sulla base di quattro indicatori[4]. Ci aspettiamo che la correlazione tra partecipazione al voto e dotazione di capitale sociale risulti positiva, in quanto il livello di civismo è solitamente considerato una delle precondizioni dell’impegno nella vita sociale e politica. I dati relativi alle Europee 2014 confermano ampiamente questa relazione[5]: la correlazione bivariata a livello provinciale tra affluenza alle Europee 2014 e livello di civismo è di r= .622, significativa al livello dello 0.001 (test a due code). Le province più “dotate” di capitale sociale tendono a partecipare di più (vedi Figura 2). Non solo, ma è anche rintracciabile una correlazione tra civismo e astensionismo aggiuntivo rispetto alle Politiche 2013 (r = -.355). Questa seconda relazione è ancor più intrigante: non solo le province meno “civiche” votano meno, ma tendono anche ad astenersi maggiormente quando l’interesse in gioco viene a mancare[6].

    Fig. 3 Relazione tra livello di civismo e affluenza alle Europee 2014 per provincia


    Non a caso le province con il minor civismo e il maggior astensionismo aggiuntivo sono anche quelle nelle quali tradizionalmente viene espresso un voto più personalistico quando non specificamente di scambio (Parisi e Pasquino 1977): delle 37 province che risultano avere un livello di civismo inferiore alla media e un astensionismo aggiuntivo superiore alla media, ben 32 sono meridionali. Allo stesso tempo solo 2 province sulle 39 che risultano avere un alto capitale sociale e un basso astensionismo aggiuntivo sono meridionali (L’Aquila e Sassari).
    Rispetto alla relazione attesa emergono poi alcuni casi devianti: 11 province del Nord (Aosta, Trento e gran parte di Veneto e Friuli), 4 province sarde (Cagliari, Medio-Campidano, Olbia Tempio e Carbonia Iglesias) e 3 della Zona rossa (Ancona, Lucca e Massa-Carrara) fanno registrare alti tassi di defezione rispetto alle Politiche 2013 nonostante la presenza di un livello di civismo superiore alla media nazionale. Al contrario, invece, 16 province che risultano caratterizzate da un basso livello di civismo, presentano un differenziale di partecipazione rispetto alle Politiche inferiore alla media italiana. Tra queste spiccano 8 province meridionali, di cui tre abruzzesi (Pescara, Teramo e Chieti) per le quali la relazione attesa è vanificata dalla presenza del simultaneo voto per il Consiglio regionale e il Presidente della Regione che fa innalzare considerevolmente l’interesse in gioco in questa tornata elettorale.

    [1] Inoltre si votava contemporaneamente in più metà dei comuni italiani, ma anche nel 2009 ci fu un’analoga sovrapposizione fra comunali ed europee.

    [2] Secondo Mannheimer e Zajczyk (1982, 411) il differenziale territoriale di partecipazione è una delle costanti del comportamento elettorale nel nostro paese.

    [3] La mappa segna le province con colori diversi a seconda del livello di partecipazione al voto. Colori più scuri indicano una maggiore affluenza. Le quattro classi che risultano dalla mappa sono calcolate sulla base di un algoritmo che minimizza la varianza interna a ciascuna classe massimizzando quella esterna fra classi (Jenks 1967).

    [4] È misurato prendendo in considerazione indicatori quali il livello medio di partecipazione elettorale, la tendenza a partecipare a associazioni culturali e/o ricreative, la quantità di persone che leggono almeno un quotidiano al giorno, il numero di donatori di sangue (fattore che intende segnalare la diffusione di pratiche di solidarietà sociale).

    [5] La correlazione è tuttavia parzialmente endogena dal momento che uno degli indicatori utilizzati per il calcolo del livello di civismo è proprio il livello “storico” di partecipazione al voto. Sebbene si tratti di dati di partecipazione precedenti al 2004 – anno in cui viene pubblicato l’indice – quindi non recentissimi.

    [6] Anche Cartocci (1987) utilizza un indicatore simile per mappare le province italiane in termini di particolarismo ad attitudine al voto di scambio. Egli utilizza però l’astensionismo aggiuntivo registrato al referendum sull’aborto del 1981 rispetto alle Politiche del 1979.

  • Allargamento e successo elettorale: la strategia vincente del PPE

    di Vincenzo Emanuele

     Con la presentazione dei simboli e delle liste, la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento Europeo (PE) è ormai cominciata. Ci sembra quindi opportuno dedicarci all’analisi dei protagonisti della politica europea, gli europartiti. Sebbene infatti, come rileva Bardi [2002, 252] utilizzando la celebre classificazione di Katz e Mair [1993] sulle tre “facce” dei partiti” (partito sul territorio, partito come organizzazione e partito nelle cariche pubbliche), una faccia  predomini nettamente sulle altre, quella del partito sul territorio, rappresentata dai partiti nazionali, gli europartiti si sono molto rafforzati negli ultimi decenni, acquisendo uno status e un prestigio maggiori grazie soprattutto al rafforzamento del ruolo del PE all’interno del processo decisionale dell’UE. In questo e nei successivi articoli ci dedicheremo quindi all’analisi della storia elettorale e della composizione dei principali gruppi politici[1] all’interno del PE.

    Il Partito Popolare Europeo (European People’s Party, PPE) è, sin dal 1999, il partito di maggioranza relativa all’interno del PE. Nelle ultime elezioni europee ha conquistato 265 seggi, corrispondenti al 36% del PE, distanziando nettamente i rivali del PSE (200 seggi corrispondenti al 25% del PE). Il PPE rappresenta, insieme a socialisti e liberali, uno dei tre gruppi storici all’interno del PE. Già prima dell’elezione diretta del PE (1979), i rappresentanti dei partiti di ispirazione democratico-cristiana dell’Europa dei 6 paesi fondatori (la DC italiana, la CDU-CSU tedesca e i partiti cristiano-sociali e cristiano-democratici del Benelux) avevano cominciato a sviluppare delle forme di coordinamento internazionale. Il partito vero e proprio fu creato nel luglio 1976 e fu inizialmente guidato dall’allora Primo Ministro belga Leo Tindemans. Vi entrarono i partiti democristiani dell’ex Europa dei 6, più il Fine Gael, partito dell’Irlanda, entrata nel 1973 nella Comunità. Eppure, questa iniziale composizione, sebbene capace di fare del PPE un gruppo ideologicamente coerente e politicamente coeso[2], lo rendeva debole nei confronti dei rivali del PSE, tanto da fargli perdere sia le elezioni del 1979 che quelle del 1984 (vedi Figura 1).

    Già dall’inizio degli anni ’80 all’interno del PPE si aprì un acceso dibattito interno. La componente tedesca aveva infatti intuito che con l’ingresso di Gran Bretagna e Danimarca nella Comunità e in vista di nuovi allargamenti ad altri paesi che, come questi ultimi, erano privi di una forte tradizione democristiana, il PPE si sarebbe di molto indebolito nei confronti del PSE [Delwit 2001]. Era quindi necessario aprire il partito all’ingresso di forze conservatrici e liberali, che pur non provenendo dalla tradizione democratico-cristiana, ma che fossero comunque alternative alla sinistra nei rispettivi paesi. L’idea, rivoluzionaria, non piaceva ai partiti del Benelux né alla DC, abituata a stringere spesso alleanze di governo con i partiti della sinistra moderata ma a rifiutare pregiudizialmente di guardare verso destra.

    Nonostante le resistenze interne, la strategia di apertura “a destra” del PPE, perseguita dalla CDU-CSU, fu riconosciuta come necessaria anche per reagire alla progressiva erosione del consenso delle forze democristiane tradizionali. La politica di apertura del PPE cominciò nel 1981 con l’ingresso  dei conservatori greci di Nea Demokratia per proseguire poi, alla fine degli anni ’80, con l’ingresso dei conservatori portoghesi e dei popolari spagnoli, eredi del regime franchista. Nonostante queste annessioni le fortune elettorali dell’europartito non migliorarono: nel 1989 il PPE raggiunse il punto più basso della sua storia, ottenendo appena il 23,4% dei seggi contro il 34,7% del PSE.

     Fig. 1 Andamento elettorale del PPE. Percentuale di seggi nel PE, 1979-2009.

     

    L’inizio degli anni ’90 è segnato da un ulteriore rafforzamento della politica di allargamento: nel 1992 i Conservatori britannici e danesi, partiti dichiaratamente euroscettici, sono ammessi nel gruppo parlamentare del PPE. Grazie a questi ingressi cambia definitivamente la natura del partito e i suoi rapporti di forza interni dal momento che, anche per la fine della DC, i partiti d’ispirazione democristiana vengono messi in minoranza[3] dai partiti “right-located” (Hix 2002). Dal punto di vista elettorale, le europee del 1994 segnano un’inversione di tendenza, con la crescita elettorale del PPE che sale al 27,7% dei seggi, sebbene ancora molto distante dal PSE, forte del suo 34,9%. Nel corso della legislatura 1994-1999 avviene il passo decisivo per colmare il gap storico di consenso nei confronti dei rivali del PSE: la delegazione italiana, priva ormai della componente democristiana, si rimpolpa grazie all’ingresso di Forza Italia, e contemporaneamente raggiungono il gruppo anche i principali partiti di centro-destra di Portogallo e Francia, vale a dire il partito socialdemocratico portoghese e il partito gollista francese (RPR, poi UMP). I nuovi ingressi di Austria, Svezia e Finlandia, poi, permettono l’inclusone, oltre che dei popolari austriaci dell’ ÖVP, anche dei conservatori svedesi (Moderata) e finlandesi (KOK).

     Tab. 1 Risultati elettorali del PPE nei paesi membri, 1979-2009.

     

    Forte di questa poderosa strategia inclusiva il PPE riesce a vincere le elezioni del 1999, conquistando 233 seggi contro i 180 del PSE e raggiungendo il massimo storico (37,2%). La vittoria è resa possibile dalla straordinaria crescita elettorale del gruppo in alcuni stati chiave (vedi Tabella 1), come l’Italia, in cui i partiti aderenti al PPE passano dal 13,9% al 38,1% dei voti, la Francia (dal 12,8% al 22,1%), il Regno Unito (dal 27 al 35,8%) e la Germania (dal 38,8% al 48,7%), crescita favorita anche dal generale arretramento delle forze di governo in questi stessi paesi, tutti a guida socialista, coerentemente con gli assunti della teoria delle “second order elections” [Reif and Schmitt 1980]. La vittoria avviene però al prezzo di paradossali contraddizioni ideologiche, emblematizzate dal caso italiano che vede l’adesione al PPE di partiti schierati su fronti opposti in politica nazionale, come Forza Italia e il PPI.

    Dal 1999 ad oggi il PPE ha perseguito una politica tesa a consolidare la leadership all’interno del PE, proseguendo sulla strada dell’inclusione di forze conservatrici e di destra e prediligendo il successo elettorale a scapito della coerenza interna del gruppo[4]. Con il maxi-allargamento a est della Comunità (2004) entrano nel gruppo parlamentare del PPE al PE partiti provenienti da tutti gli Stati della nuova Europa a 25, ansiosi di entrare a far parte del PPE per la potente legittimazione democratica che ne deriva a livello internazionale. In particolare, si aggiungono alle forze politiche già presenti i partiti conservatori o liberali di Ungheria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, e i partiti cristiano-democratici di Slovacchia e Slovenia. Forte di queste annessioni e sfruttando la sostanziale assenza di una tradizione socialdemocratica nei paesi dell’Est Europa, il PPE stravince le elezioni del PE ottenendo 268 seggi (il 36,6%) contro i 200 dei socialisti. Con l’eccezione delle piccole Estonia e Malta, i popolari surclassano i socialisti in tutti i nuovi paesi membri, ottenendo quasi il 53% dei voti in Ungheria e percentuali pari o superiori al 40% in Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia.

    Nel 2009, infine, l’ingresso delle delegazioni rumena e bulgara compensa la perdita dei seggi del Regno Unito, dovuta alla fuoriuscita dei Conservatori inglesi, incompatibili con il gruppo per il loro crescente euroscetticismo[5]. Il PPE si mantiene sostanzialmente stabile al 36% dei seggi (265),  allarga ulteriormente la forbice rispetto al PSE (25%) e riconferma Barroso alla Presidenza della Commissione.

    Alla vigilia delle prossime elezioni del 22-25 maggio, il PPE può contare su 52 partiti appartenenti a 27 paesi membri, in 10 dei quali è al potere un Primo Ministro o un Presidente aderente al PPE (Tabella 2). L’eccezione è rappresentata dal Regno Unito, unico stato privo di rappresentanza nel PPE, mentre anche la neo-entrata Croazia può contare su due partiti nel gruppo dei popolari (HDZ e HSS).

    Le elezioni del 2014 si presentano cariche di rischi per i popolari, che presentano il lussemburghese Jean-Claude Juncker come candidato alla Presidenza della Commissione. Il PPE riuscirà a mantenere la maggioranza relativa nel PE come avviene ormai da 15 anni? Da un lato, il successo netto ottenuto nelle ultime due elezioni nell’Europa Centro-Orientale e la contemporanea debolezza del PSE nei nuovi paesi membri lascerebbero pensare ad un vantaggio divenuto ormai strutturale e difficilmente scalfibile. Dall’altra parte non si può sottovalutare il fatto che il PPE è ormai percepito più d’ogni altra forza politica come il partito di governo dell’UE, nonché come la forza politica che – grazie all’egemonia esercitata dalla CDU della Cancelliera Merkel sul resto del gruppo – è responsabile della politica di rigore dei conti pubblici e di austerità perseguita in questi anni dall’UE. L’essere percepiti come incumbent in un tempo di aspra crisi economica potrebbe avere conseguenze nefaste per i risultati elettorali del PPE, minacciati alla propria destra dalla crescita del gruppo dei partiti anti-europeisti capeggiato dal Front National di Marine Le Pen.

     Tab. 2 Elenco dei partiti membri del PPE alla vigilia delle elezioni europee del 2014.



    [1] La sovrapposizione tra gruppo e partito non è totale. Alcuni partiti nazionali fanno parte di un gruppo parlamentare nel PE pur non essendo membri dell’europartito. In questa sede ci dedichiamo all’analisi dei gruppi politici.

    [2] Sul punto si veda l’analisi di Hix [2002] sul comportamento di voto dei gruppi politici all’interno del PE.

    [3] Per la verità il “sorpasso” avviene solo nel corso della legislatura con l’ingresso dei deputati di Forza Italia nel 1998, come riportato da Van Hecke [2003].

    [4] Sulla trasformazione della piattaforma programmatica del PPE vedi Hanley [2002]; sulla diminuita coesione del gruppo parlamentare vedi Bardi [2002] e Hix [2002].

    [5] A partire dal 2009, i Conservatori inglesi hanno formato il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR).

  • Proporzionale a geometria variabile. Ecco come si vota nei 28 paesi membri

    di Vincenzo Emanuele

    Quando si studia un’elezione, il sistema elettorale costituisce una fondamentale variabile di contesto di cui è necessario tenere conto. Il sistema elettorale, infatti, può influenzare le strategie competitive degli attori partitici e il comportamento di voto degli elettori (sono i cosiddetti “effetti psicologici”), oltre naturalmente ad incidere sulla trasformazione dei voti espressi dal corpo elettorale in seggi (il cosiddetto “effetto meccanico”). Dal momento che ci prepariamo ad affrontare l’analisi delle elezioni europee, è opportuno far luce su questo aspetto.

    Qual è il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento Europeo? Esiste un unico sistema comune a tutti gli stati membri oppure ogni paese adotta un sistema diverso?

    Con una decisione del Consiglio (n. 772/2002) approvata dal Parlamento Europeo (PE) nel maggio del 2002, l’Unione Europea ha introdotto alcuni principi comuni per uniformare la procedura di elezione del PE, prima lasciata alla giurisdizione degli stati membri. Con questa decisione (che recepisce un indirizzo già presente nel Trattato di Amsterdam) l’UE ha stabilito che i membri del PE siano eletti in tutti i paesi membri con sistema proporzionale, utilizzando il voto di lista o il sistema del voto singolo trasferibile. Gli stati membri possono decidere se applicare una soglia di sbarramento, purché questa non sia superiore al 5% su base nazionale e possono stabilire se dividere il territorio nazionale in diverse circoscrizioni per l’allocazione dei seggi, purché questa suddivisione non influenzi la natura proporzionale del sistema di voto.

    Sulla base di questi principi generali il sistema elettorale nei 28 paesi membri è divenuto più omogeneo, eppure la discrezionalità degli stati nazionali è ancora molto ampia. Oltre al numero di circoscrizioni e all’eventuale soglia di sbarramento, gli stati sono infatti lasciati liberi di decidere l’età dell’elettorato attivo e di quello passivo, la formula elettorale (ossia il meccanismo di traduzione dei voti in seggi), il metodo di elezione dei singoli deputati nonché l’eventuale presenza di sanzioni per coloro che si astengono. La Tabella 1 riassume le caratteristiche dei sistemi elettorali per l’elezione del PE nei 28 paesi membri. Si tratta di un proporzionale a geometria variabile, con 28 varianti nazionali, tale da produrre una babele di formule e soglie che introduce incentivi e vincoli diversi nei diversi contesti nazionali.

    Tab. 1 Il sistema elettorale per l’elezione del PE nei 28 paesi membri.

     

    Come possiamo vedere, l’età richiesta per votare è di 18 anni in tutta Europa con l’eccezione dell’Austria, in cui si può votare dai 16 anni in su. Una maggiore variabilità si riscontra nell’età dell’elettorato passivo, fissato a 25 anni per Italia, Cipro e Grecia. Tutti gli altri paesi sono più permissivi, concedendo la possibilità di essere eletti al PE anche a cittadini di 23 anni (Romania), 21 anni (Belgio, Irlanda e la stragrande maggioranza dei paesi dell’Est Europa) o perfino ai diciottenni (ben 15 paesi, tra cui Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia). In 4 paesi (Belgio, Cipro, Grecia e Lussemburgo), inoltre, il voto è obbligatorio, anche se di fatto non è prevista alcuna sanzione per i “trasgressori”, con l’eccezione del Lussemburgo, in cui gli astensionisti vengono sanzionati con un’ammenda pecuniaria che oscilla tra 100 e 250 euro per chi si astiene la prima volta e tra 500 e 1000 euro per i recidivi.

    Al di là delle diverse normative sull’età dell’elettorato attivo e passivo e l’obbligatorietà del voto, le differenze più interessanti per la valutazione dei sistemi elettorali sono quelle concernenti il numero di circoscrizioni, la formula elettorale e la soglia di sbarramento. Un’analisi comparata di questi elementi ci permette di classificare i diversi sistemi a seconda del loro livello atteso di “disproporzionalità” [Gallagher 1991], ossia della distorsione che essi sono in grado di produrre nella traduzione dei voti in seggi. Una ulteriore variabile però deve necessariamente essere considerata in quanto capace di incidere prepotentemente sul livello di disproporzionalità atteso, ossia il numero di seggi da assegnare: quanto più esso è piccolo, tanto più esiste una disproporzionalità implicita del sistema elettorale[1].

    Sulla base delle caratteristiche appena menzionate (circoscrizioni, formula, soglia e numero di seggi da assegnare), i sistemi elettorali proporzionali sono classificabili lungo un ideale continuum tra proporzionalità e disproporzionalità, dove ad un estremo (quello della proporzionalità) stanno i sistemi con tanti seggi da assegnare in un’unica circoscrizione nazionale (M molto alto), utilizzando il metodo del quoziente naturale (Hare) e senza soglie di sbarramento; all’altro estremo stanno invece i sistemi con pochi seggi da assegnare in molte circoscrizioni (M molto basso), formula D’Hondt e un’alta soglia di sbarramento.

    La stragrande maggioranza dei paesi dell’UE (22 su 28) elegge i propri deputati in una circoscrizione unica nazionale. L’eccezione è rappresentata da alcuni grandi paesi, come l’Italia[2], il Regno Unito, La Francia e la Polonia e due paesi piccoli ma culturalmente eterogenei come Belgio e Irlanda, in cui i seggi sono ripartiti in diverse circoscrizioni così da salvaguardare la rappresentanza dei singoli territori. Nella Tabella 1 abbiamo riportato anche il valore della magnitudo (M) media del paese, data dal rapporto dai seggi totali spettanti e il numero di circoscrizioni. Si osserva una grande variabilità nel valore medio di M, oscillante tra il 2,75 dell’Irlanda e il 96 della Germania. Una analoga variabilità è riscontrabile nelle formule elettorali. Qui il metodo di traduzione dei voti in seggi più utilizzato è quello del divisore D’Hondt, adottato da ben 17 paesi, mentre il più proporzionale metodo del quoziente (Hare o le sue varianti Hagenbach-Bischoff e Droop) è utilizzato da 6 paesi e quello del divisore Sainte-Laguë da 3. L’Irlanda e Malta, infine, votano con il sistema del voto singolo trasferibile, utilizzato nei due paesi anche per le elezioni politiche nazionali. Per quanto concerne la soglia di sbarramento, invece, solo la metà dei paesi la prevede, generalmente del 5% (9 casi[3]) o più raramente del 4% (Austria, Italia e Svezia), del 3% (Grecia) o dell’1,8% (Cipro). Riguardo poi il meccanismo di elezione dei deputati, circa due terzi dei paesi (18 su 28) prevedono il voto di preferenza, sebbene con diverse modalità (lista aperta, flessibile o addirittura panachage come in Lussemburgo[3]), mentre 8 paesi votano con le liste bloccate (l’ordine di lista è preventivamente deciso dal partito).

    Concludendo, è possibile classificare, sulla base delle considerazioni precedenti, i 28 sistemi elettorali in termini di disproporzionalità attesa nella traduzione dei voti in seggi. Come ricordato all’inizio, il sistema elettorale è una variabile cruciale per comprendere l’assetto di un dato sistema partitico e la sua meccanica di competizione. Un sistema maggiormente disproporzionale tenderà a sovra-rappresentare i grandi partiti e rendere più complicato l’accesso dei piccoli partiti alla rappresentanza. Conseguentemente, ciò incentiverà comportamenti strategici sia dal lato dell’offerta (creazione di cartelli elettorali, fusioni tra piccoli partiti etc.) sia dal lato della domanda (gli elettori tenderanno ad abbandonare i partiti più piccoli spostandosi sulle alternative meno sgradite fra quelle che hanno concrete opportunità di ottenere seggi). Abbiamo classificato i sistemi elettorali dei 28 paesi membri sulla base del livello atteso di disporporzionalità attraverso una valutazione qualitativa, utilizzando una scala a 7 punti (da Molto alta a Molto bassa). Un caso estremo di proporzionalità quasi perfetta è quello della Germania, che elegge i suoi 96 deputati in una circoscrizione unica nazionale e senza alcuna soglia di sbarramento. Anche i sistemi elettorali di Spagna e, in misura minore, Paesi Bassi, Portogallo, e Bulgaria appaiono altamente proporzionali. All’estremo opposto troviamo l’Irlanda, che pur non prevedendo alcuna soglia esplicita ha un M medio di 2,75 che rende altamente disproporzionale il sistema. Alla stregua dell’Irlanda, anche la Polonia appare come un sistema altamente disproporzionale, dal momento che abbina un M medio di circa 3,9 e l’assegnazione dei seggi con formula D’Hondt ad uno sbarramento nazionale del 5%. Paesi con sistemi altamente disproporzionali sono poi Cipro, Estonia, Malta, Lussemburgo che, eleggendo solamente 6 deputati, presentano un’alta soglia implicita di sbarramento, tanto da rendere superflua l’applicazione di una soglia esplicita. Francia e Regno Unito presentano invece una disproporzionalità rispettivamente medio-alta e alta per un motivo diverso. In questi paesi l’alto numero di seggi da assegnare è suddiviso in diverse circoscrizioni (M medio di circa 9 per la Francia e 6 per il Regno Unito) ed è inoltre prevista una soglia di sbarramento (circoscrizionale per la Francia e nazionale per il Regno Unito) del 5% e l’applicazione del metodo D’Hondt. Decisamente meno distorsivo è infine il sistema italiano: qui, nonostante la ripartizione del territorio in 5 circoscrizioni  per l’elezione dei deputati, l’assegnazione dei seggi è nazionale ed è previsto uno sbarramento nazionale del 4% con il metodo del quoziente.



    [1] Più precisamente, ciò che va considerato è il rapporto tra numero di circoscrizioni e numero di seggi da assegnare, ossia la magnitudo (M) della circoscrizione, data dai seggi che vengono assegnati nella stessa. Se in una circoscrizione ci sono 100 voti espressi e 20 seggi da assegnare (M=20), la massima soglia implicita raggiungibile dal sistema sarà del 5% (100/20=5): per essere sicuri del seggio bisogna ottenere al massimo 5 voti. Se invece i seggi da assegnare sono soltanto 4, la soglia implicita massima sarà del 25% (100/4=25): per essere sicuri del seggio bisogna ottenere al massimo 25 voti. Ragioniamo in termini di soglia massima perché la soglia implicita reale dipenderà poi dalla effettiva distribuzione dei voti tra i diversi partiti/candidati.

    [2] In realtà in Italia, pur essendo previste 5 circoscrizioni, la ripartizione dei seggi è nazionale.

    [3] In Francia la soglia di sbarramento del 5% si applica al livello circoscrizionale.

    [4] In Lussemburgo è possibile votare per candidati appartenenti a liste diverse. Questa modalità di voto prende il nome di panachage [Cox 2005, 71].

  • Verso le elezioni europee, un quadro introduttivo

    di Vincenzo Emanuele e Nicola Maggini

    Tra circa due mesi (precisamente tra il 22 e il 25 maggio a seconda del paese[1])  390 milioni di elettori appartenenti ai 28 paesi membri dell’Unione Europea saranno chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento Europeo.

    Tradizionalmente considerate “second order elections” (Reif e Schmitt 1980) rispetto alle più importanti elezioni politiche nazionali, le elezioni europee 2014 sembrano potere acquisire una centralità e una rilevanza molto più ampia che in passato. Ciò non soltanto in virtù della crescente importanza del Parlamento Europeo e della sua funzione legislativa all’interno dell’Unione, ma soprattutto come conseguenza della crisi economica e dei debiti sovrani che ha investito l’Europa a partire dal 2008 e che ha fatto emergere l’Unione Europea quale principale centro decisionale in materia di politica economica degli stati membri.

    Le prossime potrebbero quindi essere considerate le “prime” vere elezioni europee, intese come elezioni nelle quali la campagna elettorale nei singoli stati membri non è più legata alle vicende della politica domestica ma agli indirizzi di politica europea che gli attori nazionali propongono. A spingere verso una progressiva europeizzazione della campagna elettorale contribuisce anche la riforma introdotta con il Trattato di Lisbona (entrato in vigore nel dicembre del 2009) che per la prima volta prevede che il Presidente della Commissione sia di fatto eletto dal Parlamento Europeo con il Consiglio Europeo che mantiene soltanto un ruolo di controllo. In pratica si rafforza il legame tra il voto popolare e l’elezione della massima carica monocratica dell’UE (nonché capo del suo organo esecutivo) che non sarà più scelta da contrattazioni fra gli stati membri ma sarà espressione del voto alle elezioni europee.

    Nelle scorse settimane i principali gruppi politici all’interno del Parlamento Europeo (PE) hanno designato i propri candidati alla Presidenza della Commissione. Il gruppo europeo che otterrà la maggioranza relativa dei seggi nel PE vedrà eletto il proprio candidato alla Presidenza della Commissione, introducendo dunque una dinamica di competizione sempre più vicina a quella presente nelle democrazie parlamentari competitive. I due principali candidati sono il lussemburghese Jean-Claude Juncker per il Partito Popolare Europeo (PPE) e il tedesco Martin Schulz per il Partito Socialista Europeo (PSE). Vi sono poi il belga Verhofstadt per il gruppo dei liberali, il greco Tsipras, leader di Syriza, per la sinistra europea e il ticket Keller-Bovè per i Verdi. Il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), del quale fanno parte i Conservatori inglesi, non presenterà alcun candidato alla Presidenza della Commissione. Una scelta condivisa anche dal gruppo dei partiti anti-europeisti (Europe of Freedom and Democracy), capeggiato dal Front National di Marine Le Pen e rappresentato in Italia dalla Lega Nord e da Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale.

    Oltre a scegliere indirettamente il Presidente della Commissione, gli elettori europei voteranno per eleggere i membri del PE che a partire da queste elezioni saliranno a 751 (da 736) per effetto dell’ingresso del ventottesimo stato membro, la Croazia, entrata nell’Unione del luglio del 2013. La Tabella 1 presenta un riepilogo delle variazioni – in termini di seggi spettanti a ciascuno stato – intervenute rispetto al 2009. Come si può vedere, mentre la Germania perde tre seggi, scendendo a 96, l’Italia ne guadagna 1 salendo a 73 membri, così come il Regno Unito; la Francia e la Svezia crescono di due seggi e la Spagna addirittura di 4, mentre la Croazia avrà diritto ad 11 seggi. E’ interessante notare che nel Parlamento Europeo i due principi basilari della rappresentanza che informano tutti i Parlamenti delle nazioni democratiche, ossia la rappresentanza dei popoli (di solito concernente la Camera Bassa) e quella dei territori (di solito riguardante la Camera Alta) sono entrambi presenti e si controbilanciano. I membri spettanti a ciascun paese cercano infatti di rispettare la proporzione esistente fra popolazione residente dello stato e dell’UE. Eppure, se questo principio fosse applicato integralmente, alcuni piccoli paesi, come Malta, Lussemburgo, Cipro o Estonia avrebbero pochissimi rappresentanti. Per salvaguardare la rappresentanza dei territori (gli stati membri), dunque, il Trattato stabilisce che nessun paese può avere meno di 6 deputati. Così, mentre la Germania ha diritto a un eurodeputato ogni 860.000 abitanti circa, Malta ne elegge uno ogni 69.000.

    Tab. 1 Distribuzione dei seggi nel PE e cambiamenti intervenuti tra il 2009 e il 2014.

    Il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento Europeo varia da stato a stato, ma con il Trattato di Amsterdam si è stabilito che gli stati membri sono tenuti ad utilizzare il sistema proporzionale e ad applicare soglie di sbarramento non più alte del 5%.

    Per gli elettori di paesi storicamente maggioritari, come la Francia e il Regno Unito, la possibilità di votare con il sistema proporzionale costituisce un cambiamento rilevante che generalmente si traduce nella sotto-rappresentazione dei principali partiti a vantaggio di opzioni politiche minoritarie e generalmente marginali nel sistema politico nazionale. In misura simile, comunque, anche negli altri paesi la dinamica di competizione “second order” (ossia la minore importanza della posta in palio) tipica delle elezioni europee porta con sé alcune tendenze che si ripetono nel tempo: una diminuzione della partecipazione al voto rispetto alle elezioni politiche nazionali, una perdita di consenso dei partiti di governo e la crescita elettorale dei piccoli partiti. Più in generale, una dinamica di competizione più frammentata e un voto meno vincolato a considerazioni strategiche rispetto a quanto avviene nelle arene domestiche.

    Nonostante la maggiore tendenza ad esprimere un voto verso partiti minori e a danno dei partiti di governo, le grandi famiglie politiche europee dei popolari e dei socialisti sono sempre state le forze largamente maggioritarie all’interno del PE e alle elezioni del 2009 hanno ottenuto oltre il 60% dei seggi se considerate congiuntamente. Come vediamo nella Tabella 2, il Parlamento uscente presenta una maggioranza relativa del PPE (36%) con un PSE relegato appena al 25% dei seggi, la quota più bassa di sempre. Quella del 2009 è stata la terza vittoria elettorale consecutiva per il PPE che ormai dal 1999 sopravanza il PSE grazie ad una più efficace politica di integrazione tra le sue fila di partiti estranei alla tradizione ideologica originaria del gruppo (formato inizialmente solo da partiti di orientamento cristiano-sociale e cristiano-democratico e poi allargatosi fino ad includere quasi tutti i maggiori partiti che nei rispettivi paesi occupano il polo conservatore del continuum sinistra-destra). Inoltre, con il massiccio allargamento ad Est avvenuto nel 2004 il vantaggio del PPE sul PSE è divenuto ancora più solido per via del debole insediamento della tradizione socialista nei paesi dell’Europa Centrale e Orientale, mentre il PPE ha potuto contare sull’apporto dei forti partiti conservatori di quei paesi.

    Tabella 2 Composizione del PE dopo le elezioni del 2009

    Lontani dalla competizione per il primato nel PE troviamo il terzo gruppo storico, quello dei liberali (ALDE) che nel 2009 ha raccolto circa l’11% dei seggi, sopravanzando i Verdi (7,5%) e il nuovo gruppo dei Conservatori e Riformisti (7,3%) formatosi proprio nel 2009 su iniziativa del Conservatori inglesi che sono usciti dal PPE per via del loro crescente euroscetticismo. Troviamo poi le due formazioni più estreme, il gruppo della sinistra radicale e quello della destra anti-europeista e anti-euro, che nel 2009 erano confinati sotto il 5% dei seggi ma che in queste elezioni, spinti dalla crisi economica e dalla forte leadership di personaggi come Tsipras e Marine Le Pen, potrebbero ottenere un grande successo, sebbene il primato dei partiti europeisti (PPE, PSE e ALDE) non appaia sfidabile. Infine nel 2009 sono stati eletti anche 27 membri che non hanno preso parte a nessun gruppo[2], un fenomeno in costante diminuzione vista la crescente “istituzionalizzazione del sistema partitico europeo” (Bardi 2002).



    [1] In particolare, Regno Unito e Paesi Bassi si recheranno alle urne il 22 maggio, l’Irlanda il 23, Cipro, Lettonia, Malta, Slovacchia e Repubblica Ceca il 24 maggio. Il 25 maggio andranno al voto tutti gli altri paesi.

    [2] Ricordiamo che per costituire un gruppo nel PE sono necessari 25 deputati appartenenti ad almeno 7 stati membri.

  • Il governo, l’economia, l’Europa: un’Italia pessimista e (sempre più) euroscettica

    di Vincenzo Emanuele

    Un’Italia fiaccata da oltre 5 anni di crisi economica, pessimista sul futuro, sempre più scettica sul processo di integrazione europea e sull’opportunità di rimanere nella moneta unica: è questa l’immagine del nostro paese che emerge da alcune domande testate nell’indagine Osservatorio Politico CISE del dicembre 2013[1].

    Innanzitutto è stato chiesto ai nostri intervistati di fornire un giudizio retrospettivo sull’economia e, in particolare, sulla situazione economica in Italia nel corso dell’ultimo anno. Come era lecito attendersi, per 4 elettori su 5 del nostro campione di circa 1500 intervistati la situazione economica nel corso dell’ultimo anno è peggiorata, per il 18% è rimasta uguale al passato e solo il 3% giudica la situazione economica molto o abbastanza migliorata. I giudizi non variano di molto se incrociamo questa domanda con il voto alle coalizioni, dividendo tra elettori di centrosinistra, centrodestra, centro (gli ex elettori della coalizione guidata da Monti), Movimento 5 Stelle e area dell’astensione. Notiamo un maggiore pessimismo da parte degli elettori del centrodestra e del M5S, per l’85% dei quali la situazione economica è peggiorata nell’ultimo anno, mentre gli elettori di centrosinistra e di centro mostrano una percezione leggermente più positiva della situazione (vedi Tabella 1).

    I giudizi si differenziano maggiormente allorché si passa da un giudizio retrospettivo ad una valutazione prospettiva dell’andamento dell’economia. Chiedendo agli intervistati come sarà la situazione economica del paese nei prossimi 12 mesi, la sfiducia e il pessimismo continuano a prevalere, dal momento che la maggioranza relativa dei rispondenti (39%) prevede un peggioramento dell’economia italiana e un ulteriore 37% prospetta un mantenimento delle condizioni attuali. Rispetto alla domanda precedente, però, il giudizio è assai meno netto, dal momento che emerge anche circa un quarto del campione che si aspetta un miglioramento della situazione economica nel corso del prossimo anno. Il giudizio sul futuro dell’economia italiana sembra essere piuttosto condizionato dalla propria appartenenza politica. In particolare si individua una linea netta che separa l’area di governo dalle opposizioni: gli elettori di centrosinistra e di centro, i cui partiti compongono la maggioranza che sostiene il governo Letta sono di gran lunga più fiduciosi rispetto agli elettori del centrodestra (la stragrande maggioranza dei quali votano Forza Italia e Lega Nord e quindi si collocano all’opposizione[2]), di Grillo e agli astenuti (vedi Tabella 1). Solo il 15% degli elettori del M5S prevede un miglioramento della situazione economica, contro il 37% di quelli del centrosinistra. Allo stesso tempo, gli elettori del centrodestra sembrano i più pessimisti: la metà di loro ritiene che l’economia peggiorerà ulteriormente. Si tratta di una percentuale più che doppia di quella mostrata dagli elettori di centrosinistra (22%).

     Tab. 1 La situazione economica nell’ultimo anno e nei prossimi 12 mesi (N= 1516; 1472).

    Il pessimismo e la sfiducia causati dalla crisi economica e dall’incapacità della classe politica di farvi fronte sembrano investire anche altri temi, sempre più al centro del dibattito in questi mesi: l’Europa e l’euro.

    L’Italia è sempre stato un paese favorevole all’integrazione europea. Nelle indagini annuali dell’Eurobarometro (https://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb_arch_en.htm) gli elettori italiani risultavano sempre fra i più europeisti, ma evidentemente qualcosa è cambiato negli ultimi mesi. Forse l’immagine veicolata dai media e da ampi settori della classe politica di un’Europa sempre più burocratizzata e germanocentrica, attenta solo all’equilibrio dei conti pubblici e lontana dai problemi della gente ha affievolito il sogno europeista cullato fino a poco tempo fa dalla stragrande maggioranza degli italiani. Oggi coloro che giudicano l’appartenenza dell’Italia all’Europa come “un bene” sono meno della metà (49%), mentre per un rispondente su 5 è “un male” (vedi Tabella 2). Ancora una volta sembra emergere una netta dicotomia tra gli “europeisti” centristi e progressisti (rispettivamente, il 79% e i 68% dei quali vede come un fatto positivo la presenza dell’Italia nell’UE) e i giudizi molto più incerti degli elettori di centrodestra (35% positivi contro 28% negativi) e del M5S (36% positivi e 31% negativi). L’area del non voto, invece, si colloca in posizione intermedia tra questi due grandi gruppi di elettori, ma comunque più vicina al versante degli euroscettici. In ogni caso, comunque, in nessuno dei 5 sottogruppi in cui abbiamo suddiviso il campione, i giudizi negativi circa l’appartenenza dell’Italia all’UE prevalgono su quelli positivi.

    Per quanto concerne la moneta unica, è stato chiesto al nostro campione di intervistati se sono d’accordo con quanto affermano ormai alcuni autorevoli economisti e alcune forze politiche (in primis la Lega Nord), e cioè che l’Italia farebbe bene ad uscire dall’euro. Fino a pochi mesi fa questa domanda avrebbe visto una predominio quasi plebiscitario dei favorevoli alla moneta unica, mentre oggi un terzo esatto del campione è molto o abbastanza favorevole alla proposta di fuoriuscire dall’euro. Questo 33% si distribuisce in modo assai differenziato a seconda del colore politico. I centristi si confermano i più europeisti, con appena l’11% di favorevoli all’uscita dall’euro, seguiti dagli elettori di centrosinistra (18%). E’ interessante notare che, a differenza della domanda sull’appartenenza all’UE, nel caso dell’euro i più scettici sembrano gli elettori conservatori, più ancora dei grillini, mentre l’area dell’astensione non si discosta molto dalla media nazionale. Oggi il 48% degli elettori di centrodestra è contrario all’euro (vedi Tabella 2): un dato eclatante che può segnare una novità rilevante nel panorama politico italiano del prossimo futuro. La consapevolezza di questi numeri potrebbe infatti spingere Berlusconi verso una campagna elettorale delle prossime elezioni europee tutta giocata sull’attacco all’Europa e all’euro. Ciò costituirebbe una svolta profonda sia nel tradizionale rapporto fra classe politica italiana ed Europa – da sempre caratterizzato da un appoggio sostanzialmente trasversale di centrosinistra e centrodestra alle politiche di integrazione – sia per quanto concerne la collocazione europea di Forza Italia (dal 1998 saldamente inserita nel PPE).

     Tab. 2 Il giudizio sull’appartenenza all’UE e sulla proposta di uscita dall’euro (N= 1488; 1485).

         

    In un contesto apparentemente proibitivo, caratterizzato dall’imperversare della crisi economica, dal pessimismo sul futuro e dalla perdita di fiducia nei confronti dell’Europa, il governo Letta sembra reggere abbastanza bene. Come vediamo nella Tabella 3, il 42% degli intervistati esprime un giudizio molto o abbastanza positivo sul suo operato, a fronte di un 58% di giudizi negativi. Le differenze tra elettori a sostegno dei partiti di governo e di opposizione rilevate  in precedenza spiccano qui in modo assai pronunciato: i favorevoli al governo sono oltre il 60% al centro e a sinistra, mentre questa cifra risulta più che dimezzata fra gli elettori di centrodestra (30%) e del M5S (28%). Eppure, anche tra chi è contrario al governo, il ricorso ad elezioni immediate non sembra per tutti la soluzione migliore. Oltre un terzo degli elettori del M5S e del centrodestra vorrebbe che il governo Letta restasse in carica almeno fino al 2015, ossia fino alla conclusione del semestre di presidenza italiana dell’UE contro poco meno dei due terzi che invece invoca un immediato ricorso alle urne. Su questa domanda, peraltro, l’elettorato è perfettamente spaccato a metà (vedi Tabella 3). Questo dato ci appare un ulteriore conferma dello stato di pessimismo e sfiducia in cui versano gli elettori italiani: una quota rilevante[3] di coloro che sono critici nei confronto del governo Letta vorrebbe comunque che quest’ultimo restasse in carica almeno un anno per cercare di risolvere la crisi. Questi elettori sono dunque scettici perfino sul fatto che un ritorno alle urne possa rappresentare una soluzione vantaggiosa per l’Italia, visto l’alto rischio di riprodurre un Parlamento privo di maggioranza, almeno finché non sarà approvata una nuova legge elettorale.

     Tab. 3 Il giudizio sul governo Letta e e sulla sua permanenza in carica (N= 1462; 1435).



    [1] Indagine CATI/CAMI (telefonia fissa/mobile) svolta su un campione di 1500 intervistati, rappresentativo della popolazione elettorale italiana su alcune caratteristiche sociodemografiche. Le interviste sono state condotte dalla società Demetra di Mestre tra il 16 e il 22 dicembre 2013.

    [2] Qui presentiamo solo il voto alle coalizioni e non ai partiti sia per rendere significativi gli incroci con le variabili analizzate (altrimenti le singole celle dell’incrocio avrebbero troppi pochi casi perdendo così significato) sia per questioni di presentabilità grafica dei risultati in tabella.

    [3] Si tratta precisamente del 33,7% dei rispondenti (N=1399).