Midterm elections: dove, come e perchè Obama ha perso il Senato

di Aldo Paparo

Adesso che anche il seggio dell’Alaska può considerarsi assegnato allo sfidante repubblicano Sullivan, con buona pace dell’incumbent democratico Begich che ancora non ha concesso la vittoria al rivale, in attesa che il riconteggio dei voti si concluda, abbiamo il quadro quasi definitivo dei risultati elettorali per il Senato statunitense. Quasi perché, come avevamo avuto modo di anticipare, il seggio della Louisiana sarà assegnato il prossimo 6 dicembre in un ballottaggio fra la senatrice uscente, la democratica Landrieu, e lo sfidante repubblicano, Cassidy. Al primo turno, l’incumbent è risultata il candidato più votato, con circa un punto percentuale di vantaggio sul rivale, che però potrebbe poter contare sul 15% circa di votanti che si è espresso in favore di un altri candidati repubblicani lo scorso 4 novembre.

Alla Camera, invece, il numero dei seggi ancora da attribuire è più cospicuo: 5, di cui solo i due in Louisiana andranno al ballottaggio. Naturalmente non è in discussione il largo successo repubblicano anche nella camera bassa del Congresso, ma questa manciata di seggi segnerà la dimensione storica di tale successo. Al momento, il GOP ha vinto in 244 collegi, contro i 18 dei democratici. Come abbiamo già evidenziato, quota 246 seggi rappresenta una soglia simbolica molto importante. Aspettiamo quindi ancora qualche giorno prima di stilare un bilancio definitivo delle elezioni per la House. Al Senato, invece, l’unica variabile è il seggio della Louisiana: le alternative possibili sono quindi solo due, ed assai facili da identificare.

Riassumendo, dei 36 seggi in palio, i repubblicani ne hanno già conquistati 23, i democratici 12. La figura 1 riporta i vari Stati chiamati al voto, indicando l’appartenenza partitica del candidato vincitore insieme all’appartenenza del Senatore uscente.[1] Sul totale dei 36 seggi, ne servivano 21 al GOP per conquistare il controllo dell’assemblea, toccando quota 51. In attesa della Louisiana, i repubblicani sono già due vittorie sopra tale soglia, il che significa che avranno 53 o 54 Senatori nel prossimo Congresso, il 114°.

Sempre nella figura 1 possiamo osservare come il GOP abbia strappato ai rivali democratici 8 seggi, senza cederne nessuno. I cambi di colore politico dei seggi della seconda classe senatoriale sono avvenuti in Alaska, Arkansas, Colorado, Iowa, Montana, Nord Carolina, South Dakota and West Virginia. In 4 casi (Alaska, Arkansas, Colorado e Nord Carolina) a venire sconfitto è stato il Senatore uscente democratico. Sempre in attesa della Louisiana. Ricapitolando, nessuno swing è avvenuto quindi nel Nordest, mentre i democratici registrano perdite in tutte le altre regioni: 3 ad Ovest e nel Sud, 2 nel Midwest.

Più in generale, possiamo osservare come i repubblicani abbiano vinto tutti quasi tutti i seggi in palio al Sud: 13 su 15, venendo sconfitti solo nelle porzioni più nordorientali della regione, attorno alla capitale federale (Delaware e Virginia). I democratici, al contrario, vincono quasi tutti i – pochi – seggi del Nordest: 4 su 5. Solo la Collins in Maine ha vinto per i repubblicani – era anche l’unico incembent del GOP nella regione. Sia nel Midwest che nel West i repubblicani hanno conquistato la maggioranza dei seggi, in contesti assai più competitivo: 4 contro i 3 dei democratici nel primo caso, 5 a 3 nel secondo.

Fig. 1 – Mappa del risultato elettorale al Senato

Dopo avere visto la geografia del risultato 2014, nella figura 2 possiamo osservare quale sarà la composizione partitica delle delegazioni dei diversi Stati nel 114° Congresso. Come detto, al momento sappiamo che vi saranno 53 Senatori repubblicani, 44 democratici e 2 indipendenti iscritti fra i democratici. Se, per semplicità, contiamo gli indipendenti fra i democratici, abbiamo al momento un totale di 19 Stati con una delegazione interamente appartenente al GOP, 16 Stati con due Senatori democratici e 14 Stati con delegazioni miste.

Guardando alla composizione partitica per macroaree, possiamo dire che i democratici hanno mantenuto invariata la propria posizione di predominio nel Nordest, dove i repubblicani continuano ad esprimere un sesto appena dei Senatori (3 su 18). Hanno invece perso il vantaggio numerico fra i 26 seggi dell’Ovest, che sono oggi equamente divisi fra i due partiti. Nell’attuale Congresso sono democratici la metà dei Senatori del Midwest, nel prossimo lo sarà meno del 40% (10 su 24). E poi c’è  il Sud, che da solo pesa un terzo del Senato (32 seggi). Nel prossimo Congresso appena un quarto dei Senatori di questa regione saranno democratici. E’ forse questo il dato più impressionante che la figura mette in risalto: a sudovest della Virginia, sui 23 seggi già assegnati per il prossimo Congresso, appena uno è detenuto da un democratico: Nelson in Florida. Gli altri 22 sono tutti repubblicani.

Fig. 2 – Composizione partitica delle delegazioni in Senato dei 50 Stati nel prossimo Congresso

Venendo all’analisi del risultato elettorale, cominciamo col dire che si sono verificate le previsioni della vigilia. Qualche settimana or sono, avevamo azzardato una previsione in 31 seggi sui 36 totali, lasciandone 5 come vere e proprie sfide impronosticabili. Ebbene, in 30 istanze su 31 il nostro pronostico  si è rivelato esatto. Solo in Nord Carolina, la senatrice democratica uscente, Hogan, è stata sconfitta a sorpresa – ma non poi così tanto: noi stessi non l’avevamo considerata fra le sfide già chiuse e negli ultimi giorni la sua rielezione appariva sempre più incerta.

La sconfitta della Hagan è forse il risultato più sorprendente, ma l’unico. Ad esempio, il seggio della Virginia è stato confermato dai democratici, ma l’incumbent Warner ha dovuto aspettare che venissero contate le ultime schede per potere celebrare una vittoria che sembrava abbastanza scontata alla vigilia. Tanto che, probabilmente, una quota rilevante di elettori democratici non si  recata alle urne nella convinzione che non fosse necessario il proprio voto per la vittoria del candidato preferito. E anche le risorse di partito non sono certo state concentrate in questa sfida che, alla fine, è risultata la più ravvicinata.

Come detto, comunque, i pronostici sono stati generalmente rispettati. E queste elezioni si sono giocate nelle  sfide chiave che avevamo individuato alla vigilia. In attesa del ballottaggio in Louisiana, in questi cinque casi cruciali, i repubblicani hanno già vinto 4 seggi, mentre i democratici nessuno. E solo in Colorado la corsa è stata davvero serrata; in Iowa, Kansas e Georgia i candidati repubblicani hanno prevalso con margini compresi fra gli 8 e gli 11 punti percentuali.

Possiamo quindi sintetizzare dicendo che la vittoria del GOP nasce dal fatto che i candidati repubblicani siano riusciti a vincere in tutte le sfide più incerte e combattute, e anche a rendere al fulmicotone alcune sfide  –  tutte concentrate nel Sud del paese – in cui i democratici sembravano più o meno in controllo, riuscendo perfino a vincerne una (in Carolina del nord, per l’appunto).

Per comprendere meglio il quadro dei risultati, nella tabella 1 mostriamo il dettaglio di ciascuna delle 36 sfide. I 35 candidati repubblicani – eccezion fatta per Sessions in Alabama che ha corso senza rivali – hanno ottenuto mediamente la maggioranza assoluta dei consensi: il 52%. I 34 candidati democratici – escludendo quindi l’indipendente Orman – si sono fermati al 43.8. Lo scarto medio in favore dei repubblicani è quindi pari ad un ragguardevole 8% abbondante.

Il tasso di rielezione degli incumbent si è confermato assai elevato: l’86%. Se anche la Landrieu dovesse perdere, sarebbe comunque pari all’80%. Bisogna però sottolineare come questo dato non sia affatto uniforme fra i due partiti. Infatti i repubblicani hanno visto rieletti tutti i propri incumbent: 11 su 11. I democratici, al contrario, hanno già visto sconfitti 4 dei propri incumbent. Presentano un tasso di rielezione straordinariamente basso. Già adesso è poco superiore al 70; se poi dovesse essere persa la Louisiana, scenderebbe ai due terzi esatti.

Se ai 4 incumebent sconfitti sommiamo gli 8 open seats, abbiamo un totale di 12 matricole che entreranno nel nuovo Congresso, un terzo esatto dei 36 seggi assegnati nel 2014[2]. Potrebbero poi diventare addirittura 13 se Cassidy sarà eletto in Louisiana. Di questi 11 sono i repubblicani, mentre l’unico volto nuovo in Senato fra le fila democratiche è Peters, eletto in Michigan.

L’anzianità media di servizio per i 35 Senatori già eletti è esattamente pari a 8 anni. Sfiora i 9 per i 23 Senatori repubblicani. Supera di poco i 6 per i 12 democratici. Nonostante i molti esordienti, i repubblicani esprimono infatti anche i due Senatori con la più alta anzianità di servizio nella seconda classe: McConnell è stato eletto per la sesta volta in Kentucky, Cochran in Mississippi addirittura per la settimana. Nessun altro Senatore eletto ha alle spalle più di tre mandati. Dall’altra parte, i democratici hanno fra le loro fila 5 Senatori eletti su 12 con meno di un mandato completo alle spalle. Il risultato della Louisiana produrrà comunque un leggero riequilibrio su questo piano: la media democratica toccherà i 7 anni se la Landrieu riuscirà ad ottenere un quarto mandato, in caso contrario l’anzianità media di servizio per i Senatori eletti repubblicani scenderà ad 8,6 anni.

I repubblicani si aggiudicano poi entrambe le contese tutte rose: in Maine l’incumbent Collins ha più che doppiato la sfidante democratica Bellows. Non troppo meglio  è andata comunque alla Tennant contro la Moore Capito in West Virginia. In totale sono 4 le Senatrici elette nella seconda classe per il 114° Congresso – in attesa di conoscere il destino della Landrieu. Si tratta del medesimo numero della precedente legislatura. Da notare, però, l’inversione nella composizione partitica della rappresentanza femminile. Se le incumbent erano tre democratiche, con la sola Collins per i repubblicani; comunque vada in Louisiana, nel prossimo Congresso la maggior parte delle Senatrici della seconda classe saranno repubblicane. Questa classe resterà comunque quella con la più bassa rappresentanza femminile. Ma non così per il GOP, che avrà appena 6 Senatrici in tutto, ma la metà di queste proverranno dalla seconda classe.

Tab. 1 – Le 36 competizioni elettorali del 2014 per un seggio in Senato: risultati elettorali

Abbiamo fin qui indagato i primi due aspetti richiamati dal nostro titolo: dove e come si sono verificati i successi repubblicani che sono costati al partito del Presidente la maggioranza del Senato, rendendolo a tutti gli effetti un’anatra zoppa di qui alla fine della sua amministrazione. Nel concludere questo articolo, cerchiamo adesso di rispondere al terzo punto indicato nel titolo, andando alla ricerca delle ragioni dell’esito elettorale osservato e fin qui descritto.

Il punto centrale attorno a cui ruota la comprensione del risultato elettorale sembra essere il malcontento nei confronti del Presidente. Certo, se meno di 50,000 elettori fra Alaska, Colorado e Nord Carolina avessero dato fiducia agli incumbent democratici, invece di preferire loro gli sfidanti repubblicani, il controllo del Senato sarebbe ancora in palio nel ballottaggio della Louisiana e il quadro complessivo assai diverso. Tutte e tre queste sfide sono state perse con margini percentuali contenuti fra il punto e mezzo ed i tre punti. Ma per come stanno le cose, il risultato elettorale nel suo complesso appare come un vero e proprio voto contro il Presidente.

La sconfitta democratica non è infatti circoscritta, come i vertici di partito si auguravano alla vigilia, ad un qualche arretramento nelle due Camere – auspicabilmente senza perdere il controllo del Senato -, in parte giustificabile alla luce della sfavorevole composizione degli Stati al voto per il Senato e del tradizionale arretramento a midterm del partito del Presidente. Investe pienamente anche le corse per i mandati a Governatore: i repubblicani sono infatti riusciti non solo a replicare il risultato ottenuto nel 2010 sotto la spinta del Tea Party, ma hanno guadagnato 3 ulteriori amministrazioni statali, vincendo in 27 elezioni su 38. Un’ondata repubblicana che attraversa tutto il paese. Anche nelle elezioni per le assemblee legislative degli Stati, infatti, i repubblicani registrano un successo senza precedenti in epoca moderna. D’altronde, la popolarità di Obama è ormai stabilmente attorno a quella quota 40%, che nella storia americana rappresenta un chiaro presagio di sconfitta elettorale.

Eppure, a ben guardare, la situazione economica del paese non pare poi così negativa, soprattutto se vista attraverso le lenti di quella italiana. Ma dai sondaggi degli ultimi mesi emerge sempre più con chiarezza che la maggioranza degli elettori non crede più al sogno americano, alla possibilità di farsi strada e garantirsi un futuro di prosperità economica per la propria famiglia attraverso il duro lavoro.  Oggi la classe media d’oltreoceano fronteggia un qualcosa che a noi appare assai familiare: la prospettiva di non riuscire a far avere ai propri figli la stessa qualità della vita di cui ha potuto godere.

I successi, per quanto parziali, sul piano economico non sono comunque gli unici risultati raggiunti nei primi sei anni di presidenza Obama. Certo, la riforma sanitaria non sarà stata rivoluzionaria, ma rappresenta pur sempre un miglioramento notevole delle condizioni di vita per milioni di americani. Obama ne è stato l’artefice. E’ la sua amministrazione che ha scovato Bin Laden e ritirato le truppe da Iraq e Afghanistan. Eppure la sua presidenza rischia di passare alla storia come una delle più incolori, infruttuose e impopolari, per lo meno fra quanti hanno ricevuto due mandati alla Casa Bianca. Come è possibile una simile impopolarità per un Presidente non poi così inconcludente?

Per venire a capo di questo rompicapo dobbiamo necessariamente guardare ai successi elettorali di Obama, e alla sua straordinaria capacità di mobilitare un elettorato profondamente sfiduciato. Questi si è presentato nel 2008 e poi ancora nel 2012 come il volto nuovo, l’uomo del cambiamento. Colui che, una volta ricevuta l’investitura popolare, avrebbe trasformato la politica di Washington verso la quale la stragrande maggioranza degli americani guarda con distacco se non disgusto. Avrebbe dovuto sconfiggere le lobby e Wall Street per riportare al centro l’interesse collettivo e contrastare la crescente diseguaglianza di reddito. Ecco, è qui che si radica la sua sconfitta: non c’è riuscito. E ormai ha anche l’atteggiamento corporeo di chi ne è consapevole: nelle sue più recenti uscite pubbliche pare più un cane bastonato che non il consueto guerriero politico.

Promettere quei cambiamenti lungamente attesi e agognati sembra essere la strada maestra per il successo elettorale, soprattutto di fronte a diffuso malcontento. D’altro canto, fallire nel realizzare le radicali riforme prospettate, appare come un percorso altrettanto diretto verso la disillusione e la sfiducia dei propri stessi elettori. In fondo, non è certo una novità che chi suscita grandi aspettative deve necessariamente confrontarsi col problema di mantenerle, in politica come nella vita in genere.

Chissà che a Roma non debba cominciare a preoccuparsi qualche altro politico che ha costruito uno straordinario consenso attorno alla propria figura promettendo un radicale cambiamento di una classe politica assai impopolare, ed altre riforme di policy largamente ragionevoli e apprezzabili, ma non certo di semplice realizzazione…


[1] In Oklahoma e Sud Carolina, per via di elezioni suppletive, sono stati eletti entrambi i Senatori dello Stato. Per questo nella mappa tali Stati sono tagliati a metà da una linea trasversale nera: l’intero territorio dello Stato rappresenta in questi casi i due seggi senatoriali; ciascuna porzione, invece, un singolo seggio. In entrambi questi Stati i repubblicani hanno fatto bottino pieno, aggiudicandosi ambedue i seggi.

[2] A questi dovrebbero sommarsi anche il democratico Schatz alle Hawaii ed il repubblicano Scott in Sud Carolina, che non sono degli esordienti in Senato, ma vi sono stati eletti per la prima volta. Infatti erano divenuti membri durante il 113° Congresso a seguito di nomina governatoriale in supplenza. I entrambi i casi sono adesso stati eletti per completare un mandato della terza classe, che sarà rinnovato nel 2016.

 

Aldo Paparo è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Firenze. È stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche alla LUISS Guido Carli. Dopo il conseguimento del dottorato è stato W. Glenn Campbell and Rita Ricardo-Campbell National Fellow presso la Hoover Institution alla Stanford University, dove ha condotto una ricerca sulla identificazione di partito in chiave comparata. Ha conseguito con lode il dottorato di ricerca in Scienza della Politica presso la Scuola Normale Superiore (ex SUM) di Firenze, con una tesi sugli effetti del ciclo politico nazionale sui risultati delle elezioni locali in Europa occidentale. Ha conseguito con lode la laurea magistrale presso Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi sulle elezioni comunali nell’Italia meridionale. Le sue principali aree di interesse sono i sistemi elettorali, i sistemi politici e il comportamento elettorale, con particolare riferimento al livello locale. Ha co-curato numerosi volumi della serie dei Dossier CISE; e ha pubblicato articoli scientifici su South European Society and Politics, Italian Political Science, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, Contemporary Italian Politics e su Monkey Cage. È stato inoltre co-autore di un capitolo in Terremoto elettorale (Il Mulino 2014). È membro dell’APSA, della MPSA, della ESPA, della ECPR, della SISP e della SISE. Clicca qui per accedere al profilo su IRIS.