di Lorenzo De Sio
E così, eclissata da notizie politicamente ben più rilevanti che giungono da Oltremanica, si è conclusa questa tornata di elezioni amministrative. Un risultato senza dubbio complesso da decifrare, ma da cui si possono trarre alcune indicazioni chiave riguardo alle strategie nazionali dei vari partiti, soprattutto riguardo al futuro.
Partiamo dagli elementi chiave del risultato. A mio parere questi si possono sintetizzare come segue:
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L’affermazione del Movimento 5 Stelle. Nel confronto fondamentale con le amministrative del 2011, l’affermazione del M5S si conferma come reale e strutturale. Non si è trattato di una effimera fiammata di antipolitica nelle strane elezioni del 2013 (dovuta magari agli errori di Bersani): si tratta ormai di una presenza strutturale della politica italiana. Il M5S fu il primo partito alle politiche del 2013; in queste amministrative si conferma come un partito che, da solo – senza dover costruire alleanze con miriadi di liste civiche – è in grado di arrivare sistematicamente ai ballottaggi in molte città.
Ma soprattutto, una volta arrivato ai ballottaggi, gode di un vantaggio sistematico dovuto a una capacità di penetrazione trasversale nell’elettorato, che non si ferma di fronte a confini ideologici. Le analisi di flusso mostrano infatti che il M5S vanta consistenti flussi di voto tanto dal centrosinistra (soprattutto nel primo turno: emblematico il caso di Torino) quanto dal centrodestra (soprattutto nel secondo turno).
- La difficoltà del Pd. In termini di città governate, il Pd vede un netto peggioramento rispetto al 2011.
I flussi evidenziano che le difficoltà del Pd vengono, essenzialmente, dall’incapacità di compensare con nuovi acquisti al centro e a destra le perdite subite nell’elettorato di centrosinistra. Al di là delle situazioni locali, infatti, i flussi nelle principali città mostrano che i candidati Pd, già al primo turno, quasi ovunque acquistano elettori tra chi aveva votato centrodestra cinque anni prima; ma al tempo stesso ne perdono molti di più verso il M5S (in alcuni casi in modo davvero massiccio, come a Torino) e verso l’astensione.
E’ importante sottolineare la strutturalità di questo dato, che vediamo in tutte le quattro grandi città che abbiamo analizzato (Milano, Torino, Bologna e Napoli). Anche nel caso di Milano, che viene spesso indicato come caso di successo, diverso dalle altre città: anche qui, la sostituzione di elettori di sinistra con elettori di centro-destra (a saldo finale negativo), che avevamo etichettato – nel caso di Torino – come “mutazione genetica” è chiaramente presente.
- La sostanziale inadeguatezza dell’offerta politica di sinistra radicale, che in nessun caso (tranne che in alcune sfide locali molto specifiche) riesce a intercettare gli elettori delusi dal Pd, che si dirigono piuttosto verso il M5S o verso l’astensione.
- La non scomparsa (!) del centrodestra, che – nonostante l’assenza di una forte leadership nazionale e una certa sofferenza verso la ricollocazione più moderata del Pd, cui spesso cede voti (vedi punto 2) – si mostra, quando è unito, decisamente competitivo, a testimonianza della presenza di un blocco di elettori di centrodestra capace di mobilitarsi in presenza di una coalizione unita e con buone candidature.
Alla luce di questi risultati, si possono fare alcune considerazioni relative alle strategie di competizione dei principali partiti, e ai loro esiti. La prima di queste è relativa ovviamente alla strategia del Pd. Come è noto, l’obiettivo strategico di Renzi fin dall’inizio della sua avventura politica è stato quello di espandere il Pd fuori dall’area tradizionale di centrosinistra, alla ricerca di elettori moderati. Va tuttavia detto a questo si può arrivare con due strategie alternative.
La prima è una classica strategia posizionale (in parte riconducibile all’approccio utilizzato da Tony Blair venti anni fa all’epoca della “terza via”): assumere posizioni più moderate per attrarre elettori dal centro-destra, mettendo in conto di perdere qualche elettore di sinistra. La seconda invece è una strategia di tipo ecumenico, fondata sulla propria credibilità nel raggiungere obiettivi trasversali che stanno a cuore all’intero elettorato (es. la crescita economica, il rinnovamento della politica, ecc.). Il punto è che Renzi storicamente ha alternato le due strategie, con risultati diversi. In particolare la campagna delle europee 2014 non solo cadeva in un momento di “luna di miele”, a pochi mesi dal suo insediamento (ma fu un insediamento non elettorale, e molto controverso), ma soprattutto fu caratterizzata da una strategia chiaramente ecumenica. Renzi fece leva sulla sua credibilità nel rinnovare la politica (la rottamazione), nel dare più spazio alle donne, nel difendere l’Italia in Europa, e nel poter rimettere in moto l’economia. Tutti temi su cui era ritenuto molto più credibile del M5S e del centrodestra, e che fruttarono il clamoroso risultato del 2014, in cui Renzi riuscì a realizzare il sogno di ogni politico: guadagnare voti nel campo avversario senza perdere i propri.
Il problema è che dopo le europee Renzi ha abbandonato questa strategia, per perseguire invece una più classica strategia posizionale. In parte ciò era inevitabile, dovendo affrontare questioni controverse (il Jobs Act, la riforma della scuola, la legge elettorale, la riforma costituzionale), ma al tempo stesso l’impressione è che tutte queste questioni, più che come problemi da risolvere pragmaticamente (e su cui far valere la propria credibilità apartisan), siano state presentate come vere e proprie rese dei conti, con l’idea spesso di ri-attizzare vecchie divisioni (o in qualche caso di inventarle, come quella tra “veri” e “falsi” partigiani), ipotizzando che questa capacità di sconfiggere e ridicolizzare gli avversari fosse destinata a produrre dividendi elettorali.
Già le elezioni regionali del 2015, disputate in questa nuova fase, avevano mostrato che questa strategia posizionale aveva senza dubbio prodotto una smobilitazione tra gli elettori più di sinistra (come tutto sommato atteso), ma tuttavia senza sfondare nel centrodestra. Gli apporti di elettori moderati erano stati minimi, e non avevano compensato le perdite a sinistra. E qui siamo all’oggi, perché queste parole si rivedono perfettamente nelle matrici di flusso di oggi, sia nelle città vinte che in quelle perse dal Pd. E lo si vede anche nel fatto che il centrodestra – dato ripetutamente per scomparso con il tramonto della leadership di Berlusconi – è in realtà vivo e vegeto. E qui si osserva il primo limite della strategia posizionale: l’idea – collocandosi più al centro – di rendere marginale il centrodestra, rendendo al tempo stesso non necessaria la sinistra radicale. Ebbene, questa idea sembra ormai scontrarsi sistematicamente con il problema dei voti di centrodestra che non arrivano, se non in misura marginale e non sufficiente a compensare quelli persi a sinistra. Si tratta di un dato che si era visto già alle regionali dell’anno scorso: la scarsa disponibilità dell’elettorato di centrodestra a votare per Renzi, nonostante le sue politiche (dalla riforma della scuola, al Jobs Act, all’abolizione della Tasi per tutte le prime case) abbiano mostrato abbondanti segnali di attenzione verso questo elettorato.
Ma c’è un secondo limite di questa strategia posizionale: è dovuto al fatto che – ovviamente – la semplificazione della politica su un asse sinistra-destra sarà utile sul piano analitico, ma non esprime completamente la struttura attuale della competizione tra partiti. E lo si vede chiaramente dal successo trasversale del M5s. Un successo che per molti aspetti deriva dai problemi di Renzi. In parte, la strategia posizionale di Renzi (non solo in termini comunicativi, ma di misure prese) ha scontentato molti a sinistra, che a questo giro hanno premiato il M5S. In parte, non si può non notare che in alcuni ambiti la credibilità di Renzi sugli obiettivi trasversali è scesa molto. Emblematico il caso del rinnovamento della politica: su questo tema Renzi nel 2014 insidiava da vicino il M5s come partito più credibile; oggi i dati delle indagini CISE ci dicono che c’è una distanza abissale. Evidentemente l’opinione pubblica percepisce che alla rottamazione di un ceto politico non è corrisposta una rottamazione delle pratiche concrete della politica. In questo senso va sottolineato che il punto di forza del M5S è nell’aver mantenuto una forte connotazione su alcuni temi specifici, evitando attentamente le questioni ideologicamente più controverse. Di qui la sua capacità di ottenere voti in modo trasversale. Infine, va sottolineata la capacità del M5S di catturare voti a sinistra (a confronto con la perdurante marginalità della sinistra radicale). In questo senso probabilmente a fare premio è la sua capacità di innovazione trasversale (il M5S combina in modo originale temi classici della sinistra con temi trasversali e altri temi addirittura conservatori), ma soprattutto la sua forza elettorale data ormai per acquisita, e che lo fa ormai considerare come un concorrente naturale per i ballottaggi e per la vittoria finale. Questo senza dubbio dà la sensazione di un voto non sprecato, diversamente da quello alla sinistra radicale (tranne quei rari casi in cui quest’ultima è competitiva). Un problema simile a quello che spesso affligge il centrodestra: competitivo quando è unito, ma marginalizzato quando si presenta diviso.
E veniamo quindi alle conclusioni, in termini di aspetti da monitorare nei prossimi mesi. Il primo è senza dubbio come evolverà la strategia di Renzi, e come verrà risolto il dilemma tra strategia posizionale e ecumenica. Se Renzi insisterà in una strategia posizionale, in cui conflitti e divisioni vengono addirittura alimentati, o se invece cercherà di recuperare l’approccio usato in passato, magari puntando a recuperare credibilità proprio sul tema del rinnovamento della politica, su cui oggi è in posizione più debole rispetto al passato, e forse dedicandosi con maggiore attenzione alla propria base di centrosinistra. Il secondo è relativo al M5S. Il M5S per motivi strutturali deve utilizzare una strategia ecumenica; tuttavia sconta ancora un deficit di credibilità, ad esempio sui temi economici. E’ probabile che la stessa amministrazione di grandi città potrebbe avere un effetto su quest’ultima. Infine rimane ovviamente la grande incognita, cioè le strategie del centrodestra. Il risultato ci mostra che il centrodestra è vivo e vegeto, ma l’impressione è che non possa recuperare la centralità del passato con una leadership radicale. Il problema è che la ricostruzione di un profilo moderato e trasversale del centrodestra richiede la soluzione della questione della leadership, che per adesso appare di là da venire in tempi rapidi.