Autore: Nicola Maggini

  • Regionali Sardegna: l’astensione è il primo partito, Pigliaru porta alla vittoria il centrosinistra

    Regionali Sardegna: l’astensione è il primo partito, Pigliaru porta alla vittoria il centrosinistra

    di Nicola Maggini

     

    Il primo dato che emerge dalle elezioni regionali in Sardegna che si sono appena concluse è quello sull’affluenza: ha votato il 52,2% degli aventi diritto, oltre 15 punti in meno rispetto alle regionali del 2009. Quasi un sardo su due è rimasto a casa. E se il termine di confronto sono le regionali del 2004, il calo è di ben 19 punti percentuali. Come vediamo nella Figura 1, mettendo a confronto i dati delle ultime 5 elezioni regionali, emerge un dato lampante: dal 1994 l’affluenza in Sardegna è diminuita di circa 22 punti. Ma tra il 1994 e il 2009 l’andamento era stato fluttuante, con una diminuzione tra il 1994 e il 1999, un aumento nel 2004 per tornare infine nel 2009 ai livelli di 10 anni prima. La crisi di partecipazione, che si era già manifestata in precedenza, negli ultimi tempi è quindi divenuta un vero e proprio crollo. Alle regionali sarde pertanto il primo partito è quello dell’astensione. Del resto il distacco dalla politica e il rifugio nell’astensione è ormai il dato costante della politica italiana negli anni della crisi. E’ quanto accaduto anche nella elezioni regionali in Basilicata nel novembre 2013, in Sicilia alle regionali del 2012 e nel resto del paese alle ultime amministrative. Gli scandali dei rimborsi elettorali illeciti che hanno travolto il Consiglio regionale sardo e i principali partiti, i problemi economico-sociali comuni al resto dell’Italia, con l’aggiunta di quelli caratteristici della “periferia”, che si presentano oggi in tutta la loro drammaticità in Sardegna (si pensi ad esempio all’aumento della disoccupazione, in primis quella giovanile, e al calo delle presenze turistiche sull’isola anche a causa del “caro” traghetti), sono tutti elementi che hanno contribuito a questo aumento considerevole delle astensioni. Senza dimenticare, ovviamente, un fattore tutto politico: la mancata presentazione della lista del Movimento 5 Stelle alle elezioni regionali sarde a causa di dissidi interni al movimento (e con il leader Grillo). Certamente è plausibile ipotizzare che una buona fetta degli elettori del M5S, non potendo votare per la loro lista di riferimento, siano rimasti a casa.

    Fig. 1 Affluenza alle elezioni regionali in Sardegna, 1994-2014.

     

    L’esigua maggioranza dei sardi che si è recata alle urne doveva scegliere tra 6 candidati Presidente e 27 liste. La Sardegna può essere considerata come una regione contendibile ed elettoralmente competitiva: se il Presidente di regione uscente, Ugo Cappellacci, era a capo di una coalizione di centrodestra, in precedenza aveva governato il centrosinistra con Renato Soru (2004-2009) e prima ancora il centrodestra (1999-2004). Questa alternanza al governo della regione si è rispecchiata anche nelle elezioni politiche degli ultimi anni, quando nell’isola si sono affermate coalizioni dal diverso colore politico nel corso del tempo. L’esito di queste elezioni pertanto non era scontato e la competizione senza dubbio era aperta.

    Nel voto di domenica 16 febbraio 2014, la coalizione di centrodestra guidata dall’incumbent Ugo Cappellacci ha risentito in particolar modo del clima di sfiducia generalizzato e non ha confermato la vittoria di 5 anni prima. Se infatti nel 2009 Cappellacci aveva ottenuto il 51,9%, in queste elezioni si è fermato al 39,7%, ossia circa 12 punti percentuali in meno. In valori assoluti le perdite sono state di circa 165mila voti. Lo sfidante del Pd, Francesco Pigliaru, ha vinto le elezioni divenendo presidente con il 42,5% dei consensi, ossia una percentuale quasi uguale a quella del 2009 (quando Renato Soru si fermò al 42,9%). In termini assoluti in realtà c’è stata una flessione di circa 65mila voti. La supremazia del centrosinistra sul centrodestra conferma il dato emerso alle elezioni politiche del febbraio 2013, quando la coalizione di Bersani in Sardegna alla Camera aveva ottenuto il 29,5% contro il 23,7% raccolto dalla coalizione di centrodestra di Berlusconi. Alle politiche, però, la prima forza politica era stata il M5S con il 29,7% e la sua assenza alle regionali, come abbiamo visto, rendeva ancora più incerto l’esito di queste consultazioni. Inoltre la coalizione di Pigliaru ha dovuto affrontare la concorrenza della scrittrice Michela Murgia, candidata di Sardegna Possibile, che “pescava” in un bacino elettorale simile a quello del centrosinistra, ma si è fermata al 10,3% dei consensi (vedi Tabella 1).

    Tab. 1 La competizione maggioritaria, valori assoluti e percentuali.

    Pigliaru ha dunque conquistato la regione con una percentuale di voti analoga a quella ottenuta da Soru nel 2009, quando l’allora Presidente del centrosinistra fu sconfitto proprio da Ugo Cappellacci. Se in termini relativi la sinistra dunque conferma i risultati del 2009 (e in termini assoluti registra una flessione), queste elezioni sono state vinte a causa del crollo nei consensi del Presidente uscente Ugo Cappellacci. I voti espressi al candidato presidente Pigliaru, inoltre, sopravanzano i voti alle liste che lo sostenevano (una differenza di oltre 23mila voti), segnalando quindi una buona performance personale del candidato del centrosinistra. Al contrario, i voti delle liste a sostegno di Cappellacci sopravanzano i voti espressi direttamente per il candidato del centrodestra: il Presidente uscente della Sardegna, pertanto, non sembra essere stato un valore aggiunto per la sua coalizione e questo dato certamente segnala un giudizio negativo verso il governo regionale uscente.

    Se passiamo ad esaminare i voti ottenuti dalle liste, si vede che il Pd resta sotto il 25% perdendo oltre 82.000 voti rispetto alle politiche di febbraio (-3,1 punti percentuali) e oltre 53.000 voti rispetto alle regionali, una flessione di 2,6 punti percentuali (vedi Tabella 2). In compenso, Sel passa dal 3,7 delle politiche al 5,2 delle regionali, con un incremento di 1,5 punti percentuali. Lo stesso incremento lo registra il Centro democratico, mentre rispetto alle regionali del 2009 perdono voti sia in termini assoluti che in termini percentuali la sinistra comunista e l’Idv. Infine, le liste minori di centrosinistra (“Altri CSX”) hanno raccolto un numero dei voti che in termini assoluti è quasi il triplo di quello delle regionali del 2009, con un incremento di 6 punti percentuali. La tenuta del centrosinistra rispetto alle regionali precedenti quindi è dovuta più che al Pd (in flessione) alla buona performance dei suoi alleati minori, segnalando una certa frammentazione del voto nel campo del centrosinistra.

    Forza Italia rispetto alle politiche (quando ancora c’era il Pdl) perde “solo” 1,9 punti percentuali e oltre 62.000 elettori (si deve ricordare che il Nuovo Centrodestra di Alfano non si è presentato alle elezioni regionali). Se però il termine di confronto non sono le politiche, ma le precedenti regionali, l’emorragia di voti del partito di Berlusconi è molto consistente, di ben 11,6 punti percentuali, lasciando per strada oltre 122.000 elettori (e solo una piccola parte è confluita in Fratelli d’Italia). In compenso l’Udc (che alle regionali fa parte della coalizione di centrodestra) incrementa notevolmente i propri voti rispetto alle politiche passando dal 2,8% al 7,6% (+4,8 punti percentuali). Rispetto alle precedenti regionali, invece, il partito di Casini perde voti sia in termini assoluti che in termini percentuali (-1,5 punti percentuali). Per quanto riguarda gli altri partiti della coalizione, FdI conferma sostanzialmente il risultato delle politiche (+1,1 punti percentuali), mentre il Partito Sardo d’Azione conferma il risultato delle regionali del 2009. Rispetto alle regionali precedenti, si è ridotto anche il bacino elettorale delle liste minori del centrodestra (“Altri CDX”), con un calo di 2,2 punti percentuali. Infine, le liste fuori dalle coalizioni maggiori raggruppate nella categoria “Altri” (per la maggior parte liste indipendentiste) aumentano i propri consensi rispetto alle regionali precedenti (circa 26mila voti in più, con un incremento di 4,4 punti percentuali), mentre il confronto con le politiche è “falsato” dal fatto che in questa categoria sono conteggiati anche i voti del M5S.

    Tab. 2 Il voto alle liste e confronto con politiche 2013 e regionali 2009, valori assoluti e percentuali

    In conclusione queste elezioni hanno rappresentato una sonora bocciatura per il Presidente uscente, Ugo Cappellacci, e una sconfitta anche per Berlusconi, che si è impegnato in prima persona nella campagna elettorale. Al contrario, l’economista Francesco Pigliaru (che ha sostituito il 6 gennaio la candidata del Pd uscita vincente dalle primarie, Francesca Barracciu, dopo che era stata iscritta nel registro degli indagati) in un mese ha portato il centrosinistra a una non facile vittoria. Una buona notizia quindi per il Pd anche in chiave nazionale, dal momento che non sembra avere troppo risentito delle polemiche relative allo scontro tra Renzi e Letta, con le dimissioni di quest’ultimo e l’incarico di premier conferito da Napolitano al sindaco (ormai ex) di Firenze.

     

  • Un successo a 5 stelle

    Maggini, N., & De Lucia, F. (2014). Un successo a 5 stelle. In A. Chiaramonte & L. De Sio (Eds.), Terremoto elettorale (pp. 173–201). Bologna: Il Mulino.

    L’elemento di maggiore e più sorprendente discontinuità che, rispetto al passato, caratterizza le elezioni politiche del 2013 è rappresentato senza dubbio dall’affermazione elettorale del Movimento 5 stelle (M5s). Un successo straordinario, dalle forti ripercussioni sistemiche, tale da poter essere considerato una sorta di spartiacque fra la Seconda Repubblica e ciò che la seguirà. Un successo per certi versi atteso, almeno da qualche tempo, ma assolutamente non nella misura in cui è avvenuto. Vari altri capitoli di questo volume si occupano di alcuni singoli aspetti del successo del M5s, ad esempio analizzando il suo impatto sul risultato elettorale, nonché il suo effetto sul cambiamento di alcune delle caratteristiche della classe politica. In questo capitolo tuttavia ci dedicheremo a un approfondimento esclusivo delle caratteristiche di questa nuova formazione. Così, approfondiremo anzitutto la storia politico-elettorale del M5s, dedicandoci poi a un’analisi più dettagliata del suo successo nel 2013 e della sua trasversalità sia geografica che politica. Prenderemo poi in esame il profilo socio-demografico e politico degli elettori del M5s, esaminando anche le dinamiche dell’opinione pubblica che ne hanno segnato l’evoluzione. Infine presenteremo alcune considerazioni conclusive, tese a inquadrare la duplice sfida del M5s: da un lato quella prettamente politica, lanciata al sistema partitico italiano, e dall’altro quella teorica e organizzativa, ancora più difficile e densa di significato storico e di valore culturale, lanciata al concetto di democrazia rappresentativa. Due sfide molto difficili da vincere, per un partito-movimento con caratteristiche che restano, per certi versi, ancora molto contraddittorie.

  • Il profilo degli elettori di Renzi alle primarie: vecchia o nuova “constituency”?

     di Nicola Maggini

    La schiacciante vittoria di Matteo Renzi con il 68% dei voti alle elezioni per il segretario del Pd ha senza dubbio rappresentato l’evento più significativo dell’ultimo mese nel contesto politico italiano. Molti analisti hanno sottolineato come questo fatto costituisca una svolta storica per la sinistra, con l’affermazione di un leader per molti versi decisamente diverso dai precedenti leader del centrosinistra. Questo per ciò che concerne il lato dell’offerta politica. Ma dal punto di vista della domanda, ossia degli elettori, Renzi si è affermato grazie una constituency elettorale sul serio diversa dai tradizionali elettori delle primarie[1] del Pd? In particolare, il profilo dei suoi elettori è diverso rispetto al profilo medio di coloro che hanno partecipato alle primarie lo scorso 8 dicembre?

    Per cercare di rispondere a questi interrogativi abbiamo incrociato – nell’indagine Osservatorio Politico CISE del dicembre 2013[2] – il voto espresso alle primarie con alcune variabili sociopolitiche e sociodemografiche, distinguendo tra gli elettori di Renzi e il totale dei votanti alle primarie. In questa maniera è possibile vedere se il profilo degli elettori di Renzi si discosta dal profilo dell’elettore medio delle primarie.

    In primo luogo, abbiamo incrociato il voto per Renzi alle primarie con il voto alle coalizioni nelle elezioni politiche del febbraio 2013, riportando in Fig.1 le differenze percentuali rispetto alla media dei votanti alle primarie. In questa maniera è possibile capire su quali elettorati Renzi ha esercitato una maggiore capacità di attrazione. Come si può vedere, Renzi ottiene consensi superiori alla media generale dei votanti alle primarie tra chi aveva votato il M5S, il centrodestra e, soprattutto, la coalizione di Monti. In quest’ultimo caso gli elettori centristi di Renzi costituiscono il 14% del suo elettorato, ossia 4,4 punti percentuali in più rispetto agli elettori di Monti nel totale dei votanti alle primarie. Questi dati confermano l’ipotesi, formulata da molti osservatori, circa la capacità di Renzi di far leva su un elettorato trasversale, che valica i confini classici dello schieramento di centrosinistra. Una caratteristica che del resto era già emersa alle precedenti primarie per la premiership che lo avevano visto contrapposto a Bersani (Maggini e Emanuele 2013).

                

    Figura 1– Capacità di attrazione di Renzi per coalizione votata (differenze percentuali rispetto alla media dei votanti alle primarie)

    Si potrebbe però ritenere che il ricordo del voto alle scorse politiche, in cui si è assistito ad un’alta volatilità elettorale, non sia sufficiente a caratterizzare politicamente gli elettori di Renzi. Abbiamo quindi effettuato un nuovo incrocio, tra il voto alle primarie e l’auto-collocazione politica degli intervistati, divisa in quattro categorie: sinistra (punteggi fra 0 e 4 nella scala da 0 a 10), centro (5), destra (6-10) e non collocati (coloro che rifiutano il posizionamento).

                    Figura 2 – Profilo sociopolitico degli elettori di Renzi: auto-collocazione politica

    Come si può vedere dalla Fig.2, gli elettori di Renzi sono composti per il 61% da intervistati che si collocano a sinistra, per il 16,6% da intervistati che si collocano al centro e per il 18,6% da intervistati che si collocano a destra (i non collocati infine sono il 3,8%). Pur essendo nettamente la maggioranza assoluta, gli elettori di Renzi di sinistra sono sottorappresentati di 6,5 punti percentuali rispetto a coloro che si collocano a sinistra nel totale dei votanti alle primarie. Al contrario, rispetto alla media, tra gli elettori di Renzi gli intervistati di centro e di destra sono sovra-rappresentati. Questa maggiore trasversalità politica di Renzi è tuttavia molto attenuata rispetto alle primarie contro Bersani: in quel caso il sondaggio Cise mostrava che gli elettori di Renzi erano composti solo dal 43,3% da intervistati che si collocavano a sinistra, mentre la maggioranza assoluta (50,7%) si collocava al centro o a destra (Maggini e Emanuele 2013). Questo evidente spostamento a sinistra è del resto proprio ciò che ha permesso a Renzi di divenire segretario del Pd con quasi il 70% dei consensi.

    Per completare il profilo sociopolitico degli elettori di Renzi, si è deciso di incrociare il voto alle primarie con l’interesse per la politica (Fig.3). Il dato più interessante che emerge è che gli elettori di Renzi, pur essendo costituiti in maggioranza da persone molto o abbastanza interessate alla politica, sono però meno interessati alla politica rispetto alla media dei votanti alle primarie. Anche in questo caso si conferma una maggior capacità di attrazione di Renzi (rispetto ai tradizionali leader della sinistra) verso coloro che sono poco interessati alla politica (Paparo e Cataldi 2013).

                      Figura 3 – Profilo sociopolitico degli elettori di Renzi: interesse per la politica

    A questo punto, dopo aver tratteggiato il profilo sociopolitico dell’elettore “renziano”, cerchiamo di capire quali sono le sue caratteristiche sociodemografiche. I risultati delle analisi bivariate non ci mostrano un profilo sociodemografico degli elettori di Renzi così diverso dal profilo medio degli elettori che hanno partecipato alle primarie del Pd. Dal punto di vista del genere e dell’età, l’elettore di Renzi presenta caratteristiche molto simili all’elettore medio delle primarie. Qualche maggior elemento di differenziazione lo offrono variabili come la frequenza alla messa e la professione. Nel primo caso (Fig.4), si nota come tra gli elettori di Renzi coloro che non vanno mai a messa sono sottorappresentati rispetto ai non praticanti nel totale dei votanti alle primarie (di 5,7 punti percentuali), mentre sono sovra-rappresentati coloro che vanno a messa una volta al mese e, soprattutto, coloro che partecipano alle funzioni religiose 2-3 volte al mese. Tuttavia tra gli elettori di Renzi e il totale dei votanti alle primarie non c’è alcuna differenza per ciò che concerne i praticanti assidui (ossia coloro che vanno a messa tutte le domeniche): in entrambi i casi essi rappresentano circa il 30% degli intervistati.

    Infine, per ciò che concerne la professione dell’intervistato, il profilo dell’elettore di Renzi è simile a quello dell’elettore medio delle primarie. Gli aspetti più interessanti da notare sono che tra gli elettori di Renzi gli operai sono la categoria più sovra-rappresentata rispetto alla media dei votanti alle primarie, mentre i pensionati sono la categoria più sottorappresentata (Fig.5).

                      Figura 4 – Profilo sociodemografico degli elettori di Renzi: frequenza alla messa

                      Figura 5 – Profilo sociodemografico degli elettori di Renzi: professione

    In conclusione, il profilo degli elettori di Renzi presenta delle specificità (in particolare per quel che riguarda gli aspetti socio-politici) che lo discostano da quello dell’elettore medio delle primarie. L’elettorato di Renzi, infatti, si caratterizza per una maggiore trasversalità politica ed ideologica e per un minore grado di coinvolgimento politico in termini motivazionali. Tuttavia, rispetto alle precedenti primarie, la trasversalità politica di Renzi è meno marcata, anche a causa di un evidente sfondamento elettorale a sinistra (del resto necessario per poter essere eletto segretario del Pd a maggioranza assoluta). Inoltre le caratteristiche sociodemografiche dell’elettore di Renzi sono simili a quelle dell’elettore medio delle primarie, se si eccettua il fatto che Renzi mostra una presa maggiore sugli operai e sui cattolici praticanti saltuari, mentre ha una minore capacità di attrazione verso i pensionati e i non praticanti. In definitiva Renzi ha vinto perché è riuscito ad imporsi nella tradizionale constituency del Pd, quella che aveva incoronato Bersani candidato premier. La vera sfida per il sindaco di Firenze è allargare tale base elettorale, accentuando gli elementi di novità pur presenti nella sua elezione a segretario, per poter avere una chiara affermazione anche alle prossime elezioni politiche.

    Riferimenti bibliografici

     

    Fabbrini, S. [2002], Che cosa sono le primarie americane?, in “Italianieuropei”, n. 5, pp. 19-30.

    Fabbrini, S. [2005], L’America e i suoi critici, Bologna, Il Mulino.

    Gelli, B., Mannarini, T., Talò, C. (a cura di) [2013], Perdere vincendo, Franco Angeli.

    Gerber, E.R., e R.B. Morton [1998], Primary Elections Systems and Representation, in “The Journal of Law, Economics and Organization”, 14, pp. 304-324.

    Maggini, N., e Emanuele, V. [2013], Sondaggio Cise sulle primarie, il profilo politico degli elettori di Bersani e Renzi, in De Sio L. e V. Emanuele (a cura di) Un anno di elezioni verso le Politiche 2013, Dossier CISE n° 3, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Massari, O. [2004], I partiti politici nelle democrazie contemporanee, Bari-Roma, Laterza.

    Paparo, A., e Cataldi, M. [2013], Bersani trionfa tra gli elettori Pd ma Renzi tiene tra elettori periferici e tradizionalisti, in De Sio L. e V. Emanuele (a cura di) Un anno di elezioni verso le Politiche 2013, Dossier CISE n° 3, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.

    Pasquino, G. [2006], Democrazia, partiti, primarie, in “Quaderni dell’Osservatorio elettorale”, n. 55, pp. 23-37.

    Pasquino, G., e F. Venturino (a cura di) [2009], Le primarie comunali in Italia, Bologna, Il Mulino.

    Valbruzzi, M. [2005], Primarie: Partecipazione e leadership, Bologna, Bononia University Press.

    Venturino, F. [2007], Le primarie Nazionali dell’Unione: un’analisi della partecipazione con dati aggregati, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, n. 3, pp. 435-458.


    [1] Sulle primarie in Italia si veda Pasquino [2006], Pasquino e Venturino [2009], Venturino [2007], Gelli et al. [2013]. Rimandiamo invece ai lavori di Massari [2004, 132-140], Fabbrini, [2002, 2005], Gerber e Morton [1998], Valbruzzi [2005], per un approfondimento dei vari modelli di primarie praticate in USA, paese dove storicamente sono nate.

    [2] Nota metodologica: il sondaggio è stato condotto da Demetra con metodo CATI e CAMI (telefonia fissa e mobile) tra il 16 e il 22 dicembre 2013 su un campione di 1500 casi. Il campione nazionale intervistato è rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne per genere, età e zona geografica di residenza. Il campione è stato ponderato per alcune variabili socio-demografiche.

  • Ballottaggi 2013: i risultati negli 11 comuni capoluogo

     di Nicola Maggini

     

     Sono 11 i comuni capoluogo in cui si è andati al ballottaggio domenica 9 e lunedì 10 Giugno: quattro al Nord, due nella Zona Rossa e cinque nel Centro-Sud. In tutti i comuni, eccetto Avellino, la sfida è stata tra il centrosinistra e il centrodestra. Nella città irpina, invece, a sfidare il centrosinistra è stato il Terzo Polo guidato dall’Udc. In 11 casi su 11 ha vinto un candidato sindaco di una coalizione di centrosinistra guidata dal Pd. È stato un cappotto per il centrosinistra, mentre per il centrodestra è stata una vera débâcle. I comuni dall’esito elettorale più incerto erano Brescia, Iglesias e Avellino: al primo turno, infatti, la distanza tra le due coalizioni più votate era inferiore ai cinque punti percentuali. In tutti e tre i casi si è affermato il candidato del centrosinistra: a Brescia con il 56,5%, a Iglesias con il 51,7% e ad Avellino con il 60,6%. In nessun comune ha vinto al ballottaggio il candidato che al primo turno era arrivato secondo (anche se a Brescia il vantaggio del candidato di centrosinistra Emilio Del Bono sul sindaco uscente di centrodestra, Adriano Paroli, era di soli 0,6 punti percentuali). Come si può vedere dalla Tabella 1, dopo Iglesias è Siena il comune capoluogo dove la vittoria per il candidato del centrosinistra è stata più sofferta. Nella città toscana, il candidato del Pd Bruno Valentini ha ottenuto il 52% contro il 48% del candidato del centrodestra Eugenio Neri. Al primo turno il distacco era invece maggiore: Valentini aveva preso il 39,5% e Neri il 23,4%. Una sfida così combattuta nella “rossa” Siena è sicuramente un fatto storico, anche se non è così sorprendente visti gli scandali legati alla vicenda del Monte dei Paschi. Inoltre nel resto dei comuni capoluogo la vittoria dei candidati di centrosinistra è stata netta. A Roma il sindaco uscente del Pdl, Gianni Alemanno, è stato ampiamente battuto dallo sfidante, il senatore del Pd Ignazio Marino. Marino al secondo turno ha ottenuto il 63,9% contro il 36,1% di Alemanno, mentre al primo turno le percentuali erano, rispettivamente, il 42,6% e il 30,3%. Per un incumbent si tratta di una bocciatura senza appello. Significativa è poi la vittoria del centrosinistra in una roccaforte leghista come Treviso: il candidato del Pd Giovanni Manildo ha distaccato di 10 punti percentuali lo storico sindaco “sceriffo” della Lega Nord, Giancarlo Gentilini. Così come sono importanti le inequivocabili vittorie del Pd in contesti difficili e competitivi come Brescia, Imperia, Viterbo ed Iglesias. Si tratta, infatti, di comuni amministrati precedentemente dal centrodestra (come Roma e Treviso). Ad Imperia, storico “feudo” elettorale di Claudio Scajola, il candidato del Pdl, Erminio Annoni, è stato distanziato di ben 52,3 punti percentuali dal candidato del centrosinistra Carlo Capacci: una vera disfatta per il centrodestra. Impegnativa per il centrosinistra era anche la sfida di Avellino, dal momento che il candidato dell’Udc, Costantino Preziosi, poteva contare sul sostegno del “vecchio” leader democristiano Ciriaco De Mita, il cui seguito elettorale in Irpinia è sempre stato molto consistente. Al primo turno il candidato del centrosinistra, Paolo Foti, aveva staccato di poco Preziosi (25,3% vs. 23%), mentre al secondo turno la vittoria è stata netta: 60,6% vs. 39,4%.

    Se si guarda ai valori assoluti e non alle percentuali, si nota come nella maggiore parte dei casi l’incremento dei voti tra primo e secondo turno non è di grande entità: ciò è coerente con il brusco calo della partecipazione elettorale tra primo e secondo turno negli 11 comuni capoluogo considerati (pari a -9 punti percentuali). Più di un elettore su due è rimasto a casa. A Iglesias, Griazzo, sindaco con il 51,7% dei consensi, al secondo turno ha addirittura preso meno voti che al primo turno, passando da 7828 a 7216 voti, così come l’avversario Eltrudis, che è passato dai 7197 voti del primo turno ai 6747 voti del secondo turno. Un fenomeno analogo si è verificato a Barletta, dove il neosindaco Pasquale Cascella al ballottaggio ha preso meno voti che al primo turno, scendendo da 24388 a 23749 voti, così come l’avversario Giovanni Alfarano, che è passato dai 15008 voti del primo turno ai 14014 voti del secondo turno. Per ciò che concerne la sfida più importante in quanto a numero di elettori coinvolti, ossia Roma, Ignazio Marino registra un incremento tra primo e secondo turno di circa 150000 voti, mentre Gianni Alemanno sostanzialmente mantiene la cifra del primo turno (con un incremento di soli 10000 voti circa). Questo dato è significativo perché Marino è riuscito ad allargare il suo consenso nonostante che la partecipazione sia scesa dal 52,8% del primo turno al 45,1% del secondo turno. Il candidato del Pd, rispetto al sindaco uscente di centrodestra, è stato più capace di catturare il consenso di chi al primo turno aveva votato per altri candidati (attraendo verosimilmente un parte degli elettori di Alfio Marchini e del Movimento 5 Stelle).

     I comuni dove si è registrato un apparentamento ufficiale tra primo e secondo turno sono quattro: Brescia (dove la lista civica a sostegno di Laura Castelletti “Brescia 2013” si è apparentata con il candidato sostenuto dal Pd, Emilio Del Bono), Siena (dove la lista civica a sostegno di Marco Falorni “Impegno per Siena” si è apparentata con il candidato del centrodestra, Eugenio Neri), Ancona (dove la lista civica a sostegno di Letizia Perticaroli “Alleanza per Ancona” si è apparentata con il candidato sostenuto dal Pdl, Italo D’Angelo) e Viterbo (dove La Destra, la Fiamma Tricolore, la lista civica “Fondazione! Per Santucci sindaco” e la lista civica a sostegno di Renzo Poleggi “La mia Tuscia” si sono apparentate con il candidato del centrodestra, Giulio Marini). In tre casi su quattro il candidato con cui è stato stipulato l’apparentamento non è stato eletto sindaco. Solo a Brescia l’apparentamento è risultato utile, dal momento che poi il candidato del Pd, Emilio del Bono, è stato eletto sindaco. In ogni caso se si guarda ai voti proporzionali ottenuti al primo turno dalla lista apparentata (la lista civica di Laura  Castelletti), l’apparentamento non sembra essere stato determinante, dal momento che il margine di voti con cui è stata ottenuta la vittoria in termini assoluti è  superiore ai voti proporzionali della lista apparentata (anche se quest’ultimi costituiscono quasi la metà dei voti del margine di vittoria; inoltre, questa è solo una mera “fotografia” dei dati e non una approfondita indagine dei flussi elettorali).

     

    Tab. 1 – Risultati dei ballottaggi negli 11 comuni capoluogo

     

    Un altro dato interessante da registrare è quello delle sfide dirette tra centrosinistra e centrodestra (Tab. 2): come si è detto in precedenza, al ballottaggio in tutti i comuni capoluogo (con l’eccezione di Avellino) si affrontavano candidati sostenuti dal Pd e dal Pdl e in tutti i casi ha vinto un candidato sostenuto dal Pd. Nell’aggregato dei dieci comuni i voti dei candidati sostenuti dal Pd aumentano tra primo e secondo turno in termini assoluti (+180000 voti circa). Al contrario, i voti dei candidati del centrodestra rimangono sostanzialmente gli stessi tra primo e secondo turno in termini assoluti (+21000 voti circa). Anche questo è un ulteriore indicatore della pessima prestazione elettorale dei candidati del centrodestra a cui fa da contraltare la buona performance dei candidati del centrosinistra. L’incremento dei voti per i candidati del centrosinistra non è omogeneo a livello nazionale. Nei tre comuni del Centro-Sud esclusa Roma (Tab. 3), infatti, i voti per i candidati sostenuti dal Pd sono sostanzialmente gli stessi del primo turno in termini assoluti (e quelli del centrodestra addirittura diminuiscono leggermente). Nei tre comuni settentrionali (Tab. 4), invece, si registra un incremento di circa ventimila voti tra primo e secondo turno per i candidati del centrosinistra (mentre in termini assoluti i voti dei candidati del centrodestra rimangono sostanzialmente gli stessi).

     

    Tab. 2 – I ballottaggi fra i candidati di centrosinistra e di centrodestra

    Tab. 3 – I risultati dei candidati sostenuti dal Pd e dal Pdl nei capoluoghi del Nord andati al ballottaggio

    Tab. 4 – I risultati dei candidati sostenuti dal Pd e dal Pdl nei capoluoghi del Centro-Sud andati al ballottaggio (esclusa Roma)

     

     In conclusione, i ballottaggi di queste elezioni amministrative hanno registrato il successo a Roma di Ignazio Marino e in generale l’ottima prestazione dei candidati del centrosinistra che hanno vinto in tutti i comuni capoluogo andati al ballottaggio. In particolare, il centrosinistra strappa al centrodestra importanti comuni: Roma, Treviso, Brescia, Imperia, Viterbo e Iglesias. Considerando anche i risultati del primo turno, si tratta di un cappotto di 16 a 0 a favore del centrosinistra nei comuni capoluogo. Per quanto riguarda gli atri principali attori politici, il Movimento 5 Stelle non è riuscito ad arrivare nemmeno al ballottaggio in nessun comune capoluogo e il centrodestra ha subito una disfatta elettorale. Il Pdl ha confermato la sua debolezza a livello di elezioni locali e il suo scarso radicamento territoriale: quando Berlusconi non è in campo in prima persona, l’elettorato di riferimento non si mobilita come alle elezioni politiche, non trovando evidentemente sulla scheda elettorale un’offerta politica attraente. Il maggior partito del centrodestra italiano non è ancora riuscito a creare un’adeguata classe dirigente locale in grado di mobilitare e portare al voto i propri elettori. Il Pd, al contrario, grazie a una struttura organizzativa radicata sul territorio e ad una buona qualità dei suoi amministratori locali, è riuscito a mantenere il proprio vantaggio competitivo a livello di elezioni locali, anche grazie a un elettorato più fedele. Quando si tratta di valutare la qualità delle persone chiamate ad amministrare la propria città, i candidati del centrosinistra sono preferiti a quelli del Pdl o del Movimento 5 Stelle. La vera novità, e non è una cosa positiva per il centrodestra, è che anche la Lega Nord, pur essendo un partito strutturato con un forte radicamento territoriale nel Nord del paese, è andata molto male a queste elezioni comunali. La storica sconfitta di Treviso è emblematica. Sarebbe tuttavia sbagliato trarre un dato politico nazionale da queste elezioni: prima di tutto perché si tratta di elezioni locali. In secondo luogo perché la vittoria (schiacciante) del centrosinistra è avvenuta in un contesto di bassa affluenza elettorale. Le elezioni politiche sono tutta un’altra storia: l’affluenza è sempre più alta che alle comunali e sia Berlusconi che Grillo sono in grado di rimobilitare il proprio elettorato.

     

  • Il rendimento del Pd e del Pdl nei comuni superiori

    di Nicola Maggini

    Le elezioni comunali del 26-27 Maggio 2013 sono state un importante banco di prova per i due principali partiti del centrosinistra e del centrodestra, Pd e Pdl, costretti dal risultato elettorale delle politiche del 24-25 Febbraio a coabitare in un governo di grande coalizione. Per capire quale è stato il rendimento elettorale del Pd e del Pdl è opportuno considerare i risultati ottenuti in termini percentuali nell’aggregato dei 92 comuni superiori ai 15.000 abitanti in cui si è votato alle recenti comunali ed effettuare un confronto con i risultati ottenuti negli stessi comuni sia alle scorse politiche che nelle precedenti comunali. Dal momento che alle elezioni politiche l’affluenza è stata (come di consuetudine) molto più alta che alle comunali, affinché tale confronto abbia senso è necessario considerare i voti espressi in termini percentuali piuttosto che in valori assoluti. Inoltre alle elezioni comunali i partiti maggiori sono di solito sottorappresentati rispetto alle politiche a causa della presenza di una miriade di liste civiche di area, molte delle quali sono liste del candidato sindaco di turno del Pd o del Pdl. Per tenere conto di questo fatto, abbiamo riportato anche i risultati delle categorie “Altri CSX” e “Altri CDX”, composte per la stragrande maggioranza da liste civiche di area Pd nel primo caso e di area Pdl nel secondo caso (oltre che da partiti minori di area con percentuali sotto all’1% come il Psi e Centro democratico per il centrosinistra e Grande Sud per il centrodestra).  

            Vediamo in primo luogo quale è stato il rendimento elettorale del Pd alle comunali del 26-27 Maggio 2013. Nei 92 comuni superiori in cui si è votato, il Pd ha ottenuto il 21,2 % dei voti.  Nelle politiche di Febbraio negli stessi comuni il Pd aveva preso il 26,3 %, mentre alle precedenti comunali i consensi per il Pd erano stati pari al 26,8%. C’è stato quindi un calo in termini percentuali non solo rispetto alle politiche, ma anche rispetto alle precedenti comunali e tale calo è stato praticamente di pari entità (5,1 punti percentuali in meno rispetto alle politiche e 5,6 punti percentuali in meno rispetto alle comunali). Se consideriamo la categoria “Altri CSX”, si vede come essa sia praticamente inesistente alle elezioni politiche (0,5%), mentre valeva alle comunali precedenti l’8,3% e alle recenti comunali il 13,7%. Questo significa che oggi la frammentazione del voto all’interno dell’area della sinistra è ancora maggiore che alle precedenti comunali e ciò è in linea con la frammentazione dell’offerta politica. Se sommiamo i voti della categoria “Altri CSX” con quelli del Pd, il risultato è interessante: l’area allargata del Pd (comprensiva delle liste civiche) è oggi praticamente la stessa di quella delle precedenti elezioni comunali (34,9% vs. 35,1%). Il calo rispetto al passato quindi riguarda la lista del Pd, ma non la sua area allargata. Da una parte questo ridimensiona la flessione elettorale dei democratici, dall’altra è comunque un sintomo dello scarso appeal in questo momento del “brand” Pd se è vero che molti elettori preferiscono rifugiarsi nel voto per le liste civiche di area. Nelle Tabelle 1 e 2 è possibile vedere l’andamento del Pd disaggregato per area geografica (Tab. 1) e per dimensione demografica del comune (Tab. 2). Il dato generale viene confermato, anche se non è affatto uniforme. In particolare, per quel che riguarda la disaggregazione per area geografica, si nota come il calo maggiore per il Pd avvenga al Sud, dove la perdita di voti è di 7,4 punti percentuali rispetto alle precedenti comunali e di 5,8 punti percentuali rispetto alle politiche. Una flessione leggermente al di sotto del dato nazionale la registra la “Zona Rossa” (il calo è di 4,6 punti percentuali rispetto alle precedenti comunali e di 3,6 punti rispetto alle politiche), mentre in controtendenza è il Nord. In quest’area del paese, il Pd perde “solo” 2,2 percentuali rispetto alle politiche e addirittura migliora in termini percentuali rispetto alle precedenti comunali (+2 punti percentuali). Se consideriamo anche le liste civiche e le altre liste minori, l’area del Pd in questa zona del paese è addirittura aumentata di 7,3 punti percentuali. Il dato del Nord è sicuramente quello più incoraggiante per il Pd, mentre si conferma la minore presa al Sud già registrata alle politiche. Per quanto riguarda la “Zona Rossa” si può notare come nelle tradizionali roccaforti del Pd il voto a sinistra è più frammentato e la concorrenza di area maggiore, dal momento che la categoria “Altri CSX” in entrambe le elezioni comunali raccoglie percentuali superiori alla media nazionale. La “Zona Rossa” rimane l’area dove il Pd ottiene la sua percentuale migliore (29,1%), anche se la percentuale ottenuta nel Nord non è troppo distante (24,4%). Alle comunali precedenti, invece, la zona dove il Pd aveva ottenuto la percentuale migliore dopo la “Zona Rossa” (in cui aveva preso il 33,7%), era il Sud con il 26,9%. Nell’arco di questo ciclo politico-elettorale la distribuzione territoriale del voto per il Pd è quindi mutata, con una maggiore presa elettorale al Nord rispetto al Sud.

          Una minore varianza è riscontrabile nel caso della classificazione per dimensione demografica del comune, ma anche in questo caso ci sono delle differenze. Per comuni piccoli intendiamo quelli compresi tra i 15.000 e i 50.000 abitanti, i medi sono quelli superiori ai 50.000 abitanti, mentre Roma (data la sua ampiezza demografica) è considerata come una categoria a sé stante. I dati ci dicono che nei comuni medi e, in particolare, in quelli piccoli il Pd perde voti soprattutto rispetto alle politiche piuttosto che rispetto alle precedenti comunali. Infatti, nei comuni piccoli il Pd nel giro di tre mesi passa dal 22,3% al 15,2%, con un calo di 7,1 punti percentuali. Rispetto alle comunali precedenti invece il calo è di 3,2 punti percentuali e se si considera anche gli “Altri CSX”, l’area allargata del Pd registra un leggero incremento di 1,3 punti percentuali. Nei comuni medi la perdita di voti è di 5 punti percentuali rispetto alle politiche (passando dal 26,3% al 21,3%), e di 3,3 punti rispetto alle comunali precedenti. Se si considera anche gli “Altri CSX”, l’area allargata del Pd registra nei comuni medi un incremento di 2,2 punti percentuali rispetto alle precedenti comunali. A Roma, invece, il Pd perde più voti in termini percentuali rispetto alle precedenti comunali che rispetto alle politiche. Oggi, infatti, il Pd nella capitale vale il 26,3%, mentre alle politiche valeva il 28,7 (con una flessione di 2,4 punti percentuali). Nelle comunali precedenti, invece, aveva ottenuto il 34%, segnando quindi un netto calo di 7,7 punti percentuali. Anche se si considerano le liste civiche e minori, l’area allargata del Pd subisce una flessione di 2,4 punti percentuali.

    Tabella 1 – Rendimento elettorale del Pd (in valori percentuali) disaggregato per area geografica (comuni superiori).

     

    Tabella 2 – Rendimento elettorale del Pd (in valori percentuali) disaggregato per dimensione demografica del comune (comuni superiori).

     

          Vediamo a questo punto quale è stato il rendimento elettorale del Pdl alle comunali del 26-27 Maggio 2013. Nei 92 comuni superiori in cui si è votato, il Pdl ha ottenuto il 14,7 % dei voti.  Nelle politiche di Febbraio negli stessi comuni il Pdl aveva preso il 21,3 %, mentre alle precedenti comunali i consensi per il partito di Berlusconi erano stati pari al 29%. C’è stato quindi un crollo in termini percentuali rispetto alle precedenti comunali, e il calo è stato netto anche rispetto alle politiche (6,6 punti percentuali in meno rispetto alle politiche e 14,3 punti percentuali in meno rispetto alle comunali). Il confronto con le precedenti comunali è quello più importante e non solo perché si tratta di un confronto fra elezioni dello stesso tipo. Il partito di Berlusconi, infatti, storicamente ha sempre avuto un rendimento migliore alle politiche rispetto alle comunali. Il fatto quindi che in questa tornata amministrativa il Pdl sia andato peggio che alle politiche non è quindi così sorprendente. Il problema, per il Pdl, è che se il termine di paragone non sono le politiche, ma le comunali, il risultato è ancora più negativo. Si tratta di un vero e proprio crollo. E a nulla vale sommare al Pdl i voti degli “Altri CDX”: il calo rispetto al passato è di ben 9,7 punti percentuali. Anzi, il fatto che a queste comunali le altre liste di centrodestra abbiano raccolto il 12,3% rispetto al 7,7% è il sintomo di una forte frammentazione del voto nell’area di centrodestra e di una diminuita capacità di raccogliere consensi da parte del Pdl. Basti pensare che la categoria “Altri CDX” è sopravanzata dal Pdl di soli 2,4 punti percentuali. Si conferma nell’arco di questo ciclo politico-elettorale l’emorragia di voti per il partito di Berlusconi già registrata, del resto, alle elezioni politiche di Febbraio.

        Nelle Tabelle 3 e 4 è possibile vedere l’andamento del Pdl disaggregato per area geografica (Tab. 3) e per dimensione demografica del comune (Tab. 4). Il dato generale viene confermato. In particolare, per quel che riguarda la disaggregazione per area geografica, il calo è generalizzato in tutte le aree del paese, sia rispetto alle politiche che rispetto alle comunali precedenti. La zona dove il Pdl ottiene la percentuale migliore è il Sud con il 16,1%, mentre va malissimo al Nord (11%) e, ancora di più, nella “Zona Rossa” (9,3%). Alle comunali precedenti il Pdl aveva ottenuto il 30,5% al Sud, il 24,8% al Nord e il 24,3% nella “Zona Rossa”. Le perdite maggiori per il Pdl, sia rispetto alle precedenti comunali che rispetto alle politiche, avvengono nella “Zona Rossa”: -15 punti percentuali rispetto alle precedenti comunali e -7,7 punti percentuali rispetto alle politiche. Nei comuni di quest’area del paese il Pdl è ormai un partito medio-piccolo al di sotto del 10%. Se si considera la categoria “Altri CDX”, l’area allargata del Pdl è praticamente la stessa delle politiche, ma è inferiore di 10 punti rispetto alle precedenti comunali. Al Nord e al Sud le perdite registrate dal Pdl sono molto simili. Al Nord, il Pdl perde 13,8 punti percentuali rispetto alle comunali precedenti e 7 punti rispetto alle politiche; al Sud il calo del Pdl è di 14,4 punti rispetto alle comunali precedenti e di 6,6 punti rispetto alle politiche. Se vengono considerati gli “Altri CDX”, anche l’area allargata del Pdl arretra in termini percentuali rispetto alle comunali precedenti sia al Nord che al Sud.

         Una maggiore varianza è riscontrabile nel caso della classificazione per dimensione demografica del comune, anche se il dato generale viene confermato. Nei comuni piccoli e medi il Pdl va particolarmente male (prendendo, rispettivamente, l’11,4% e il 12,7%), mentre a Roma ottiene il 19,2%, una percentuale al di sopra del dato nazionale. A tal proposito si deve però sottolineare come a Roma la categoria “Altri CDX” valga “solo” il 5,3%, mentre nei comuni piccoli le liste civiche e minori di centrodestra ottengono ben il 18% e nei comuni medi il 14,7%. I dati ci dicono che il Pdl, rispetto alle politiche, perde più voti nei comuni piccoli, dove arretra di ben 14 punti percentuali. Nei comuni medi il calo rispetto alle politiche è di 8,8 punti percentuali, mentre a Roma c’è addirittura un miglioramento di 0,5 punti percentuali (e tale incremento è ancora maggiore se al Pdl si sommano i voti degli “Altri CDX”). Tuttavia, a Roma il Pdl subisce una vera e propria emorragia rispetto alle precedenti comunali (quando aveva ottenuto il 36,6%): la perdita di voti è di ben 17,4 punti percentuali. Il dato viene confermato anche se sommiamo al Pdl i voti delle liste civiche e minori di centrodestra: rispetto alle precedenti comunali l’area del Pdl cala di ben 15,1 punti percentuali. Sempre per quel che riguarda il confronto con le comunali precedenti, il Pdl cala di 11,8 punti percentuali nei comuni piccoli e di 10,9 punti percentuali nei comuni medi. Se si considera gli “Altri CDX”, anche l’area allargata del Pdl arretra in termini percentuali rispetto alle comunali precedenti nei comuni piccoli e medi.

    Tabella 3 – Rendimento elettorale del Pdl (in valori percentuali) disaggregato per area geografica (comuni superiori).

     

    Tabella 4 – Rendimento elettorale del Pdl (in valori percentuali) disaggregato per dimensione demografica del comune (comuni superiori).

     

         In conclusione, queste elezioni comunali hanno segnato un calo dell’affluenza che ha colpito tutti i partiti. Il dato del Pd è un dato in chiaroscuro, presentando luci ed ombre. Sicuramente il Pd è andato peggio sia rispetto alle politiche che rispetto alle comunali precedenti, confermando la fase di difficoltà e di declino elettorale già riscontrata alle recenti elezioni politiche. Tuttavia, l’area allargata del Pd (comprensiva delle liste civiche) è oggi praticamente la stessa di quella delle precedenti elezioni comunali. Se questo è il termine di paragone, l’area che ruota attorno al Pd, pur non crescendo, è rimasta stabile. Al Nord, poi, il Pd migliora in termini percentuali rispetto alle precedenti comunali. Se consideriamo anche le liste civiche e le altre liste minori, l’area del Pd in questa zona del paese è addirittura aumentata di 7,3 punti percentuali. Inoltre, in termini di comuni vinti, questo primo turno è stato ad appannaggio del Pd. Bisogna però considerare che, rispetto alle precedenti comunali, l’incremento in termini percentuali dei voti per gli “Altri CSX” non è un buon segnale per i democratici: significa comunque che il Pd, in quanto tale, ha uno scarso appeal nel proprio elettorato di riferimento. In generale il Pd è calato, ma è calato meno dei suoi concorrenti ed è per questo che è riuscito a vincere in questo primo turno delle comunali. Il suo principale avversario, ossia il Pdl, non solo è calato rispetto alle politiche, ma è crollato rispetto alle comunali precedenti. Per il Pdl si tratta di una vera emorragia di voti, particolarmente marcata nella “Zona Rossa” e nel Nord, confermando quella che è oramai una meridionalizzazione nella distribuzione territoriale del voto per il principale partito del centrodestra. Se è vero che queste elezioni comunali sono state negative per il Movimento 5 Stelle, il Pdl non è affatto in buona salute. E il Pd vince non perché incrementa i propri consensi, ma perché perde meno degli altri in un contesto di bassa partecipazione elettorale.

  • Il rendimento del M5S nei comuni superiori

    di Nicola Maggini

                Il Movimento 5 Stelle (M5S) alle elezioni politiche delle 24-25 Febbraio scorsi aveva ottenuto un grande successo elettorale, divenendo il primo partito alla Camera (senza contare la circoscrizione estero) con il 25,6% dei voti. Risulta quindi naturale e opportuno vedere quale è stato il rendimento elettorale del M5S alle comunali del 26-27 Maggio 2013. Nei 92 comuni superiori ai 15.000 abitanti in cui si è votato, il M5S ha ottenuto l’8,5 % dei voti.  Nelle politiche di Febbraio negli stessi comuni il M5S aveva preso il 26,3 %. Se si considerano le politiche come termine di paragone, non c’è alcun dubbio che si debba parlare di crollo. Infatti, nel giro di tre mesi sono stati persi poco più dei due terzi dei voti ottenuti alle elezioni politiche. Nelle Tabelle 1 e 2 è possibile vedere l’andamento del M5S disaggregato per area geografica (Tab. 1) e per dimensione demografica del comune (Tab. 2). Il calo è generalizzato, ma non del tutto uniforme. Al Nord passa dal 23,1% di Febbraio all’8% delle recenti comunali, con un calo di 15,1 punti percentuali. Al Sud il calo è ancora più marcato, pari a 18,8 punti percentuali (passando dal 27% all’8,2%). Nella “Zona Rossa”, infine, le perdite sono simili a quelle registrate nel Nord: tra le politiche e le comunali il M5S scende di 15,4 punti percentuali, passando dal 26,9% all’11,5%. In generale comunque la flessione è evidente e di simile entità in tutte le aree del paese. Una maggiore varianza è riscontrabile nel caso della classificazione per dimensione demografica del comune. Per comuni piccoli intendiamo quelli compresi tra i 15.000 e i 50.000 abitanti, i medi sono quelli superiori ai 50.000 abitanti, mentre Roma (data la sua ampiezza demografica) è considerata come una categoria a sé stante. I dati ci dicono che minore è l’ampiezza demografica del comune, maggiore è il calo elettorale del M5S. Infatti, nei comuni piccoli il movimento di Grillo nel giro di tre mesi passa dal 25,8% al 4,9%, con un calo di ben 20,9 punti percentuali.  Nei comuni medi la perdita di voti è di 18,3 punti percentuali (passando dal 25,3% al 7%), mentre a Roma l’emorragia di voti è più contenuta. Infatti, nella capitale, il M5S alle politiche aveva ottenuto il 27,3%, mentre alle comunali la percentuale di voti è stata del 12,8% (scendendo quindi di 14,5 punti percentuali).  Rispetto alle politiche, il vistoso calo del M5S è generalizzato, ed è più marcato nei comuni di piccole dimensioni.

    Tabella 1 – Rendimento elettorale del M5S (in valori percentuali) disaggregato per area geografica (comuni superiori).

    Tabella 2 – Rendimento elettorale del M5S (in valori percentuali) disaggregato per dimensione demografica del comune (comuni superiori).

                A questo punto va detto che il confronto comunali-politiche è ancora più fuorviante per il M5S che per gli altri partiti.  Questo perché la competizione comunale non è congeniale ai candidati del M5S. In un contesto di forte personalizzazione del voto e di elezione diretta del sindaco sono fortemente svantaggiati.  Essendo del tutto sconosciuti o quasi, prendono voti solo in proporzione al loro grado di effettivo radicamento territoriale, e quest’ultimo è spesso scarso. Se lasciamo perdere il confronto comunali-politiche e andiamo a vedere come il M5S si è comportato nelle tornate amministrative degli ultimi due anni il quadro appare un po’ diverso. Si deve tenere presente che si tratta di un confronto tra elezioni ammnistrative in cui si è votato in comuni differenti e tale confronto si è basato sui voti ottenuti nell’arena maggioritaria dai candidati a sindaco del M5S. Vediamo in primis quale è stata la presenza nei diversi gruppi di comuni del M5S alle comunali del 2011, del 2012 e del 2013 (Tab. 3). Alle comunali del 2011 il M5S era presente nel 33,3% dei comuni superiori (47 su 141), con una presenza non uniforme sul territorio nazionale: era presente infatti nel 57,5% dei comuni superiori del Nord, nel 54,5% dei comuni superiori della “Zona Rossa” e solo nel 15,2% dei comuni superiori del Sud. Alle comunali del 2012 il M5S era presente nel 46,9% dei comuni superiori (75 su 160), e anche in questo caso la presenza è nettamente maggiore nel Centro-Nord rispetto al Sud: era presente infatti nel 71,7% dei comuni superiori del Nord, nel 76,5% dei comuni superiori della “Zona Rossa” e nel 26,7% dei comuni superiori del Sud. Alle recenti comunali il M5S ha invece presentato candidati a sindaco nella stragrande maggioranza dei comuni superiori, pari all’81,5% (75 comuni su 92), con una presenza abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: si è presentato infatti nell’89,3% dei comuni superiori del Nord, nella totalità dei comuni superiori della “Zona Rossa” e nel 73,1% dei comuni superiori del Sud.

    Per ciò che concerne le percentuali di voto (Tab. 4), alle comunali del 2011 i candidati a sindaco del M5S avevano preso nell’insieme dei comuni dove si erano presentati il 4,7%. Al Nord avevano preso il 4,8%, nella “Zona Rossa” l’8,4% e nel Sud il 2,2%. Alle comunali del 2012 la percentuale di consensi del M5S era salita al 9,1%. Il miglioramento era stato meno marcato al Sud rispetto alle altre zone. Al Sud infatti, nel 2012, i candidati a sindaco del M5S avevano ottenuto il 4,5%, nella Zona Rossa il 13,8% e nel Nord l’11,1%. Oggi i candidati a sindaco del M5S hanno ottenuto l’8,5% dei voti, un dato leggermente più basso di quello del 2012. Se poi si considera che alle recenti comunali il M5S si è presentato in molti più comuni rispetto al passato, si può dire che siamo di fronte a una battuta d’arresto rispetto al trend (in crescita) registrato tra il 2011 e il 2012. Inoltre, si deve osservare come la distribuzione territoriale del voto al M5S sia molto più omogenea oggi che nel passato: alle comunali del 26-27 Maggio 2013 i candidati a sindaco del M5S hanno ottenuto l’8% dei voti nei comuni superiori del Nord in cui erano presenti, l’11,5% nella “Zona Rossa” e l’8,2% al Sud.  Il Sud è l’unica zona del paese dove il M5S ottiene una percentuale migliore rispetto al passato (ed è anche la zona dove aumenta di più la sua presenza territoriale).

    Tabella 3 – Presenza del M5S nei comuni superiori al voto alle elezioni comunali.

    Tabella 4 – Voti ai candidati sindaco del M5S nei comuni superiori dove erano presenti, disaggregati per area geografica (valori percentuali).

        In sintesi, il M5S non è andato bene a queste elezioni comunali. Se il confronto è con le politiche, sicuramente si può parlare di crollo. Ciò non è vero se si considerano le elezioni comunali degli ultimi due anni. Tuttavia anche in questo caso il dato non è positivo perché la crescita elettorale del M5S si è arrestata e si è registrata una leggera inversione di tendenza. Ma il punto è sempre lo stesso. Alle elezioni comunali i candidati del M5S scontano il fatto di avere poca esperienza e poca visibilità in un contesto in cui l’una e l’altra contano molto. Alle politiche il peso di Grillo è determinante, ma nei singoli comuni Grillo non può sostituire i suoi candidati.

                In conclusione, siamo in una fase di tale volatilità elettorale che occorre fare molta attenzione a trarre conclusioni tranchant su fenomeni di portata tutto sommato circoscritta, come è una tornata di elezioni comunali. Sicuramente è presto per parlare di disfatta o di declino irreversibile del M5S. Tuttavia si può dire che queste elezioni comunali hanno segnato senza dubbio una battuta d’arresto per il movimento di Grillo.

  • Comunali 2013: un riepilogo dell’offerta (frammentata) nei comuni capoluogo

    Comunali 2013: un riepilogo dell’offerta (frammentata) nei comuni capoluogo

    di Nicola Maggini

    Nelle prossime amministrative (26-27 maggio) si recheranno al voto i cittadini di 16 comuni capoluogo. Queste elezioni ci daranno un quadro della politica italiana che sarà interessante da interpretare dal momento che le elezioni comunali seguono le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio scorsi. In primo piano si pone il tema della frammentazione: non è una novità, ma piuttosto una tendenza che va avanti da tempo senza interruzioni. Come rilevato nel primo Dossier Cise sulle elezioni comunali del 2012 [D’Alimonte 2012], il fenomeno della proliferazione delle liste e dei candidati sindaco ha raggiunto, anche in queste amministrative, livelli patologici.

     

    Tab.1 – Riepilogo dell’offerta nei capoluoghi al voto

     

    Nei 16 comuni capoluogo in cui si voterà il 26-27 maggio in media i candidati a sindaco sono 8,3 (erano 7,8 nella consultazione precedente). A Vicenza e Ancona sono addirittura 10, a Viterbo 14 e a Roma ben 19. Quanto alle liste sono in media 18,1 con il Sud che sopravanza nettamente il Nord (21,2 a 16). Il primato è di Roma dove sono 40, ma Brescia con 23, Avellino con 22, Barletta e Viterbo con 21 non sono da meno. Il capoluogo più virtuoso è Iglesias con 10. Rispetto alle precedenti comunali c’è stata una crescita (da 16,6 a 18,1) che si accompagna a un aumento delle liste che al primo turno vanno da sole: sono passate da 6,9 a 8,7, ma con punte di 28 a Roma, 13 a Viterbo e Avellino, e 10 a Massa. Sono liste di vario genere. Alcune sono liste personali dei candidati sindaco, altre sono il prodotto delle divisioni -reali o fittizie- di partiti tradizionali, altre sono espressione della disaffezione della società civile nei confronti dei partiti. Tra queste molte sono le liste civiche, a volte genuine altre volte create da esponenti della vecchia classe politica per nascondere le loro reali appartenenze. Poi ci sono le liste frutto della intraprendenza di imprenditori della politica che vanno a caccia di voti da negoziare poi con chi va al ballottaggio o da far valere in altre arene.

    Tab.2 – L’offerta nei capoluoghi alle precedenti comunali

    La maggioranza delle liste in corsa non sono alleate a candidati sostenuti dai due maggiori partiti. Come detto sono in media 8,7. Anche questo è un segnale della crisi dei partiti maggiori e della loro diminuita capacità di raccogliere il consenso. Ma in questo si nota una leggera differenza tra Pd e Pdl. I candidati di centrosinistra si presentano con il sostegno di coalizioni che sono più ampie di quelle che sostengono i candidati targati Pdl. In media i primi hanno il sostegno di 5,1 liste mentre i secondi si fermano a 4,3. Nelle comunali precedenti la situazione era più o meno identica. La differenza è ancora più netta nei comuni della Zona Rossa dove il rapporto a favore dello schieramento progressista, che nelle precedenti comunali aveva due liste in più di media, è di 5 a 2,5. Tutto ciò non significa che siamo davanti ad una esplosione di vitalità della democrazia italiana. E’ vero il contrario. Il sistema partitico italiano si va semplicemente destrutturando. E’ il risultato della crisi dei partiti tradizionali e della assoluta mancanza di fiducia nella classe politica da parte dei cittadini, un dato che è emerso in tutta la sua evidenza alle recenti elezioni politiche, segnate da una parte dal successo di un soggetto politico anti-establishment come il Movimento 5 Stelle e dall’altra dal forte arretramento elettorale del Pdl e del Pd rispetto alle politiche del 2008. Gli elettori non si fidano più dei partiti e quindi guardano ai candidati e alle liste non tradizionali. Ma detto ciò, non si può negare che una parte del fenomeno è attribuibile a regole elettorali in parte fatte male che favoriscono la frammentazione e la corruzione del tessuto politico del paese. Una di queste è l’assenza di una soglia di sbarramento legale per le liste che si coalizzano. (chronofhorse.com) Un’altra è una cattiva regolamentazione dell’accesso alla competizione politica.

     

    Tab.3 – L’offerta in ciascun comune capoluogo di provincia al voto

     

  • L’erosione dei tradizionali blocchi politici

    di Nicola Maggini

     

    Le elezioni politiche del 24 e del 25 febbraio hanno mostrato, come evidenziato in un precedente articolo, l’arretramento elettorale delle due coalizioni di centrosinistra e di centrodestra rispetto alle precedenti elezioni del 2008. Oltre al rendimento di coalizioni e partiti, a questo punto è opportuno guardare anche al rendimento dei due “blocchi” di centrosinistra e centrodestra. I blocchi sono “specifici segmenti dello spazio politico – definito in termini sinistra-destra – dai quali le coalizioni attingono tanto le proprie componenti partitiche, quanto il loro potenziale consenso elettorale” [Chiaramonte 2007, 374]. I blocchi del 2013 sono stati costruiti a partire dall’origine politica e “coalizionale” dei vari partiti in lizza: in altre parole fanno parte dei due blocchi di centrosinistra e di centrodestra tutti quei partiti e quelle liste che sono riconducibili politicamente alle tradizionali aree di centrodestra e di centrosinistra e che nel 2006 facevano parte o dell’Unione o della Casa delle Libertà, compresi i partiti e le liste nate da scissioni di partiti che in passato facevano parte delle due coalizioni.[1] In questa maniera possiamo vedere quali sono i rapporti di forza tra le due tradizionali aree politiche dell’Italia. Il blocco di centrosinistra è così composto dai partiti della coalizione di Bersani (esclusa la Svp), da Rivoluzione Civile di Ingroia e da altri partiti minori (radicali, Pcl). Il blocco di centrodestra è formato dalle liste della coalizione di Berlusconi, dalle liste della coalizione di Monti e da altri partiti minori (Fn, Ft). Abbiamo così confrontato, per i due rami del Parlamento,[2] i risultati ottenuti dal blocco di centrosinistra e da quello di centrodestra in queste elezioni politiche con i risultati ottenuti dagli stessi blocchi nelle due precedenti elezioni politiche (2006 e 2008). Durante tutto il periodo considerato il centrodestra è in vantaggio sul centrosinistra. Le elezioni in cui la differenza tra centrodestra e centrosinistra è minore in termini percentuali sono quelle del 2006: 3,1 punti percentuali a favore del centrodestra alla Camera e 4 al Senato. Si tratta del resto di elezioni caratterizzate da una struttura della competizione perfettamente bipolare, con coalizioni di centrosinistra e di centrodestra “extra-large”. Il 2008 è invece l’anno in cui la differenza in termini percentuali tra i due blocchi è maggiore: 12,3 punti percentuali a favore del centrodestra alla Camera e 12,5 al Senato. Infine, anche alle recenti elezioni del 2013 il blocco di centrodestra supera nettamente il blocco di centrosinistra: +8,3 punti percentuali alla Camera e +6,2 al Senato. Si ha una conferma, quindi, del fatto che in Italia il blocco moderato-conservatore possiede un radicamento elettorale maggiore rispetto all’area progressista.

        Se si effettua un confronto diacronico per ciascun blocco, si nota come il blocco di centrosinistra ottenga il risultato migliore sia in termini percentuali che in valori assoluti nel 2006, quando tale area politica totalizzò alla Camera il 47,9%, pari a circa 18 milioni e 300mila voti. Nel 2013 il blocco di centrosinistra è calato al 31,8%, lasciando per strada quasi sette milioni e 300mila voti, ossia il 41% dei suoi consensi del 2006. Il calo rispetto al 2008 è invece stato di circa 5 milioni di voti (-31%). In sette anni quindi l’area del centrosinistra ha perso quasi la metà dei propri elettori. Se guardiamo al blocco di centrodestra, si nota come quest’area politica ottenga il risultato migliore alla Camera nel 2008, con il 55,4%, pari a circa 20 milioni e 200mila voti. Nel 2013 il blocco di centrodestra è invece calato al 40,1%, perdendo circa 6 milioni e 600mila voti, ossia il 32% dei suoi consensi del 2008. Rispetto al 2006, infine, il calo è stato di circa sei milioni di voti (-30%). Risultati simili si possono vedere anche al Senato, anche se il blocco di centrodestra perde più consensi rispetto al 2008 del blocco di centrosinistra (-32% vs -26%). I dati della Camera sono simili a quelli relativi alle coalizioni presentati in un precedente articolo [D’Alimonte e Maggini 2013], con la differenza che quando si esaminano i risultati relativi ai blocchi, la perdita di consensi rispetto al 2008 è praticamente la stessa per l’area di centrodestra e l’area di centrosinistra (-32% vs -31%). Nel caso delle coalizioni, invece, è il centrodestra ad aver perso di più rispetto al 2008: in particolare la coalizione di Berlusconi ha perso poco più di 7 milioni di voti, ossia il 42% dei suoi consensi del 2008, mentre la coalizione di Bersani ha perso più di tre milioni e mezzo di voti, vale a dire il 27% dei suoi consensi nel 2008. Si deve ricordare, come detto in precedenza, che nel blocco di centrosinistra sono ricompresi anche i voti della lista di Ingroia (oltre che quelli di alcuni partiti minori) e nel blocco di centrodestra anche i voti della coalizione di Monti (oltre che quelli di alcuni partiti minori). Pertanto il dato che emerge è ancora più significativo di quello che deriva dall’analisi del voto alle coalizioni: le due tradizionali aree politiche di centrodestra e di centrosinistra hanno perso un numero considerevole di elettori, al di là delle specifiche alleanze elettorali che i partiti dei due blocchi hanno formato alle politiche del 2013. Questa erosione delle due tradizionali aree politiche del Paese può essere spiegata guardando l’ultima colonna delle Tab.1 e 2: l’enorme crescita nel 2013 rispetto alle due precedenti elezioni politiche della categoria “Altri”. Questa categoria, che nel 2006 e nel 2008 era residuale con percentuali al di sotto del 2%, nel 2013 raggiunge il 28% alla Camera e il 25,2% al Senato grazie all’exploit elettorale di una formazione politica non classificabile nei due tradizionali blocchi politici di centrosinistra e di centrodestra: il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.



     

    Tab.1

     

    Nota: sono escluse dal riepilogo la circoscrizione estero e la Valle d’Aosta

     

     


    Tab.2

    Nota: sono escluse dal riepilogo la circoscrizione estero, la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige

     

     

     

    Le Tab. 3 e 4 riportano, per la Camera e per il Senato, le percentuali di voto raccolte dai blocchi politici tra il 2006 e il 2013 in ciascuna regione, mostrando anche la variazione percentuale dei consensi per il blocco di centrosinistra e per il blocco di centrodestra rispetto sia al 2008 che al 2006. I dati di Camera e Senato sono simili, con le differenze maggiori riguardanti il fatto che il blocco di centrosinistra al Senato perde mediamente meno voti rispetto alla Camera nel confronto col passato. Concentrandoci sul dato della Camera (che è quello più rappresentativo data la platea elettorale più ampia), si nota come il blocco di centrodestra perda voti in tutte le regioni, ma in particolare in Liguria (-39% rispetto al 2008 e -40% rispetto al 2006), in Sicilia (-46% rispetto al 2008 e -42% rispetto al 2006), in Sardegna (-38% rispetto alle due precedenti elezioni politiche), e nelle Marche (-36% rispetto al 2008 e -35% rispetto al 2006). Nettamente al di sotto della media nazionale sono invece le perdite registrate in Lombardia, in Campania e in Trentino. In maniera simile, il calo del blocco di centrosinistra avviene in tutte le regioni italiane. Le perdite maggiori, chiaramente al di sopra della media nazionale, si registrano in Molise (ma al di sotto della media nel confronto col 2006), nelle Marche (-38% rispetto al 2008 e -44% rispetto al 2006), in Abruzzo (-38% rispetto al 2008 e -46% rispetto al 2006), in Campania (-34% rispetto al 2008 e -46% rispetto al 2006), in Calabria (-36% rispetto al 2008 e -49% rispetto al 2006) e, infine, in Liguria (-35% rispetto al 2008 e -45% rispetto al 2006). Attorno alla media o al di sotto di essa sono invece le perdite registrate nella maggior parte delle regioni della ex zona rossa(in particolare in Toscana ed Emilia-Romagna) e del Nord (in particolare in Lombardia).

        La categoria “Altri”, che nel 2006 e nel 2008 raccoglieva percentuali significative solo in Trentino Alto Adige grazie all’Svp, nel 2013, a causa del boom elettorale del Movimento 5 Stelle, diventa in tutte le regioni un vero e proprio blocco politico distinto da quelli tradizionali e con una massa critica molto simile. Infatti alla Camera il Movimento 5 Stelle ha ottenuto poco più di 8 milioni e mezzo di voti divenendo il primo partito con una percentuale pari al 25,6%. Se si considera che il blocco “Altri” ha ottenuto il 28% a livello nazionale, si capisce come esso sia quasi interamente composto dai voti del movimento di Grillo. Il blocco “Altri”, in linea con il dato del Movimento 5 Stelle, ha una forza elettorale abbastanza omogenea a livello nazionale, con una regione in cui sfiora la maggioranza assoluta dei voti: il Trentino Alto-Adige (dove oltre al Movimento 5 Stelle nel blocco “Altri” è presente anche l’Svp).

        In conclusione, queste elezioni sono state segnate da un lato da una crescente disaffezione nei confronti della politica, con il conseguente significativo aumento dell’astensione e dall’altro dal successo di un nuovo attore politico, ossia il Movimento 5 Stelle, non classificabile nei tradizionali blocchi politici di centrosinistra e di centrodestra. Un nuovo attore politico che proprio grazie alla sua trasversalità ha dimostrato di essere altamente competitivo, risultando appetibile in termini elettorali per molti elettori che nel 2008 e nel 2006 avevano votato per partiti di centrodestra o di centrosinistra.  Tutto ciò ha provocato una evidente emorragia elettorale nelle due tradizionali aree di centrosinistra e di centrodestra, con delle conseguenze in termini di destrutturazione del nostro sistema partitico.


    Tab. 3

     

    Nota: nella tabella non sono considerate la circoscrizione estero e la Valle d’Aosta

     

    Tab. 4

    Nota: nella tabella non sono considerate la circoscrizione estero, la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige

     


     

    [1] In maniera simile sono stati costruiti i blocchi per il 2008 e per il 2006. Nel 2006 ad esempio l’Udeur (facente parte della coalizione di centrosinistra) viene considerato nel blocco di centrodestra dal momento che da tale area aveva avuto origine.

     

    [2] I risultati dei blocchi sono stati determinati a partire dai voti proporzionali alle liste: per il Senato abbiamo quindi escluso dall’analisi anche il Trentino Alto Adige dal momento che in questa regione la competizione avviene in collegi uninominali.

     

     

     

  • La perdita di consenso dei partiti italiani e il successo di un nuovo attore politico

    di Nicola Maggini

     

    Uno dei dati più rilevanti che emerge dalle elezioni politiche del 2013 è stato l’arretramento elettorale dei due partiti principali di centrodestra e di centrosinistra, ossia il Pdl e il Pd, rispetto alle precedenti elezioni del 2008. In questa sede cerchiamo di analizzare l’andamento dei principali partiti italiani con una comparazione diacronica che comprenda anche le elezioni del 2006. Come si può vedere dalla Tab.1, alla Camera il partito più votato è stato il Movimento 5 Stelle che, presentatosi per la prima volta alle elezioni politiche, ha ottenuto poco più di 8 milioni e mezzo di voti con una percentuale pari al 25,6%. Un dato sicuramente impressionante: mai nella storia della Repubblica dopo le elezioni del ’46 un partito nuovo aveva ottenuto una percentuale simile alle sue prime elezioni politiche. Il successo del movimento di Grillo sicuramente è avvenuto a discapito degli altri due principali partiti, il Pd e il Pdl. Oltre alla competizione costituita dal Movimento 5 Stelle, per spiegare l’emorragia di voti di Pdl e Pd si deve tenere presente che la partecipazione elettorale è diminuita di circa cinque punti percentuali rispetto al 2008 (passando dall’80,5% al 75,2%), pari a poco più di due milioni e seicentomila votanti in meno, ossia più del calo fisiologico della partecipazione dovuto all’avvicendamento generazionale (stimabile attorno a 2 punti percentuali di flessione). Il calo è stato ancora più consistente se si considera il 2006, quando la partecipazione fu dell’83,6%. Pertanto è ipotizzabile che una parte dei voti dati nel 2008 al Pdl e al Pd sia finito nell’astensione.Il partito di Bersani, infatti, è passato dal 33,2% del 2008 al 25,4% del 2013, perdendo per strada quasi tre milioni e mezzo di voti. E anche il confronto con la lista dell’Ulivo nel 2006 non è lusinghiero: i voti persi anche in questo caso sono stati circa 3 milioni e 300mila, passando dal 31,3% al 25,5%. Il calo del Pdl di Berlusconi è ancora più marcato, sia in termini percentuali che in valori assoluti. Il Pdl infatti è passato dal 37,4% del 2008 al 21,6% del 2013, ossia ben 15,8 punti percentuali in meno. Oltre sei milioni di elettori hanno abbandonato il partito di Berlusconi. Nel 2006 Forza Italia e Alleanza Nazionale avevano ottenuto (se sommati assieme) quasi 14 milioni di voti. Oggi tale consenso si è dimezzato. E anche se al Pdl di oggi sommiamo i voti dei due partiti “scissionisti” (Fli e Fratelli d’Italia), si arriva a poco più di otto milioni di voti. Decisamente una cifra inferiore rispetto ai circa 13 milioni e 600mila del 2008. Oggi il Pdl ha meno voti (sia in valori assoluti che in termini percentuali) di Forza Italia nel 2006. L’altro nuovo attore delle recenti elezioni politiche è stata la lista di Monti, che ha preso quasi tre milioni di voti, pari all’8,3%. Alla Camera la lista Monti sicuramente ha danneggiato i suoi alleati: Fli e l’Udc. In particolare, il partito di Casini, che nel 2006 aveva ottenuto il 6,8 % e nel 2008 il 5,6%, oggi non arriva al 2%, perdendo nell’arco di sette anni quasi due milioni di voti. Forte, rispetto al 2008, è stato pure il calo della Lega Nord, passando dall’8,3% al 4,1% e lasciando per strada circa un milione e 600mila voti. Se alla Lega Nord sommiamo i voti di Grande Sud-Mpa, possiamo dire che il partito di Maroni è tornato più o meno ai livelli del 2006 (quando aveva formato un cartello elettorale con l’Mpa). Se guardiamo ai partiti minori del centrodestra, si nota il calo de La Destra di Storace che con lo 0,6% ottiene la stessa percentuale della Fiamma Tricolore nel 2006. Nel campo della sinistra, si può invece dire che Sel ottiene più o meno gli stessi voti (e la stessa percentuale) della Sinistra Arcobaleno nel 2008, mentre Rivoluzione Civile ottiene meno voti sia nel confronto con l’Idv 2008 (ossia uno dei partiti che la costituiscono) sia nel confronto con la Sinistra Arcobaleno (formata anche in questo caso da partiti che ora fanno parte del cartello di Ingroia). Nel 2006 il Prc, i Comunisti Italiani e i Verdi avevano ottenuto, sommati assieme, quasi quattro milioni di voti. Oggi, se si somma Sel e Rivoluzione Civile, non si arriva ai due milioni. Si tratta pertanto di un’emorragia dei consensi per i partiti della sinistra “radicale”.

         Se si guarda ai risultati del Senato[1] (Tab.2), le differenze più importanti da rilevare rispetto alla Camera sono che il primo partito è il Pd con il 27,4%, mentre il Movimento 5 Stelle si posiziona secondo con il 23,8%. La peggiore performance del M5S rispetto alla Camera (e la migliore prestazione del Pd) possono essere dovute sia alla differente platea elettorale (al Senato non possono votare coloro che hanno meno di 25 anni) sia alla possibile presenza del voto disgiunto: la percezione della posta in gioco in alcune regioni può aver indotto alcuni elettori del movimento di Grillo a votare per il Pd al Senato ai fini del premio di maggioranza regionale. Al Senato, poi, la coalizione di Monti si presentava con una lista unitaria che ha ottenuto il 9,1%, quasi la stessa percentuale della somma alla Camera di Udc, Fli e Scelta Civica (10,6%). La lista unica di Monti al Senato ha ottenuto più voti, sia in termini percentuali che in valori assoluti, non solo dell’Udc nel 2008, ma anche dell’Udc nel 2006 (quando il partito di Casini, ancora alleato di Berlusconi, ottenne quella che poi è stata la sua migliore prestazione elettorale nell’arco delle ultime tre elezioni politiche). In generale, comunque, per quel che riguarda il confronto con il passato vale per gli altri partiti quanto notato in precedenza per la Camera.

        In conclusione, queste elezioni politiche hanno registrato una accresciuta volatilità elettorale che ha riguardato la maggior parte dei partiti italiani, sfidati sia dalla crescente disaffezione dei cittadini nei confronti della politica (con un aumento significativo dell’astensione), sia da nuovi attori politici, in primis il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Tutto ciò sta a indicare come siamo entrati in una fase di riallineamento elettorale e di possibile destrutturazione del nostro sistema partitico.

                                                                                                                                          

    Tab.1 – Il voto ai partiti alla Camera (politiche 2006, 2008 e 2013)

    Nota: sono escluse dal riepilogo la circoscrizione estero e la Valle d’Aosta

    Tab. 2 – Il voto ai partiti al Senato (politiche 2006, 2008 e 2013) 

    Nota: sono escluse dal riepilogo la circoscrizione estero, la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige


     



    [1] I risultati dei partiti sono stati determinati a partire dai voti proporzionali alle liste: per il Senato abbiamo quindi escluso dall’analisi anche il Trentino Alto Adige dal momento che in questa regione la competizione avviene in collegi uninominali.

  • Sondaggio IPSOS-CISE, il voto alle coalizioni e l’Europa

    Sondaggio IPSOS-CISE, il voto alle coalizioni e l’Europa

    di Nicola Maggini

     

    Il Sondaggio IPSOS-CISE  sulla politica italiana pubblicato oggi sul Sole 24 Ore conteneva alcune interessanti domande sull’Europa.  In una campagna elettorale fortemente influenzata anche dal contesto europeo, il modo con cui gli elettori percepiscono l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea è sicuramente una issue importante. Dai dati che qui presentiamo emerge che, in linea generale, gli elettori della coalizione di centrosinistra guidata da Bersani e gli elettori della coalizione di centro guidata da Monti presentano un profilo simile per ciò che concerne la issue Europa: si tratta cioè di due elettorati europeisti. Al contrario, “euroscettici” appaiono gli elettori del Movimento 5 Stelle e fortemente critici verso tutto ciò che riguarda l’Europa gli elettori del centrodestra guidato da Berlusconi.

     

    Fig. 1

     

    La Fig. 1 mostra l’incrocio tra il voto alle principali coalizioni e le risposte alla domanda: “Se domani mattina le annunciassero che l’Italia ha abbandonato l’Unione Europea, quale sarebbe la sua reazione?”. I dati mostrano come gli elettori della coalizione guidata da Bersani e quelli della coalizione guidata da Monti siano i più europeisti: il 78,6 % degli elettori centristi e l’82,1% degli elettori del centrosinistra dichiarano che sarebbero molto dispiaciuti se l’Italia abbandonasse l’Unione Europea. Al contrario i più “euroscettici” sembrano essere gli elettori del Movimento 5 Stelle e i più anti Ue gli elettori della coalizione guidata da Berlusconi.  Tra gli elettori del centrodestra ben il 38,7 % dichiara che proverebbe un grande sollievo se l’Italia uscisse dall’Unione Europea e il 10,4% sarebbe abbastanza indifferente. Tra gli elettori del Movimento 5 Stelle il 22,8% sarebbe contento se l’Italia uscisse dall’Unione Europea, il 16,5% sarebbe abbastanza indifferente e l’11,1% non sa o non risponde (una percentuale nettamente al di sopra della media).

     

    Fig.2

     

    La Fig. 2 mostra l’incrocio tra il voto alle principali coalizioni e le risposte alla domanda: “Per affrontare efficacemente le questioni più importanti dei prossimi anni, quale pensa che sia la soluzione migliore?”. In totale a questa domanda il 56,4% (la maggioranza assoluta) risponde che è necessario mantenere la sovranità del proprio paese, anche se ciò può limitare il potere decisionale in Europa, mentre il 37,2% dice che è opportuno rafforzare i poteri decisionali dell’Europa, anche a costo di ridurre la sovranità del   proprio paese (il 6,3% non sa o non risponde). Se si guarda però al profilo degli elettori delle diverse coalizioni si nota come ci siano delle nette differenze. I difensori della sovranità nazionale tra gli elettori della coalizione guidata da Berlusconi sono ben il 73,4% e tra gli elettori del Movimento 5 Stelle sono il 59,7%. Tra gli elettori della coalizione guidata da Bersani si nota invece un maggiore equilibrio: il 49,4% difende la sovranità nazionale, il 45,1% è favorevole a un rafforzamento dei poteri decisionali dell’Europa. Infine, gli elettori della coalizione guidata da Monti sono i più europeisti: il 49,4% (la maggioranza relativa) è a favore di un rafforzamento dei poteri decisionali dell’Europa, mentre il 36,5% è per il mantenimento della sovranità nazionale.

    Fig.3

     

     La Fig.3 mostra l’incrocio tra il voto alle principali coalizioni e le risposte alla domanda: “Lei pensa che l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’Ue?”. Anche in questo caso gli elettori delle principali coalizioni mostrano dei profili contrapposti, con gli elettori di Bersani e Monti che mostrano il profilo più europeista e gli elettori di Berlusconi che mostrano il profilo più critico  nei confronti dell’Unione Europea. Infatti, coloro che pensano che l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’Ue sono il 69,6% tra gli elettori del centrosinistra e il 71,2% tra gli elettori centristi, mentre coloro che ritengono il contrario sono il 53,2% (la maggioranza assoluta) tra gli elettori del centrodestra. Gli elettori del Movimento 5 Stelle mostrano un profilo più equilibrato: coloro che ritengono che  l’Italia abbia beneficiato della sua appartenenza all’Ue sono la maggioranza relativa (46,9%), una percentuale tuttavia nettamente inferiore rispetto alla media (57,3%).

    Infine, nelle Fig. 4 e 5 abbiamo incrociato il voto alle principali coalizioni con due possibili paure legate all’integrazione europea: la paura di una minore protezione sociale in Italia e il timore di perdere la nostra identità e cultura. Nel primo caso si conferma quanto visto finora: tra gli elettori della coalizione di centrodestra e del Movimento 5 Stelle coloro che sono spaventati dal processo di integrazione europea costituiscono una netta maggioranza. Tra gli elettori delle coalizioni di Bersani e Monti gli “spaventati” sono una minoranza (anche se consistente). Il dato più interessante lo riscontriamo invece a proposito del timore di perdere la nostra identità e cultura. Ancora una volta gli elettori del centrodestra si mostrano come i più spaventati (67,3%), seguiti dagli elettori del Movimento 5 Stelle (57%). Gli elettori del centrosinistra sono invece i meno spaventati (35,2%). La novità emerge tra gli elettori di Monti, solitamente pro Europa in maniera chiara come abbiamo visto in precedenza. In questo caso, tra gli elettori centristi, coloro che hanno paura di perdere la nostra identità e cultura in seguito all’integrazione europea sono il 48,5% (contro il 48,2% che non ha paura). Probabilmente ciò è dovuto al fatto che tra gli elettori centristi c’è una forte componente cattolica sensibile al mantenimento della propria identità culturale.

    Fig. 4

     

    Fig. 5