La geografia del voto in Emilia-Romagna: le aree inurbane non sono diventate di destra, lo erano già

La vittoria del centrosinistra alle elezioni in Emilia-Romagna è andata oltre le previsioni. Il 7.7% di scarto tra il neo-rieletto Stefano Bonaccini e la candidata della Lega Nord Lucia Borgonzoni è maggiore di quanto non dicessero i sondaggi precedenti le elezioni. Non solo, come è già stato segnalato in un altro articolo del CISE (Vittori 2020), se si tiene conto che il PD non era il primo partito in Emilia-Romagna da due anni e che la coalizione di centrodestra era prevalente sia alle elezioni politiche sia sommando i risultati delle Europee, si può capire l’importanza del risultato.

Nonostante l’Emilia-Romagna, con la Toscana, rappresenti la regione “rossa” per eccellenza (dal punto di vista elettorale) grazie a un dominio ininterrotto del PCI prima e dei suoi epigoni poi, il partito di riferimento del centrosinistra sino a poco tempo fa stava attraversando una crisi di consensi che non aveva risparmiato nemmeno questa regione. Nel 2018 era stato il MoVimento 5 Stelle il primo partito in regione, nel 2019 la Lega. Con queste elezioni il PD si riprende lo scettro di primo partito superando di 2.7 punti (34.7% a 32%) la Lega, che in ogni caso ottiene un risultato altrettanto rilevante.

Ma le dinamiche del voto quali sono state? Se da un lato è evidente, come è stato già segnalato, che vi sia una discrasia tra i “grandi” comuni in cui il PD e il centrosinistra hanno avuto performance lusinghiere e i piccoli centri, dove invece è stata la Lega e il centrodestra a prevalere, vi sono dinamiche che è bene scandagliare nel dettaglio. Dal raffronto tra le elezioni europee del 2019 e quelle regionali del 26 Gennaio emergono delle tendenze che danno conto di un andamento differente rispetto alla fotografia del voto scattata all’indomani delle elezioni (Tabella 1). In particolare, emerge come a livello regionale, il PD e il centrosinistra abbiano aumentato i propri voti di 4.3 e 12.8 punti percentuali rispetto alle europee. Un dato più ampio rispetto ai comuni capoluogo dove l’aumento è stato rispettivamente di 1.8 e 12.4 per cento. Al contrario la Lega ha ridotto il proprio bagaglio di voto sia nei comuni capoluogo (-2.4 punti) che nei comuni non capoluogo (-1.4) corrispondenti a un calo della coalizione di centrodestra di rispettivamente 1.1 e 0.9 punti.

Tab. 1 – Variazioni in punti percentuali e tassi di variazione tra le elezioni regionali del 2020 e le elezioni europee del 2019 per i principali partiti e le principali coalizioni. Dettaglio per provincia, comuni capoluogo e comuni non capoluogo

Certamente, stiamo parlando di aree – i comuni non capoluogo – dove la Lega aveva raggiunto il proprio massimo storico e su cui probabilmente il proprio bacino potenziale di votanti si stava esaurendo, rispetto al PD dove invece alle Europee il risultato in termini percentuali non era stato esaltante e il margine di ripresa era più ampio. Purtuttavia, questo rimane un dato interessante che segnala che se il voto urbano abbia chiaramente premiato il PD, questo partito e la coalizione di centrosinistra nella sua interezza sono riusciti a ri-mobilitare il proprio elettorato dove era meno forte la penetrazione territoriale dell’anno precedente.

Scorrendo i dati per provincia poi, si notano anche altri risultati interessanti: la “dotta” Bologna ha sì garantito al PD il 39.3% e alla coalizione il 64,8%; tuttavia rispetto alle Europee, nel comune il PD è arretrato di un punto (la colazione invece è cresciuta di ben 12.8 punti percentuali). Fuori dal comune il PD va meglio (più 4.6 punti), mentre la Lega va meno peggio (-2.4) rispetto al solo comune (-3.3). Anche nelle province a marca leghista, quali Piacenza e Ferrara, il PD e il centrosinistra riescono ad aumentare i propri voti in maniera rilevante. A Piacenza di 4.2 punti nel capoluogo (+10.3 per la coalizione di centrosinistra) e di 4.7 nei comuni non capoluogo (+9.8 per la coalizione): sorprende vedere (ma anche in questo caso con le cautele dovute al fatto che si tratta di un incremento percentuale il cui dato di partenza è modesto) come nei comuni non capoluogo di Piacenza, la coalizione sia cresciuta del 41.5% rispetto all’anno precedente (il PD del 30.9%). Un discorso simile vale anche per Ferrara, sebbene in questo caso la Lega nei comuni non capoluogo abbia aumentato i propri voti di 0.9 punti e la coalizione di centrodestra di 2.3. Anche a Rimini, dove il centrodestra è storicamente stato più forte che in altre province (già nel 2016 la Lega aveva il 12.4% ed era la prima forza del centrodestra) e dove i seggi uninominali alla Camera e al Senato erano andati al centrodestra, il PD e il centrosinistra registrano il maggior aumento rispetto a tutte le altre province. Sei punti nel comune capoluogo e 5.9 nei comuni non capoluogo per il partito e +14.4 e +14.2 per la coalizione, corrispondenti a un +41.9 nel comune capoluogo e a un +46.7 nei comuni non capoluogo.

Dovendo quindi trarre un primo bilancio sulla perifericità del voto si potrebbe concludere che in realtà la frattura tra le periferie (a destra) e il centro (a sinistra) non è affatto nuova nel panorama emiliano-romagnolo. Più che sorprendersi ora, si sarebbe dovuti rimanere impressionati alle passate elezioni, dove questo trend era già presente. Certo non è la situazione di cinque o dieci anni orsono; né tuttavia vi sono stati stravolgimenti così acuti rispetto al 2019. Tuttavia, se qualcosa è cambiato in questa elezione è cambiato a favore del PD e del centrosinistra anche nella “periferia” dove la Lega e il centrodestra rimangono comunque molto forti, a dispetto del calo subito.