Il prossimo 9 aprile Israele tornerà al voto dopo quattro anni per eleggere il proprio Parlamento nazionale, la Knesset. Si tratta di un parlamento monocamerale composto da 120 membri eletti, in una circoscrizione unica nazionale, con un sistema proporzionale leggermente corretto da una soglia di sbarramento del 3,25%.
Va quindi concludendosi la terza legislatura consecutiva caratterizzata dal susseguirsi di Governi di centrodestra, sostenuti da una maggioranza costruita attorno al Likud, il principale partito conservatore, e dal suo leader, Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, ormai ininterrottamente al potere dal 2009 (ma anche, si ricorda, dal 1996-1999), si staglia come la figura forte del sistema politico israeliano, quella attorno alle cui vicende vanno costruiti gli scenari.
Nonostante una serie di problemi giudiziari che lo hanno coinvolto e che rischiano di portarlo a processo proprio nei prossimi mesi, la figura del Primo ministro è ancora fortissima nel paese, alla luce dei propri indubbi successi. Sul fronte economico, il Paese vive uno slancio ben diverso dalla stagnazione cui siamo abituati in Europa: il PIL cresce del 4% l’anno, è trainato da un settore high-tech davvero rampante (Israele è il paese con il maggior numero di start-up per abitante), ed il tasso di disoccupazione complessivo giunge a malapena al 4%. Sul fronte della sicurezza e della politica estera poi, temi che in questo piccolo paese mediorientale rappresentano sempre il primo punto dell’agenda politica, il Governo è riuscito a garantire ai propri cittadini un quinquennio di relativa calma, dopo il conflitto del 2014 a Gaza, dando l’impressione di riuscire a tenere sotto controllo Hamas, anche grazie alla preziosa mediazione operata dal nuovo regime egiziano. Il cambio alla guida dell’amministrazione USA ha poi ridato slancio alle velleità esterne di Netanyahu, che dopo gli otto anni di freddezza (quando non di aperto scontro) registrati con Obama, è riuscito ad ottenere dall’amministrazione Trump due grandi risultati: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme (riconosciuta dagli USA come capitale dello Stato ebraico, diversamente dalla maggioranza della comunità internazionale) e il recentissimo riconoscimento da parte americana della sovranità israeliana sulle alture del Golan, territorio formalmente siriano ma occupato da Israele sin dal 1967.
Sul fronte interno, è evidente come negli ultimi anni il baricentro politico del paese si sia progressivamente spostato verso destra. Molto scalpore ha destato, ad esempio, la legge sulla nazionalità, approvata dalla maggioranza uscente in via definitiva nel luglio del 2018, e considerata dalla minoranza araba come una legge apertamente razzista. Tuttavia, la destra israeliana è e rimane un fronte altamente variegato e composito: il Governo di Netanyahu è sostenuto in primo luogo dal suo partito, il Likud, il partito conservatore, nato nel 1973 come fusione delle destre moderate pre-esistenti, e poi varie volte al governo del paese nei decenni successivi. Il partito è stato letteralmente resuscitato da Netanyahu nel 2009 dopo il tracollo di tre anni prima dovuto alla scissione della fazione moderata ideata dall’allora premier Sharon. Ma nonostante la propria rinnovata centralità, il Likud resta un partito che orbita attorno al 25% dei voti, ed in un sistema proporzionale ha bisogno di allearsi. Negli ultimi anni, Netanyahu ha contato sull’appoggio del partito centrista Kulanu, dei due partiti rappresentativi della popolazione ultra-ortodossa Giudaismo Unito nella Torah (che esprime la voce delle comunità ashkenazite) e Shas (che esprime la voce di quelle sefardite), della destra di ispirazione religiosa de La Casa Ebraica (guidata da Naftali Bennett), e della destra laica di Yisrael Beiteinu (di Avigdor Lieberman), essenzialmente portavoce della popolazione russofona. Questa frammentazione costituisce assieme la debolezza e la forza di Netanyahu che, da una parte, è costretto da numeri spesso risicati a mediare tra tutti questi soggetti, dall’altra è l’unico leader possibile, l’unico collante di questo variegato fronte e rappresenta, per ciascuno dei suoi alleati, l’unica possibile alleanza, l’unica via di accesso al Governo del paese.
Fig. 1 – Le forze politiche rappresentate nella Knesset uscente (clicca per ingrandire)
Anche questa volta, nonostante le difficoltà giudiziarie e la riottosità di taluni alleati (Yisrael Beiteinu ha lasciato la maggioranza pochi mesi prima del voto), Netanyahu e lo schieramento che lo sostiene sembrano in grado di replicare i successi degli scorsi anni. L’unico rischio è che la frammentazione crescente (La Casa ebraica si è recentemente scissa in due partiti distinti e sembra farsi largo nei sondaggi anche un partito di destra libertario, Zehut) porti qualcuno degli alleati del Likud a scendere sotto la soglia di sbarramento del 3,25%, rendendo così più difficile il raggiungimento della maggioranza assoluta della Knesset, 61 seggi.
A Netanyahu si oppone il fronte delle sinistre, che però ha completamente cambiato faccia rispetto al passato. A conferma di quanto lo spettro politico israeliano si stia spostando verso destra, la formazione che rappresenta il centrosinistra storico israeliano (l’erede del sionismo delle origini, che ha governato il paese per un trentennio, dal 1948 al 1977), il partito Laburista, dopo la fine dell’esperienza della lista unita con i centristi eredi di Kadima, è ridotto oggi sotto il 10% dei voti, e si configura ormai come partner secondario del vero oppositore del Primo Ministro uscente, la lista Blu e Bianco, una formazione dal posizionamento centrista, il cui disegno politico è essenzialmente quello di contendere a Netanyahu lo spazio moderato. Tale lista è formata dall’unione di Yesh Atid, partito liberale che aveva ottenuto 11 seggi nel 2015 e Vigore di Israele, un partito recentemente formato dall’ex capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, Benny Gantz.
Blu e Bianco, presentatosi come lista unica proprio allo scadere dei termini, ha riscosso un certo successo nei sondaggi e potrebbe ritrovarsi primo partito, ma non sembra avere i numeri per contendere a Netanyahu la formazione del Governo, essendo sostenuto solo dai laburisti e dalla sinistra socialista di Meretz. Non possono considerarsi come parte del suo schieramento i partiti arabi (stavolta si divideranno in due liste), che da tempo ormai immemore restano fuori dai perimetri delle possibili maggioranze. L’unica speranza, per Blu e Bianco, è che un possibile fallimento della coalizione di destra nell’intento di ottenere 61 seggi porti alla scomposizione delle alleanze pre-elettorali e allo spostamento verso sinistra di una parte dei partiti che attualmente sostengono Netanyahu. Ma si tratterebbe, comunque, di uno scenario tutto da costruire.
Vedremo come andrà. Quel che è certo è che la prossima Knesset sarà incredibilmente frammentata: le liste che potrebbero superare la soglia sono addirittura 14 (nel 2015 furono 10).