Nelle ultime settimane, il dibattito nei media ha dato grande attenzione al tema del terzo mandato per i presidenti di Regione. Una questione apparentemente personalistica, legata alle figure di Zaia in Veneto e De Luca in Campania, ma la cui delicatezza viene da altro, in particolare nel centrodestra. La discussione sul terzo mandato nasconde infatti la battaglia per il Nord, e per il consolidamento (non solo in termini elettorali, ma anche di classe dirigente amministrativa) della leadership di Fratelli d’Italia sulla coalizione.
Oltre i personalismi
A Giorgia Meloni serve il Nord. È lì che ha fatto l’exploit alle elezioni politiche del 2022, sfondando il 30% in alcune Regioni. Ed è oggi quello il campo di battaglia per consolidare la sua leadership nel centrodestra. Silvio Berlusconi non aveva bisogno di tutto questo; le sue enormi risorse economiche e mediatiche, che metteva a disposizione degli alleati, lo hanno mantenuto a lungo il naturale e incontrastato baricentro del centrodestra. Ma dopo il Cavaliere, ogni cambiamento alla guida della coalizione ha creato tensioni, e non sempre a causa di litigi e personalismi. In politica infatti la maggior parte degli scontri sono spesso innescati da questioni strutturali, come ad esempio i rapporti di forza sul territorio. Lo testimonia il dibattito in corso sul terzo mandato ai presidenti di Regione. La Lega, che si batte perché venga introdotto, ha già presentato due volte un emendamento: la prima, lo scorso 22 febbraio, in Commissione affari costituzionali; la seconda, il 13 marzo, in Aula. Esito: bocciato in entrambe, e maggioranza spaccata con i voti contrari di Fratelli d’Italia e Forza Italia. La questione va ben oltre alle ricandidature dei presidenti di Regione leghisti. La vera partita di Meloni si gioca nella conquista di questi territori, nessuno dei quali ancora governato da un esponente di Fratelli d’Italia. Una sfida, solo in apparenza locale, diventa così di stampo nazionale. Questo perché non è proponibile che un partito come Fratelli d’Italia, che vuole essere il baricentro del centrodestra, non governi nessuna regione del Nord, il cuore economico del Paese.
Rapporti di forza datati
Come visibile nella mappa qui sopra riportata, Fratelli d’Italia conta su 3 governatori, meno di Lega e Forza Italia, che alle ultime politiche hanno preso un terzo dei suoi voti. Spicca l’assenza di presidenti di Regione di Fdi al di sopra delle Marche. In quest’area è la Lega di Salvini ad avere in mano Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia e la Provincia Autonoma di Trento. Forza Italia ha il Piemonte. Persino Noi moderati, un partito accreditato dai sondaggi intorno all’1% , guida la Liguria con Giovanni Toti. Sono rapporti di forza ormai datati, che Fratelli d’Italia vuole sovvertire. La competizione diretta, inevitabilmente, è con la Lega. Forza Italia, infatti, è sempre più radicata al Sud, dove veleggia su doppie cifre. Meloni deve quindi valicare il Po, specie nelle roccaforti leghiste di Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Anche perché, per certi versi, gli elettori hanno già anticipato un possibile cambio di orientamento all’interno del centrodestra: qui – rispetto alle politiche del 2018 – Fdi ha aumentato di sette volte il proprio consenso, mentre la Lega l’ha più che dimezzato.
Da verde a blu: la mappa che cambia
Nelle tre regioni sopracitate, Fratelli d’Italia alle politiche è diventato il primo partito nel 96% dei Comuni, ovvero 2.357 su 2.450. Lo ha fatto sostituendo nella stragrande maggioranza dei casi (2.107) proprio la Lega, su cui ha annullato e ribaltato a proprio favore il distacco patito nel 2018, con un cambiamento medio di 48 punti di distacco in ciascun comune. In un piccolo paese del vicentino, Foza, c’è stata l’inversione di voti più clamorosa: un divario di quasi 80 punti tra i due partiti nelle due elezioni. Significa che Fdi è salita dal 4 al 47% mentre la Lega è scesa dal 61 al 24,5%. L’unico Comune dove il partito di Meloni era già in precedenza il più votato è Calalzo di Cadore, in provincia di Belluno, guidato dal sindaco e senatore Luca De Carlo di Fdi, lanciato non a caso tra i papabili eredi di Zaia.
Nel Nord pare quindi stia avvenendo un fenomeno di sostituzione, quello che la scienza politica chiama secular realignment (Key 1959). Si ripeterebbe qualcosa già successo all’inizio degli anni Novanta, quando l’allora zona bianca – pluridecennale feudo democristiano con epicentro il Veneto (Galli 1968, Corbetta et al. 1988) – si trasformò in quella che Ilvo Diamanti avrebbe chiamato zona verde (Diamanti 2003), sotto i colpi della giovane Lega di Umberto Bossi. Un partito che era stato capace di egemonizzare politicamente quell’area caratterizzata da un solido strato valoriale cattolico di tradizione secolare, e che oggi vede in crisi il proprio rapporto con la Lega. Fratelli d’Italia si candida quindi a provare a ereditare questo ruolo egemonico? Potrebbe essere uno scenario non peregrino, leggibile anche alla luce delle posizioni moralmente conservatrici (ma tutto sommato moderate) espresse da Meloni negli ultimi anni. È quindi un possibile scenario; anche se va ricordato che i risultati elettorali degli ultimi anni hanno registrato tassi di volatilità record: sempre più elettori cambiano scelta tra un’elezione e l’altra.
Il cambiamento dei rapporti di forza tra alleati è visibile anche alle elezioni regionali del 2023. In queste tornate, Fratelli d’Italia si è confermato primo partito in Lombardia, ed è stato a un passo dal diventarlo anche in Friuli-Venezia Giulia: se non consideriamo la lista del Presidente Fedriga, il partito di Meloni e la Lega hanno ottenuto percentuali di voto simili, il 18% il primo e il 19% il secondo. Tuttavia il Carroccio, anche al netto dei consensi ottenuti dalle liste dei Presidenti, ha accresciuto la propria percentuale di voti rispetto alle politiche del 2022, a dimostrazione di come, nelle sue roccaforti, vanti tuttora una classe dirigente forte e radicata.
Dove sono le roccaforti
Ma la geografia non va analizzata solo in termini regionali: è infatti molto rilevante anche la dimensione centro-periferia (Lipset e Rokkan 1967) all’interno della regione. Un criterio per mostrarne la rilevanza è quello della dimensione demografica dei comuni. E sia Lega che FdI raggiungono risultati migliori nei Comuni con meno abitanti e quindi (quasi sempre) più periferici, in particolare quelli al di sotto dei 5.000. Quando cresce la popolazione, succede il contrario: arretrano, specie nelle città con oltre 100.000 abitanti, dove scendono addirittura di 10 punti rispetto ai micro Comuni. Per la Lega è un dato in linea con il passato, ma per il partito di Meloni è una novità assoluta, pensando alla tradizione elettorale della destra, storicamente caratterizzata da maggiori successi nelle città, soprattutto al Sud. Un dato già chiaro per il Movimento Sociale Italiano, e che portò alle politiche del 1996 Alleanza Nazionale a diventare primo partito in tante grandi città del Sud. Oggi è esattamente l’opposto. E il quadro diventa ancora più chiaro quando misuriamo la perifericità del comune in modo ancora più preciso, misurando per ogni comune non solo la popolazione, ma la distanza geografica dai centri erogatori di servizi. Con “centri” intendiamo le 34 città italiane – non per forza capoluoghi di provincia – che hanno un ateneo universitario, un ospedale con Dea di secondo livello (Dipartimento emergenza e accettazione) e un aeroporto o una stazione dell’alta velocità. È una definizione coniata e sviluppata nel Capitolo VI di “Un polo solo”, il volume edito dal Mulino – pubblicato poche settimane fa – con le analisi del CISE sulle ultime elezioni politiche. Lo studio dimostra come chi vive in un determinato luogo, a parità di ogni altra condizione, abbia una più alta probabilità di votare in un certo modo. Il territorio, da solo, riesce quindi a spiegare le scelte elettorali. Il contesto ideale per il centrodestra, dunque, è in questi piccoli comuni marginali del Nord, caratterizzati da livelli di istruzione e reddito inferiori alla media e da una consistente presenza di extracomunitari.
Le scelte degli elettori
Un possibile processo di secular realignment, ancora, è visibile in dettaglio nei flussi di voto tra le politiche del 2018 e del 2022. Più della metà di chi prima aveva votato Lega, ha poi scelto Fdi. Il partito di Salvini ha riconfermato solo 1 elettore su 3. Qualcosa di diverso è avvenuto in Forza Italia: meno del 30% dei suoi elettori del 2018 ha votato Meloni nel 2022. Una percentuale appena maggiore, però, si è astenuta, preferendo quindi non ricollocarsi tra gli altri due partiti della coalizione.
Un ultimo dato che vogliamo condividere riguarda la sovrapposizione degli elettorati dei partiti nelle tre Regioni del Nord. I dati provengono da un’indagine campionaria condotta da Itanes alla vigilia delle elezioni del 2022. La figura in basso mostra la sovrapposizione dell’elettorato potenziale dei maggiori partiti attraverso i diagrammi di Eulero-Venn. Dal diagramma si coglie molto bene la differenza tra centrodestra e centrosinistra. A destra la competizione risulta particolarmente serrata. Gli elettori di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia si sovrappongono largamente e sono in buona parte disposti a trasferirsi dall’uno all’altro. A sinistra, almeno in questa zona del Paese, non è così. Fratelli d’Italia sembra in grado di interessare un bacino di elettori più ampio rispetto agli altri partiti della coalizione: 21%, contro il 15 e il 10% di Lega e Forza Italia. Tuttavia, alle elezioni politiche del 2022 il partito di Meloni aveva già raggiunto il 20% dell’elettorato (contro il 9% della Lega e il 5% di Forza Italia). Risulta più ridotta, pertanto, la possibilità per Fratelli d’Italia di un’ulteriore significativa espansione.
I numeri a fianco dell’immagine ci aiutano anche a comprendere in che misura gli elettorati dei partiti di centrodestra si sovrappongono: Fratelli d’Italia può contare su un bacino esclusivo, vale a dire uno zoccolo duro di elettori che difficilmente voteranno per altri, pari a circa un terzo del proprio peso. Molti meno sono invece gli elettori esclusivi del partito di Salvini (neppure un quinto del totale) e quelli del partito guidato da Tajani (circa un elettore su dieci).
Europee: cosa conviene a Meloni?
In conclusione, quindi, dietro la battaglia per il terzo mandato c’è la necessità per Fratelli d’Italia di dare una risposta alla domanda di rappresentanza che viene dal Nord. Risposta che deve arrivare con proprie candidature di peso e successo, capaci di aprire la strada al consolidamento di una classe dirigente amministrativa anche in quelle Regioni: condizione indispensabile perché Fdi possa stabilizzare in modo inequivocabile la propria leadership nel centrodestra (non potendo contare, lo ricordiamo, sulle risorse un tempo a disposizione di Berlusconi). Già, ma nel frattempo ci sono le elezioni europee. E quale risultato potrebbe aiutare questo disegno di Fratelli d’Italia? A conti fatti, forse a Meloni farebbe comodo una Lega che regga nel suo complesso, capace di raggiungere un risultato simile alle politiche (8,8%), superiore a Forza Italia e con un voto territoriale che non accusi enormi perdite al Nord. Salvini, che pure ha fissato l’obiettivo minimo al 10%, resisterebbe così alla guida di una Lega cui ha dato una strategia di partito di destra radicale “nazionale”, che per certi versi prende atto di una rinuncia al ruolo di “partito del Nord”. E con Meloni capace di occupare il centro politico della coalizione, una condizione ideale per governare. Diverso sarebbe invece l’impatto di una rovinosa sconfitta leghista: se il partito di via Bellerio peggiorasse il risultato delle politiche, subendo al contempo il sorpasso di Forza Italia, la segreteria di Salvini rischierebbe di arrivare al capolinea. A quel punto, potrebbe tornare in voga l’idea del partito del Nord, guidato magari da Zaia o Fedriga. Per Meloni sarebbe un problema, perché chi governa oggi quelle Regioni si rafforzerebbe per non cedere il passo a Fdi. Coincidenze, e sorprese, della politica: Meloni e Salvini – alleati, eppure tra loro in perenne competizione – sperano, in fondo, la stessa cosa.
Riferimenti bibliografici
Corbetta, P., Parisi A., Schadee, H. (1998), Elezioni in Italia. Struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.
Diamanti, I. (2003), Bianco, rosso, verde… e azzurro. Mape e colori dell’Italia politica, Bologna, Il Mulino.
Diamanti, I. e Riccamboni, G. (1992), La parabola del voto bianco, Venezia, Neri Pozza.
Emanuele, V. (2011), Riscoprire il territorio: dimensione demografica dei comuni e comportamento elettorale in Italia, in «Meridiana», n. 70 pp. 115-148.
Galli, G. (1968), Il comportamento elettorale in Italia, Bologna, Il Mulino.
Lipset, S.M. e Rokkan, S. (1967), Clevages structures, party systems and voter alignments: An Introduction, in Lipset, S.M. e Rokkan, S. (a cura di), Party systems and voter alignments: cross-national perspectives. New York, The Free Press
Key, V. O. Jr. (1959), Secular Realignment and the Party System, The Journal of Politics. Vol. 21, No. 2 (May, 1959), pp. 198-210