di Vincenzo Emanuele e Nicola Maggini
Tra circa due mesi (precisamente tra il 22 e il 25 maggio a seconda del paese[1]) 390 milioni di elettori appartenenti ai 28 paesi membri dell’Unione Europea saranno chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Tradizionalmente considerate “second order elections” (Reif e Schmitt 1980) rispetto alle più importanti elezioni politiche nazionali, le elezioni europee 2014 sembrano potere acquisire una centralità e una rilevanza molto più ampia che in passato. Ciò non soltanto in virtù della crescente importanza del Parlamento Europeo e della sua funzione legislativa all’interno dell’Unione, ma soprattutto come conseguenza della crisi economica e dei debiti sovrani che ha investito l’Europa a partire dal 2008 e che ha fatto emergere l’Unione Europea quale principale centro decisionale in materia di politica economica degli stati membri.
Le prossime potrebbero quindi essere considerate le “prime” vere elezioni europee, intese come elezioni nelle quali la campagna elettorale nei singoli stati membri non è più legata alle vicende della politica domestica ma agli indirizzi di politica europea che gli attori nazionali propongono. A spingere verso una progressiva europeizzazione della campagna elettorale contribuisce anche la riforma introdotta con il Trattato di Lisbona (entrato in vigore nel dicembre del 2009) che per la prima volta prevede che il Presidente della Commissione sia di fatto eletto dal Parlamento Europeo con il Consiglio Europeo che mantiene soltanto un ruolo di controllo. In pratica si rafforza il legame tra il voto popolare e l’elezione della massima carica monocratica dell’UE (nonché capo del suo organo esecutivo) che non sarà più scelta da contrattazioni fra gli stati membri ma sarà espressione del voto alle elezioni europee.
Nelle scorse settimane i principali gruppi politici all’interno del Parlamento Europeo (PE) hanno designato i propri candidati alla Presidenza della Commissione. Il gruppo europeo che otterrà la maggioranza relativa dei seggi nel PE vedrà eletto il proprio candidato alla Presidenza della Commissione, introducendo dunque una dinamica di competizione sempre più vicina a quella presente nelle democrazie parlamentari competitive. I due principali candidati sono il lussemburghese Jean-Claude Juncker per il Partito Popolare Europeo (PPE) e il tedesco Martin Schulz per il Partito Socialista Europeo (PSE). Vi sono poi il belga Verhofstadt per il gruppo dei liberali, il greco Tsipras, leader di Syriza, per la sinistra europea e il ticket Keller-Bovè per i Verdi. Il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), del quale fanno parte i Conservatori inglesi, non presenterà alcun candidato alla Presidenza della Commissione. Una scelta condivisa anche dal gruppo dei partiti anti-europeisti (Europe of Freedom and Democracy), capeggiato dal Front National di Marine Le Pen e rappresentato in Italia dalla Lega Nord e da Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale.
Oltre a scegliere indirettamente il Presidente della Commissione, gli elettori europei voteranno per eleggere i membri del PE che a partire da queste elezioni saliranno a 751 (da 736) per effetto dell’ingresso del ventottesimo stato membro, la Croazia, entrata nell’Unione del luglio del 2013. La Tabella 1 presenta un riepilogo delle variazioni – in termini di seggi spettanti a ciascuno stato – intervenute rispetto al 2009. Come si può vedere, mentre la Germania perde tre seggi, scendendo a 96, l’Italia ne guadagna 1 salendo a 73 membri, così come il Regno Unito; la Francia e la Svezia crescono di due seggi e la Spagna addirittura di 4, mentre la Croazia avrà diritto ad 11 seggi. E’ interessante notare che nel Parlamento Europeo i due principi basilari della rappresentanza che informano tutti i Parlamenti delle nazioni democratiche, ossia la rappresentanza dei popoli (di solito concernente la Camera Bassa) e quella dei territori (di solito riguardante la Camera Alta) sono entrambi presenti e si controbilanciano. I membri spettanti a ciascun paese cercano infatti di rispettare la proporzione esistente fra popolazione residente dello stato e dell’UE. Eppure, se questo principio fosse applicato integralmente, alcuni piccoli paesi, come Malta, Lussemburgo, Cipro o Estonia avrebbero pochissimi rappresentanti. Per salvaguardare la rappresentanza dei territori (gli stati membri), dunque, il Trattato stabilisce che nessun paese può avere meno di 6 deputati. Così, mentre la Germania ha diritto a un eurodeputato ogni 860.000 abitanti circa, Malta ne elegge uno ogni 69.000.
Tab. 1 Distribuzione dei seggi nel PE e cambiamenti intervenuti tra il 2009 e il 2014.
Il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento Europeo varia da stato a stato, ma con il Trattato di Amsterdam si è stabilito che gli stati membri sono tenuti ad utilizzare il sistema proporzionale e ad applicare soglie di sbarramento non più alte del 5%.
Per gli elettori di paesi storicamente maggioritari, come la Francia e il Regno Unito, la possibilità di votare con il sistema proporzionale costituisce un cambiamento rilevante che generalmente si traduce nella sotto-rappresentazione dei principali partiti a vantaggio di opzioni politiche minoritarie e generalmente marginali nel sistema politico nazionale. In misura simile, comunque, anche negli altri paesi la dinamica di competizione “second order” (ossia la minore importanza della posta in palio) tipica delle elezioni europee porta con sé alcune tendenze che si ripetono nel tempo: una diminuzione della partecipazione al voto rispetto alle elezioni politiche nazionali, una perdita di consenso dei partiti di governo e la crescita elettorale dei piccoli partiti. Più in generale, una dinamica di competizione più frammentata e un voto meno vincolato a considerazioni strategiche rispetto a quanto avviene nelle arene domestiche.
Nonostante la maggiore tendenza ad esprimere un voto verso partiti minori e a danno dei partiti di governo, le grandi famiglie politiche europee dei popolari e dei socialisti sono sempre state le forze largamente maggioritarie all’interno del PE e alle elezioni del 2009 hanno ottenuto oltre il 60% dei seggi se considerate congiuntamente. Come vediamo nella Tabella 2, il Parlamento uscente presenta una maggioranza relativa del PPE (36%) con un PSE relegato appena al 25% dei seggi, la quota più bassa di sempre. Quella del 2009 è stata la terza vittoria elettorale consecutiva per il PPE che ormai dal 1999 sopravanza il PSE grazie ad una più efficace politica di integrazione tra le sue fila di partiti estranei alla tradizione ideologica originaria del gruppo (formato inizialmente solo da partiti di orientamento cristiano-sociale e cristiano-democratico e poi allargatosi fino ad includere quasi tutti i maggiori partiti che nei rispettivi paesi occupano il polo conservatore del continuum sinistra-destra). Inoltre, con il massiccio allargamento ad Est avvenuto nel 2004 il vantaggio del PPE sul PSE è divenuto ancora più solido per via del debole insediamento della tradizione socialista nei paesi dell’Europa Centrale e Orientale, mentre il PPE ha potuto contare sull’apporto dei forti partiti conservatori di quei paesi.
Tabella 2 Composizione del PE dopo le elezioni del 2009
Lontani dalla competizione per il primato nel PE troviamo il terzo gruppo storico, quello dei liberali (ALDE) che nel 2009 ha raccolto circa l’11% dei seggi, sopravanzando i Verdi (7,5%) e il nuovo gruppo dei Conservatori e Riformisti (7,3%) formatosi proprio nel 2009 su iniziativa del Conservatori inglesi che sono usciti dal PPE per via del loro crescente euroscetticismo. Troviamo poi le due formazioni più estreme, il gruppo della sinistra radicale e quello della destra anti-europeista e anti-euro, che nel 2009 erano confinati sotto il 5% dei seggi ma che in queste elezioni, spinti dalla crisi economica e dalla forte leadership di personaggi come Tsipras e Marine Le Pen, potrebbero ottenere un grande successo, sebbene il primato dei partiti europeisti (PPE, PSE e ALDE) non appaia sfidabile. Infine nel 2009 sono stati eletti anche 27 membri che non hanno preso parte a nessun gruppo[2], un fenomeno in costante diminuzione vista la crescente “istituzionalizzazione del sistema partitico europeo” (Bardi 2002).
[1] In particolare, Regno Unito e Paesi Bassi si recheranno alle urne il 22 maggio, l’Irlanda il 23, Cipro, Lettonia, Malta, Slovacchia e Repubblica Ceca il 24 maggio. Il 25 maggio andranno al voto tutti gli altri paesi.
[2] Ricordiamo che per costituire un gruppo nel PE sono necessari 25 deputati appartenenti ad almeno 7 stati membri.