Collegio uninominale o premio di maggioranza? Dopo il fallito tentativo di tornare al proporzionale, se una riforma elettorale si farà, cosa poco probabile, la scelta cadrà tra un sistema con una quota consistente di collegi uninominali e un altro con premio di maggioranza. Il primo sarebbe simile alla legge Mattarella del 1993, il secondo alla legge Calderoli del 2005. Entrambi rafforzerebbero una delle caratteristiche distintive della Seconda Repubblica e cioè l’incentivo per i partiti a formare coalizioni prima del voto per massimizzare le probabilità di vittoria. Rispetto al sistema attualmente in vigore entrambi aumenterebbe la probabilità che le elezioni determinino un vincitore con una maggioranza assoluta di seggi e quindi decidano chi governa.
Ma ci sono differenze importanti tra collegio
e premio. La prima sta nella natura delle coalizioni pre-elettorali. Con il
collegio i partiti sono ‘costretti’ a scegliere candidati comuni, collegio per
collegio, e a dividersi le candidature in base alla loro forza relativa. In un
sistema molto frammentato come il nostro la scelta di candidati unitari e la
spartizione dei collegi sono operazioni complicate e conflittuali. Con il
premio tutto questo non è necessario.
Ogni partito della coalizione si presenta con il suo simbolo e con la
sua lista di candidati. Gli elettori votano il partito, il candidato e la
coalizione insieme. È tutto più semplice e rispettoso della autonomia dei
singoli contraenti il patto di coalizione. Per questo ci sentiamo di dire che
in questa fase storica, e in questo contesto multipartitico, un sistema
elettorale a premio di maggioranza sia più adatto al nostro paese rispetto sia
al sistema attuale che a un sistema con una quota più consistente di collegi
uninominali. Non è un caso, come andiamo ripetendo da tempo, che questo è il tipo
di sistema con cui abbiamo assicurato una decente stabilità nei comuni e nelle
regioni a partire dal 1993.
L’ altra differenza importante tra collegio e premio sta nell’effetto disproporzionale associato all’uno e all’altro. Entrambi sono sistemi capaci di trasformare una maggioranza relativa di voti in maggioranza assoluta di seggi. Sia la legge Mattarella che la legge Calderoli lo hanno fatto fino al terremoto prodotto dal M5s nel 2013. Ma lo fanno in modo diverso. Con il premio di maggioranza l’effetto disproporzionale ha un limite predeterminato. A chi vince viene assegnato un premio in seggi tale da farlo arrivare- diciamo- al 55%. Se la soglia in termini di voti per far scattare il premio è posta al 40% e la coalizione con più voti arriva al 48% il premio è di 7 punti percentuali. Se invece la coalizione vincente prende il 40% di voti il premio è di 15 punti. E questo è il premio massimo.
Con il collegio uninominale non ci sono massimi. Più alta è la quota di collegi prevista dal sistema, maggiore è il potenziale di disproporzionalità, e quindi maggiore è il premio in seggi che va al vincente. Due esempi nostrani: nel 1994 alla Camera con il 37,7% dei voti i Poli di Berlusconi presero il 61,8% dei seggi maggioritari; nel 2001 la Casa delle libertà al Senato con il 42,5% dei voti ottenne il 65,5% dei seggi. Il risultato finale fu diverso perché la legge Mattarella prevedeva il 25% di seggi proporzionali e lo scorporo. Ma la disporporzionalità prodotta dai collegi uninominali è un fatto. E potremmo continuare con esempi francesi e inglesi.
Nel contesto frammentato in cui ci troviamo
non è possibile prevedere quale sarebbe l’esito del voto con un sistema come
quello francese che piace a molti o anche solo con un sistema con più collegi
uninominali rispetto al Rosatellum in vigore oggi, come piace a Letta. Quello
che si può dire è che entrambi potrebbero generare una maggioranza molto ampia
per chi vince e questo accadrebbe con certezza a favore del centro-destra se
per esempio Pd e M5s non si alleassero. Una maggioranza tanto ampia grazie alla
quale l’elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e della
Consulta spettanti al Parlamento non dovrebbe essere concordata con
l’opposizione.
Ma quale sistema a premio di maggioranza? Chi
scrive è da tempo convinto che il migliore sia un sistema a due turni. Il
secondo turno però non piace a tutti. Ma una soluzione di compromesso ci
sarebbe. È un sistema in cui il premio viene assegnato alla coalizione che prende
più voti al primo turno a patto che arrivi almeno al 40%. Il secondo turno scatterebbe solo se nessuna
delle coalizioni in campo arrivasse al 40%. Anche così il sistema potrebbe
funzionare. Sarebbe comunque un modo per dare una maggioranza assoluta di seggi
a chi ottiene più voti utilizzando sia le prime che le seconde preferenze degli
elettori.
L’Italia
ha bisogno di uscire dalla trappola della instabilità dei governi. Senza
governi stabili non riusciremo a fermare il declino. Un buon sistema elettorale
non è una condizione sufficiente per raggiungere l’obiettivo ma è un
ingrediente essenziale.
Virginia Raggi potrebbe essere rieletta sindaco di Roma. Per due motivi. Il primo è che il centro-destra non ha un candidato competitivo. In un articolo recente su questo giornale abbiamo ipotizzato che il candidato della coalizione Lega-Fdi-Fi potesse essere Bertolaso. Tra tutti i nomi che sono stati fatti è quello più noto. Ma Bertolaso ha già detto di non essere interessato. Sulla sincerità di questa affermazione abbiamo qualche dubbio. Abbiamo meno dubbi su fatto che Bertolaso non sia il candidato preferito di Giorgia Meloni.
A Roma Fratelli d’Italia è il primo partito
del centro-destra. Nel sondaggio Winpoll-Sole24Ore la stima è 22,8%. Nei comuni
si vota con un sistema che ‘obbliga’ i partiti affini a mettersi d’accordo su
candidati comuni. Solo così possono massimizzare le probabilità di vittoria. Il
corollario è la spartizione delle candidature tra i soci della coalizione: un
posto a te, un posto a me. È il caso delle elezioni del prossimo autunno che
vedono coinvolti molti comuni, tra i quali alcuni capoluoghi importanti. Nella
spartizione concordata tra Fdi, Lega e Fi Roma spetta al partito della Meloni. E
Bertolaso non vi appartiene. Al momento Fdi non ha candidati competitivi da
contrapporre alla sindaca uscente. Ma i giochi non sono ancora conclusi. C’ è
tempo. Però, se Fdi insisterà su un suo candidato, e questo non fosse
competitivo, la Raggi vedrà soddisfatta la prima condizione per essere rieletta.
La seconda condizione è interna al
centro-sinistra. Al momento i candidati in campo sono due: Raggi e Calenda. Il
Pd potrebbe decidere di appoggiare uno dei due. Ma è improbabile. Quindi ci
sarà anche un Mister X del Pd. Solo uno dei tre potrà andare al ballottaggio. A
disposizione hanno il 65-70% dei voti. L’altro 30-35% andrà al candidato del centro-destra.
Infatti, messi insieme i suoi partiti valgono a Roma più del 40%. Come si
dividerà il pacchetto di voti destinato ai tre candidati del centro-sinistra? Chi
prenderà un voto più degli altri?
Se il Mr. X del Pd fosse Zingaretti, il biglietto
vincente per il ballottaggio lo pescherebbe probabilmente lui con una
percentuale superiore al 25%. Fino ad oggi però Zingaretti ha negato di voler candidarsi.
Nel suo rifiuto giocano diversi fattori compreso probabilmente una punta di
risentimento nei confronti del suo partito per le note vicende legate alla
crisi del Conte II. Con Zingaretti in campo le possibilità della Raggi di
andare al ballottaggio si ridurrebbero di molto.
Se invece di Zingaretti il Mr. X del Pd fosse
Gualtieri, per la Raggi la partita sarebbe aperta. Non si può escludere infatti
che possa avere un pacchetto di voti superiore a quello di Gualtieri e di
Calenda. Nonostante il fatto che il suo partito, il M5s, sia stimato intorno al
14%, la sua base di consensi è più ampia, diciamo intorno al 25%. Con un po’ di
fortuna potrebbe essere sufficiente. E una volta al ballottaggio il gioco è
fatto. Potrebbe essere rieletta, nonostante che solo il 30% dei romani pensi
che abbia fatto un buon lavoro some sindaco.
In conclusione, se Zingaretti non si presenta,
solo un accordo tra il Pd e Calenda potrebbe fermare con certezza la Raggi.
Altrimenti sarà una lotteria cui la Raggi intende fermamente partecipare perché
ha capito che ha qualche possibilità di farcela a dispetto dei santi. E lo
stesso vale per Calenda.
Le prossime elezioni comunali a Roma potrebbero nascondere un paradosso. È quello che emerge dai dati del sondaggio Winpoll-Sole24Ore. In questo momento i candidati che potrebbero presentarsi alle elezioni sono quattro, anche se i loro nomi non sono tutti noti: Raggi, Calenda, un candidato del Pd, un candidato del centro-destra. In queste condizioni, e chiunque siano i candidati ancora ignoti, si può dire con certezza che nessuno vincerà al primo turno. Il sindaco di Roma verrà eletto al ballottaggio. Ma lì bisogna arrivarci e i posti a disposizione sono solo due. Ed è qui che si nasconde il paradosso.
In un contesto quadripolare come quello che potrebbe
prospettarsi, con quattro candidati relativamente forti, occorre poter contare
su una base di sostegno intorno al 25% per sperare di arrivare al ballottaggio.
Stando così le cose, nel centro-sinistra il passaggio al secondo turno sarebbe
una sorta di lotteria. Il biglietto vincente potrebbe andare a uno qualunque
dei tre candidati in corsa -la sindaca uscente, il candidato del Pd e Calenda- che
oggi sono più o meno sullo stesso piano. Solo uno di loro potrebbe andare al
secondo turno, visto che è impensabile che, chiunque sia il candidato unico del
centro-destra, non ottenga uno dei due posti disponibili al ballottaggio. Tra
Raggi, Calenda e il mister x del Pd chi sarebbe il fortunato vincitore della
lotteria?
Se il candidato del Pd fosse Zingaretti è probabile che il biglietto vincente lo peschi lui. I nostri dati dicono che è quello messo meglio. Ma il punto è che la cosa non è del tutto sicura. Sia la Raggi che Calenda possono contare su un consenso non lontano dal 25%. Anche la Raggi, nonostante che solo il 30% degli intervistati pensi che abbia governato bene e solo il 28% ne ha fiducia. Ma anche un dato così basso che certamente non basta per vincere è pur sempre una base per puntare al ballottaggio. Per questo il passaggio al secondo turno sarebbe una lotteria. E la lotteria potrebbe trasformarsi nel paradosso. Questo perché, se fosse la Raggi a pescare il biglietto vincente, i nostri dati mostrano che sarebbe destinata a perdere mentre Zingaretti e Calenda avrebbero migliori possibilità di vincere.
Per esplorare questo punto abbiamo testato quattro ipotetici ballottaggi. In assenza di un candidato certo del centro-destra, cui opporre i diversi candidati del centro-sinistra, abbiamo scelto quello che appare come il candidato potenzialmente più forte anche se per ora si è tirato fuori dalla corsa, e cioè Bertolaso. L’assunzione che facciamo è che se i candidati del centro-sinistra fossero in grado di sconfiggere Bertolaso potrebbero vincere ancora più facilmente contro candidati meno conosciuti e meno forti di lui, per esempio Rampelli o Abodi. Il risultato delle quattro sfide mostra che Calenda e Zingaretti sono i due candidati più forti del centro-sinistra, e potenzialmente vincenti, mentre Gualtieri potrebbe non vincere (Figura 1). Di certo non vincerebbe la Raggi. D’Altronde, non sorprende che un sindaco uscente che raccoglie un giudizio così sfavorevole sul suo operato sia un candidato vulnerabile.
Fig. 1 – Simulazione esiti ballottaggi
In sintesi, sia Zingaretti che Calenda sono candidati competitivi. Il primo più del secondo. Il diagramma di Venn ci dice che l’appeal di Zingaretti è più trasversale di quello di Calenda (Figura 2). È gradito anche agli elettori del M5s mentre, come si vede nel diagramma l’elettorato potenziale della Raggi e quello di Calenda non si sovrappongono affatto, e si capisce il perché. Il leader di Azione in compenso ha più appeal tra gli elettori di centro-destra. Però il minor sostegno che riceverebbe da parte dei Cinque Stelle al ballottaggio rende la sua elezione più incerta di fronte ad un candidato forte del centro-destra.
Fig. 2 – Sovrapposizione degli elettorati dei diversi candidati
Zingaretti dunque dovrebbe essere il candidato del
centro-sinistra, con o senza il sostegno del M5s al primo turno. Ma non è
semplice per il governatore del Lazio lasciare la carica che occupa nel bel
mezzo della pandemia per fare il sindaco di Roma. Allora Gualtieri? Ma ce la
farà ad arrivare al ballottaggio? E se invece passasse la Raggi? Sarebbe un bel
pasticcio per il Pd. Certo, se si ritirassero sia Calenda che la Raggi tutto
sarebbe più semplice. Basterebbe anche che si ritirasse uno dei due. Ma per ora
non è così. Quanto a Calenda in particolare, la domanda da fargli è questa:
come può aspettarsi che il Pd ne appoggi la candidatura a Roma in competizione
con la Raggi, o anche senza la Raggi in campo, senza avere una contropartita a
livello nazionale? Letta punta a costruire la più ampia coalizione possibile
per rendere il centro-sinistra competitivo e comprenderà anche il M5s. Azione
ne farà parte o no? Insomma, per Calenda Roma vale o no una messa con i Cinque
Stelle alle prossime politiche?
Nel panorama politico italiano i cambiamenti non finiscono mai. È cosa nota. Il nostro è un sistema politico che non ha ancora trovato un suo punto di equilibrio dopo il terremoto generato dall’arrivo sulla scena del M5s. Ma è anche vero che non mancano elementi di continuità. Uno di questi è la distribuzione delle preferenze politiche a livello territoriale. Lo conferma il sondaggio Winpoll-Sole24Ore dedicato proprio a questo tema. La dimensione del campione su cui si basa il sondaggio ci consente infatti di disaggregare le intenzioni di voto per grandi aree geografiche. Il risultato è che l’Italia è ancora oggi grosso modo divisa in tre parti che continuano ad avere caratteristiche distintive, anche se non così marcate come in passato (Tabella 1).
Tab. 1 – % intenzioni di voto per area, per partito e per blocchi, centrodestra e centrosinistra
Italia
Nord
Ex Zona Rossa
Sud
Lega
22,2
28,8
20,6
15,5
Fdi
19,1
15,7
19,4
24,2
Fi
6,7
6,6
5
8
CD
48
51,1
45
47,7
Pd
20,1
18,7
24,3
18,2
M5s
14,1
10,2
12,3
23,4
Azione/+Europa/IV
6,1
6,5
8,1
5,6
Leu/Verdi
4,3
4
5,6
4
CS
44,6
39,4
50,3
51,2
Il centrodestra
domina il Nord
Il Nord continua ad essere il dominio del centrodestra. La
debolezza del centrosinistra in questa area, soprattutto nel Nord Est, è un
dato storico. E continua ad essere la vera ragione della sua difficoltà a
governare il paese. Nelle regioni del Nord durante tutta la Seconda Repubblica
il centrodestra è sempre stato lo schieramento di maggioranza relativa. Una
volta lo guidava Berlusconi. Oggi la leadership è passata alla Lega di Salvini
che con il suo 28,8% sopravanza il Pd di dieci punti. Tutto insieme il
centrodestra è sopra il 50%. È tornato sui livelli pre-M5s, pur con una
configurazione diversa. Il centrosinistra continua a non essere competitivo anche
con l’aggiunta del M5s, che dal picco del 23,7% del 2018 si attesta oggi
intorno al 10,2%. In questa zona il cambiamento oggi è rappresentato da Fdi che
dal 5,9% delle Europee passa al 15,7%. Alleanza nazionale, ai suoi tempi d’oro,
non era mai riuscita ad andare oltre l’11% in questa parte del paese. La Lega
resta lontana ma il Pd no.
La zona rossa è
sempre più ‘ex’
Nelle quattro regioni della ex zona rossa è ancora in testa
il centrosinistra con il Pd stimato al 24,3%, ma il suo primato si è eroso
negli ultimi anni. Basti pensare che prima del terremoto politico del 2013 la
distanza tra i due poli di allora era superiore ai dieci punti. Oggi si è dimezzata.
A differenza di quanto è successo al Nord dove il Pd non è cresciuto, qui sono
cresciuti molto sia Lega che Fdi. La supremazia del centrosinistra in questa
zona è da tempo pericolante, come dimostrano i numerosi casi di elezioni
comunali e regionali perse da Pd e alleati
Il Sud tra M5s e Fdi
Il Sud continua ad essere il dominio della incertezza. Questa
è sempre stata la zona del paese più volatile anche se tendenzialmente più
orientata a destra che a sinistra. È qui che il M5s ha registrato nel 2018 il
suo successo più clamoroso arrivando a prendere il 43% dei voti e oltre l’80%
dei seggi uninominali. Alle Europee del 2019 era già sceso al 26,6%. La nostra
stima lo dà oggi al 23,4%. È ancora un buon risultato ma non sufficiente a
farne il primo partito. Lo sopravanza Fdi con il 24,2%. È la prima volta che un
partito di destra è il maggior partito al Sud. Bene anche la Lega di Salvini
(15,5%) che pur non arrivando al 25,5% delle Europee conferma di aver messo
radici in questa parte del paese.
Letta come Prodi?
Passando dai dati per area a quelli nazionali, colpisce la
distanza di soli quattro punti tra centrodestra e centrosinistra. È un dato
simile a quello di altri sondaggi recenti. A fare la differenza è il Nord,
visto che nelle altre due zone il centrosinistra è in vantaggio. Ma la vera
differenza tra i due schieramenti non è nei numeri ma nella loro composizione. Il
centrosinistra è più frammentato e meno coeso. La sommabilità degli elettorati
delle sue varie componenti è più incerta. Anche questa è una storia vecchia. Le
due coalizioni con cui Prodi ha vinto nel 1996 e nel 2006, e cioè L’Ulivo e
L’Unione, comprendevano entrambe 14 componenti. E anche così vinse tutte e due
le volte per il rotto della cuffia e i suoi governi non durarono più di due
anni. Pare che il neosegretario del Pd Enrico Letta voglia resuscitare questa
strategia di ‘coalizioni acchiappatutti’. I partiti di oggi non sono quelli di
allora. Ma le difficoltà di una simile strategia rimangono. La distanza che
separa Leu da Calenda o Calenda dal M5s non sono facilmente colmabili. Né sarà
semplice far convivere il Pd di Letta e il M5s di Conte alla caccia degli
stessi elettori.
Salvini o Meloni?
Nel centrodestra le cose sono più semplici. I partiti sono
meno, la distanza che li separa è più gestibile e la loro convivenza è già
testata. Il problema in questo campo è quello dei rapporti tra Lega e Fdi. Recentemente
le posizioni dei due partiti si sono differenziate rispetto al governo Draghi e
di riflesso rispetto alla Unione Europea. Ma tra loro resta tutto sommato una
sintonia di fondo. Ed è un dato di fatto che l’uno ha bisogno dell’altro. Per
vincere sia a livello locale che a livello nazionale devono trovare un accordo.
E lo sanno. Questo li pone in un rapporto simbiotico di
cooperazione/competizione, non dissimile da quello che si sta creando tra il Pd
di Letta e il M5s di Conte. Devono cooperare per vincere le elezioni ma sono in
competizione per la leadership del loro schieramento e quindi per la guida del
governo.
Non era così fino a poco tempo fa. Il successo di Fdi e
della sua leader ha cambiato le carte in tavola nel centrodestra. Così come è
successo nel centrosinistra con la decisione di Conte di guidare il M5s. Il
distacco in termini di voti tra Lega e Fdi nel nostro sondaggio è di poco più
di tre punti. Il 59% dei nostri intervistati pensa ancora che alle prossime
elezioni Salvini vincerà la sfida, ma non è così scontato. Tanto più che
l’opposizione al governo Draghi mette il partito della Meloni nelle condizioni
di lucrare sul malcontento generato dalla gestione della crisi.
La quadriglia
bipolare
In sintesi, a partire dalle elezioni del 2018 il nostro
sistema partitico sembra strutturarsi in un formato che assomiglia vagamente
alla ‘quadriglia bipolare’ della prima fase della V Repubblica francese:
quattro partiti di medie dimensioni, due da una parte e due dall’altra dello
spettro politico affiancati da partiti minori collocati verso il centro. A
sinistra la pattuglia dei partiti personali di Renzi, Calenda e Bonino, a
destra Forza Italia. Gli uni e l’altro di ispirazione liberal-democratica.
Nessuno dei quattro partiti maggiori può vantare una chiara leadership nel
proprio schieramento. Non lo può fare il Pd di Letta nel centrosinistra dopo la
metamorfosi del M5s di Conte, né lo può fare la Lega di Salvini dopo la
crescita dei consensi di Fdi della Meloni. È una gara che vede quattro leader
in corsa con più o meno le stesse credenziali. Gli elettori di centrodestra
pensano che la debba vincere chi prende più voti. Ma non è detto che finisca
così. Le prossime elezioni potrebbero decidere la coalizione vincente, ma non
la guida del governo.
Ci vuole coraggio a riproporre in piena pandemia la questione della riforma elettorale. Enrico Letta lo ha fatto ben sapendo che il tema non è in cima alle priorità degli italiani. Ma ha fatto bene. Finché non si troverà il modo di stabilizzare i governi nazionali, come è stato fatto per quelli comunali e regionali, l’Italia non arresterà il declino. Non volendo cambiare la forma di governo o modificare la costituzione lo strumento da usare è il sistema elettorale.
Attualmente è in vigore sia alla Camera che al Senato un
sistema misto ma prevalentemente proporzionale, la legge Rosato. Circa due
terzi dei seggi sono assegnati con formula proporzionale e un terzo in collegi
uninominali dove vince il candidato che prende un voto più degli altri. La
proposta di Letta è quella di incrementare la quota di collegi uninominali. Da
quello che sembra di capire vorrebbe resuscitare la vecchia legge Mattarella,
cioè il sistema elettorale con cui si è votato nelle elezioni del 1994, 1996 e
2001, la stagione dell’Ulivo. Nella sostanza Letta punterebbe a un sistema con
una componente maggioritaria molto più robusta dell’attuale. La Mattarella
prevedeva il 75% di collegi uninominali sia alla Camera che al Senato. Per il Pd
si tratta di una svolta radicale rispetto al progetto che giace ancora in
Parlamento per un ritorno a un sistema interamente proporzionale seppur
corretto da una soglia di sbarramento. E questa è una buona notizia, visto che
l’Italia in questa fase storica non ha bisogno di sistemi proporzionali da
Prima Repubblica.
La cattiva notizia è che difficilmente la proposta di Letta
raccoglierà molti consensi.
L’unico partito disposto ad accettarla è la Lega di Salvini.
E si capisce, vista la sua forza nel Centro-Nord. Dentro lo stesso Pd
prevalgono le perplessità. Infatti con un sistema elettorale con una prevalenza
di collegi uninominali il Pd rischierebbe di vincere pochissimi seggi nel Nord
del Paese. Nel 1994 il centrosinistra ne vinse 14 su 180, nel 2001 furono 38 su
180 (senza contare il caso particolare del Trentino-Alto Adige). Ne vinse di
più nel 1996 ma solo perché il centrodestra era diviso. Eppure anche in quella
elezione, l’unica vinta dall’Ulivo di Prodi, la vittoria fu risicata e fu un
‘regalo’ di Pino Rauti. Oggi il Pd avrebbe un ulteriore problema al Sud. Dando
per scontato che Pd e M5s si alleino a livello nazionale prima del voto (se non
lo facessero il centrodestra farebbe il pieno dei collegi) e presentino
candidati comuni, il M5s, che ha il suo unico punto di forza nelle regioni
meridionali, ne reclamerebbe probabilmente la fetta maggiore. Al Pd
resterebbero soprattutto i collegi dell’Emilia Romagna e della Toscana e
qualche collegio a Est del Ticino.
I collegi uninominali sono una buona cosa ma non sono adatti al nostro paese in questa fase. Data la distribuzione asimmetrica dei consensi sul territorio nazionale l’esito del voto finirebbe con l’essere troppo disproporzionale anche per uno come il sottoscritto che ritiene la disproporzionalità necessaria per favorire la governabilità. La Figura 1 è molto indicativa a questo proposito. Fa vedere come si sono distribuite in maniera squilibrata tra gli schieramenti le vittorie nei collegi uninominali nelle quattro elezioni in cui sono stati utilizzati. Con la legge Rosato alle prossime elezioni andrà più o meno allo stesso modo. I Cinque Stelle non vinceranno certamente l’83% dei seggi uninominali al Sud ma il centrodestra farà probabilmente il pieno dei collegi nel Nord.
Fig. 1 – Come hanno funzionato il Mattarellum e il Rosatellum nei collegi uninominali della Camera nelle elezioni del 1994,1996,2001(Mattarellum) e 2018 (Rosatellum), % seggi per coalizioni e per zone. Fonte: cise.luiss.it
Oggi il sistema più adatto è un sistema proporzionale con
premio di maggioranza a un turno o-meglio ancora-a due turni. Non è un caso che
questo sia il tipo di sistema adottato nei comuni e nelle regioni. Agli
elettori piace. E piace a sindaci e governatori eletti che durano in carica,
nella stragrande maggioranza dei casi, cinque anni e possono dimostrare quello
che sanno fare, avendo a disposizione un arco di tempo congruo per poter essere
giudicati. Inoltre sistemi di questo genere generano una disproporzionalità
limitata e non casuale. In breve producono un mix soddisfacente tra
governabilità e rappresentatività.
La riforma di Calderoli del 2005 e quella di Renzi del 2015
andavano in questa direzione, ma avevano dei difetti. Tenendo conto dei rilievi
fatti dalla Corte Costituzionale nelle sue due sentenze su quelle leggi
elettorali si potrebbe battere di nuovo quella strada. Ma restiamo scettici sul
fatto che si riesca a coagulare un consenso sufficiente per fare approvare una
nuova legge elettorale prima delle prossime elezioni. L’ipotesi di gran lunga
più probabile è che si voti con il sistema attualmente in vigore. È meglio di
quello che Pd e M5s volevano introdurre fino a qualche settimana fa, ma non è
il migliore dei sistemi possibili.
Dopo la decisione del collegio elettorale dello scorso 14 dicembre resta un ultimo atto prima che Joe Biden sia proclamato ufficialmente presidente. Il 6 Gennaio la Camera dei rappresentanti e il Senato in una sessione congiunta dovranno ratificare il risultato dei cinquanta stati della federazione, uno per uno. Sono cinquanta certificati elettorali che i rappresentanti e i senatori eletti lo scorso 3 Novembre possono accettare o contestare. Prima di Trump era un atto solenne ma formale. Il 6 gennaio potrebbe non esserlo
Diciamo subito che non esiste nessuna concreta possibilità
che il risultato deciso in sede di collegio elettorale venga rovesciato. Ma
questo ultimo atto, prima della inaugurazione del nuovo presidente il 20
gennaio, rappresenta per Trump e i suoi sostenitori una sede ideale per
riaffermare ancora una volta in modo clamoroso la tesi che l’elezione di Biden
sia illegittima e per fare in modo che il GOP continui a essere il partito di
Trump anche dopo la sua uscita dalla Casa Bianca. Con quali conseguenze per il
partito e per la democrazia americana è difficile prevedere oggi.
La Costituzione americana dice poco su questo ultimo atto.
Si limita ad affermare che spetta al Presidente del Senato aprire i certificati
trasmessi dagli stati e contare i voti.
Solo nel 1887 con il passaggio dell’Electoral Count Act il
ruolo del Congresso è stato specificato. Per contestare uno qualunque dei
certificati elettorali trasmessi dagli stati occorre che la ratifica sia messa
in discussione congiuntamente da un membro della Camera e da un membro del
Senato. In questo caso ciascun ramo del Congresso dovrà riunirsi e avrà due ore
di tempo per decidere se approvare o meno il risultato dello stato in
questione. Perché il risultato sia rigettato occorre che Camera e Senato siano
d’accordo. Nel passato è accaduto che singoli membri di una delle due camere
abbiano sollevato obiezioni. Ed è anche accaduto- l’ultima volta nel 2005- che
un deputato e un senatore abbiano agito di comune accordo. Ma sono stati atti
senza conseguenze.
Sul piano sostanziale anche il 6 Gennaio non ci saranno
conseguenze. Infatti, anche se tutti i senatori repubblicani, che -dopo il voto in Georgia- potrebbero essere ancora in
maggioranza, si esprimessero contro la ratifica, il loro voto non avrà alcun
effetto, visto che i democratici controllano la Camera. Quindi è certo che il Congresso approverà la
decisione del collegio elettorale e alla fine del conteggio dei 50 certificati
il presidente del Senato Pence dichiarerà ufficialmente- forse con qualche
imbarazzo- Joe Biden presidente degli Stati Uniti.
Ma l’importanza di quanto avverrà il 6 gennaio non sta nella
formalizzazione della elezione di Biden che, come abbiamo detto, è scontata ma
nella posizione del partito repubblicano nel caso in cui Camera e Senato siano
chiamati a votare su uno o più certificati elettorali. Come voteranno deputati
e senatori repubblicani? A favore della ratifica e quindi riconoscendo la
correttezza della elezione di Biden o contro avvalorando le tesi di Trump e la
sua strategia di delegittimazione del processo elettorale? Fino a oggi non si
sono trovati davanti a una scelta così netta. C’è chi ha appoggiato Trump in
maniera decisa e chi lo ha fatto tiepidamente e c’è anche chi è stato
semplicemente in silenzio. Il 6 Gennaio dovranno scegliere tra fedeltà a Trump
e attaccamento alle istituzioni.
Che probabilità ci sono che si arrivi a votare per rigettare
o meno il voto di uno o più stati? Si sa
già che un gruppo di eletti repubblicani alla Camera, guidati da
Mo Brooks deputato dell’ Alabama, hanno
intenzione di impugnare il risultato di cinque stati. Ma da soli non possono
farlo. Devono trovare un collega al Senato che firmi insieme a loro la
richiesta. La sorpresa di questi giorni è che il leader del partito repubblicano al Senato Mitch
McConnell, che dal 3 Novembre in poi aveva sempre sostenuto tutte le mosse di
Trump, ha deciso di riconoscere l’elezione di Biden e si sta dando da fare per
convincere i suoi colleghi senatori a non appoggiare l’iniziativa dei
repubblicani della Camera.
McConnell è un trumpiano, ma non è uno sprovveduto. Ha
capito il pericolo che uno scontro frontale il 6 Gennaio rappresenta per il suo
partito. È facile immaginare che un voto del genere potrebbe rappresentare un passo
ulteriore nella definitiva trasformazione del GOP nel partito di Trump ovvero potrebbe
spaccarlo irrimediabilmente. Per questo vuole evitare questa ultima sfida al
processo elettorale da cui Trump è uscito sconfitto. Così facendo mostra un
coraggio inaspettato, visto che sa bene che il presidente uscente ha dalla sua
la grande maggioranza degli elettori repubblicani del tutto convinti che Biden
abbia vinto grazie a frodi massicce. Ma a ben vedere non è tanto il coraggio
che lo guida, ma il calcolo razionale. McConnell è un politico di lungo corso
che cerca di limitare i danni in attesa che passi la nottata.
Tra pochi giorni si vedrà come andrà a finire. Non c’è
dubbio che ci siano senatori repubblicani sensibili al richiamo dell’ultima
sfida. E ci sono pochi dubbi che Trump cambi idea prima del 6 Gennaio. Perciò
anche questo ultimo atto del lungo e farraginoso processo di selezione del
Presidente USA servirà a capire cosa possano aspettarsi Joe Biden e la
democrazia americana nel prossimo futuro.
Ancora una volta tanto rumore per nulla. Periodicamente si torna a parlare di crisi di governo e di possibili elezioni anticipate senza tener conto della realtà. Sono i numeri a dirci che l’ipotesi di elezioni prima del 2023 è del tutto infondata. È vero che i numeri sottendono comportamenti razionali e gli umani, compresi i politici che siedono in Parlamento, spesso non lo sono. Ma quando si tratta di convenienze politiche ed economiche chiaramente definite è difficile che le emozioni sostituiscano il calcolo razionale. E questo è proprio il caso dell’analisi costi-benefici applicata alla eventuale decisione da parte della maggioranza degli attuali deputati e senatori di far cadere il governo da cui dipendono la loro sopravvivenza politica e, per molti di loro, la fortuna economica.
I numeri di cui parliamo sono quelli che si vedono nella Tabella 1.
Tab. 1 – Composizione stimata del parlamento in caso di nuove elezioni. Fonte: cise.luiss.it.
Oggi siedono in Parlamento (eletti nel 2018) 339 grillini,
181 leghisti, 162 forzisti, 50 fratelli, 165 democratici, 18 liberi-uguali. Dal
2018 il quadro politico è cambiato radicalmente. Sono cambiati i rapporti di
forza tra i partiti come abbiamo visto alle Europee dello scorso anno, e come
ci dicono i sondaggi attuali. E poi c’è stato il referendum costituzionale con
cui gli elettori hanno approvato la riduzione dei componenti delle due camere.
La combinazione di questi due fattori incide pesantemente sulle prospettive
degli attuali deputati e senatori. E nel caso dei cinque stelle occorre
aggiungere anche un terzo fattore: il limite dei due mandati.
Quindi, fatti i calcoli sia in base ai voti delle europee
sia in base alla media dei sondaggi attuali l’unico partito destinato ad avere più
seggi, se si votasse oggi, sarebbe Fratelli d’Italia. Per la Lega la differenza
in meno sarebbe modesta. Per tutti gli altri le elezioni sarebbero un disastro.
In particolare per il M5s e per Forza Italia. Il primo passerebbe dagli attuali
339 rappresentanti a poco più di 100. La seconda passerebbe da 162 a 55. Sono
calcoli fatti utilizzando il sistema elettorale proporzionale in discussione in
parlamento. Se utilizzassimo l’attuale sistema elettorale, la legge Rosato, le
cose per i partiti di governo molto probabilmente andrebbero anche peggio.
Quanto a Renzi (che oggi può contare su 30 deputati e 18 senatori), Calenda e
Bonino, non compaiono nelle nostre stime perché la clausola del 5% e la stima
della loro forza attuale li terrebbe fuori, a meno che non formino un cartello
allo scopo di superare la soglia.
Questo è il quadro. Sono stime, ma affidabili. E soprattutto
sono, a grandi linee, dati ben noti a chi siede alla Camera e in Senato oggi. È
plausibile che alla luce di questi dati ci sia una maggioranza di deputati e
senatori che voglia andare a votare sapendo che pochi di loro potrebbero
tornare in Parlamento? Non è
semplicemente razionale. La banale verità è che il taglio dei parlamentari ha
stabilizzato la legislatura. Questo è un Parlamento destinato a durare.
Scartata l’ipotesi ‘elezioni anticipate’ resta in piedi
l’ipotesi ‘nuovo governo’. L’attuale è un esecutivo debole dal punto di vista
della coesione dei partiti che lo compongono e delle competenze che ha messo in
campo, ma difficile da sostituire nonostante la sua intrinseca fragilità. In
altre circostanze sarebbe caduto da un pezzo. Ma oggi non è così. Lasciamo
perdere che una crisi in piena pandemia, che miri a sostituire un primo
ministro che tutto sommato gode ancora di un discreto grado di fiducia, sarebbe
incomprensibile a una buona fetta dell’elettorato. Quello che più conta è che
una crisi potrebbe sfociare in quelle elezioni anticipate che tanti non
vogliono. Per questo vale sempre la massima quieta
non movere. Teniamoci Conte e teniamoci gli emolumenti attuali, con
l’aggiunta della pensioncina che maturerà dopo quattro anni e mezzo di
legislatura. Questo è il ragionamento di tanti deputati e senatori. Che questo
coincida o meno con l’interesse del paese è una altra questione. E proprio
l’interesse del Paese in caso di aggravamento della crisi e di paralisi della
decisione politica potrebbe determinare uno sbocco inatteso con un governo
molto diverso dall’attuale. Naturalmente senza nuove elezioni.
Le elezioni presidenziali USA sono un puzzle e allo stesso tempo una lotteria. Donald Trump ha vinto nel 2016 per 77.744 voti (lo 0,06 % del totale nazionale). Per la precisione ha battuto Hillary Clinton in Michigan per 10.704 voti (lo 0,2%), nel Wisconsin per 22.748 (lo 0,6%) e in Pennsylvania per 44.292 (lo 0,7 %). Se la Clinton avesse conquistato questi tre stati, dove prima di lei avevano vinto Obama, Bush, Gore e suo marito, avrebbe ottenuto 278 grandi elettori contro i 260 di Trump e sarebbe diventata presidente. Domanda: è possibile che dopo quattro anni di presidenza Trump, con il Covid che ancora imperversa, con la disoccupazione al 7.9% Trump riesca a conservare un vantaggio così esiguo in questi tre stati? La domanda ha senso, ma la risposta non è semplice. Sono molti i fattori in gioco. I principali sono due: l’affluenza alle urne e quel peculiare meccanismo- il collegio elettorale-con cui si elegge il presidente.
Il puzzle del collegio
elettorale
Il presidente degli USA non viene eletto direttamente dal
popolo. Nel 2016, per la quinta volta nella storia del Paese, è stato eletto
con meno voti del suo rivale. Una delle poche cose sicure oggi è che Trump, se
vince, non avrà di nuovo la maggioranza del voto popolare. Attualmente il suo
distacco da Biden a livello nazionale si aggira tra gli 8 e i 10 punti. E su
questo è difficile che i sondaggi sbaglino di grosso. Ma è il collegio
elettorale l’arena in cui si decide chi vince. E per vincere occorre comporre
il puzzle in modo da arrivare a 270 voti su 538.
All’interno del collegio gli stati non pesano tutti allo stesso modo. Gli stati che contano sono quelli in cui il risultato è incerto. In molti casi invece la partita è già decisa prima ancora del voto. Non sono solo i sondaggi a dirlo, ma soprattutto i risultati storici. Come si vede nella mappa in Figura 1, in sette stati (più il Distretto di Columbia) è certo che vinca Biden. Nel caso di Trump gli stati sicuri sono dieci. Aggiungendo a questi gli stati in cui è probabile o molto probabile che vinca l’uno o l’altro dei due contendenti arriviamo a quaranta stati in cui le elezioni sono praticamente già decise. Sono anni che a Ovest del Mississippi si muove poco o nulla dal punto di vista elettorale. Nel 2016 Clinton ha vinto esattamente gli stessi stati in cui aveva vinto Obama nel 2012 e nel 2008. Lo stesso si può dire a proposito degli stati del New England tradizionalmente democratici o quelli del Sud tradizionalmente repubblicani.
Fig. 1 – Variazioni tra 2016 e 2012. Voti nel collegio elettorale
La novità di questo anno è che gli stati contendibili sono più del 2016. È un segno della crescente volatilità dell’elettorato legata anche ai mutamenti demografici. Non solo Michigan, Wisconsin, Pennsylvania sono in bilico, ma anche Arizona, North Carolina, Georgia e Texas che una volta invece erano stabilmente nel campo repubblicano. E poi ci sono gli stati ballerini come Nevada, Ohio e Florida. In totale fanno 181 grandi elettori su 538. È in questi stati che si gioca la partita. Per Trump si tratta di una partita ancora più difficile di quella del 2016. Contando gli stati in cui la vittoria dell’uno e dell’altro è certa o probabile, Biden parte con una base di 232 grandi elettori contro i 125 di Trump. Gli ne mancano 38 per arrivare a 270 e diventare presidente. Gli basterebbe vincere in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania dove è nettamente favorito. È in vantaggio, ma con un margine minore, anche in Florida dove nel 2016 Trump ha vinto con l’ 1,2%. Se Biden vincesse in questo stato pivotale, con i suoi 29 voti, gli basterebbe vincere solo in Wisconsin per arrivare a 271. Insomma le combinazioni del puzzle con cui Biden può vincere sono numerose, più numerose di quelle a disposizione di Trump. Potrebbe addirittura stravincere. Ma i sondaggi non sono a prova di errore. Questa volta però, Biden non dovrà fare i conti con un fattore che invece ha gravemente danneggiato Clinton: il voto disperso.
Il voto disperso
Il 2016 è stata una elezione particolare anche per la entità
del voto dato a candidati senza alcuna possibilità di successo. A livello
nazionale sei milioni di elettori hanno votato per il candidato del partito
Libertarian (Gary Johnson) o per la candidata dei Verdi (Jill Stein), il 4,4 % dei
voti validi. Nel 2012 per gli stessi candidati avevano votato circa 1.750.000
elettori, l’1,4%. Ma quello che più conta è stato il risultato di questi due
partiti in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. In tutti e tre questi stati i
loro voti sono stati molti di più del 2012 e hanno fatto la differenza. Alla
Clinton sarebbero bastati i voti dei Verdi per diventare presidente. L’entità
‘anomala’ del voto disperso è un chiaro segnale del fatto che, davanti a
candidati molto sgraditi come Trump e Clinton, una quota marginale ma decisiva
di elettori ha preferito votare figure terze. Questa volta il voto disperso
tornerà su valori ‘normali’. Il suo declino favorirà Biden che è un candidato
più gradito in assoluto rispetto alla Clinton e più gradito tra gli elettori libertari
e verdi. Ma un fattore che avrà un impatto ancora più decisivo sul voto sarà
l’affluenza alle urne.
Il rebus della affluenza
Nelle elezioni di medio-termine del 2018 i Democratici hanno
conquistato la maggioranza dei seggi alla Camera grazie a un aumento
eccezionale della affluenza. Tra le elezioni di medio-termine del 2014 e quelle
del 2018 è passata dal 41,9% al 53,4 %, secondo i dati del US Census Bureau. In
particolare sono andati a votare molti più giovani, più elettori appartenenti a
minoranze etniche e più abitanti dei centri metropolitani. Sono tutte categorie
che tendono a preferire il Partito Democratico. Il fenomeno potrebbe ripetersi
il 3 Novembre e decidere l’esito. A favore di questa ipotesi gioca anche il
fatto che, a differenza del 2016, il Partito Democratico oggi è unito nel
sostenere il suo candidato. I sostenitori di Bernie Sanders non amano
particolarmente Biden ma questa volta è molto probabile che non diserteranno le
urne. La voglia di battere Trump trascende le differenze ideologiche.
Ma quale sarà l’impatto della pandemia sulla affluenza e quindi
sul voto? È impossibile da prevedere. Per questo motivo i sondaggi devono
essere presi con ancora maggiore cautela. In tutti i paesi occidentali è
diventato difficile stimare i votanti ed è proprio questo il fattore principale
che rende meno affidabile la stima delle intenzioni di voto. La pandemia rende
tutto ancora più complicato. Però, il numero eccezionale di elettori che hanno
già votato, in persona o per posta, fa pensare che il Covid non deprimerà
l’affluenza. Al contrario, nonostante il Covid, queste elezioni, come quelle di
medio-termine del 2018, potrebbero stabilire un record di votanti. Per i
Democratici sarebbe una ottima notizia che renderebbe forse possibile anche la conquista
della maggioranza dei seggi al Senato.
La base elettorale di Trump e il
partito-setta
Trump non è particolarmente popolare (Figura 2). Non lo era nel 2016 e non lo è oggi. Nel corso della sua presidenza il giudizio positivo degli elettori sul suo operato è sempre stato intorno al 40%. Un valore basso, ma eccezionalmente stabile. Quello di Trump è un elettorato motivato e fedele. Nemmeno il Covid ne ha scalfito la fedeltà. Per il 56,6% degli elettori la sua gestione della pandemia è stata negativa. Ma non per i suoi elettori. Covid o no lo voteranno in maniera massiccia recandosi personalmente alle urne. Trump ha trasformato il Partito Repubblicano in una setta di cui lui è il guru indiscusso. Ed è proprio sulla mobilitazione della sua base che si fonda la sua strategia elettorale. Ma chi sono i suoi elettori?
Fig. 2 – Giudizio sull’operato di Trump
Sono prevalentemente elettori bianchi, soprattutto maschi e
senza laurea. Vivono più in piccoli centri o in zone rurali che nelle grandi
città. Sono religiosi, in particolare evangelici e contrari all’aborto.
Vogliono meno tasse, meno immigrati e uno stato meno invadente. Sono
affezionati alle loro armi. Vogliono un paese che pensa più ai propri interessi
che a coltivare alleati. Ma il loro numero non è sufficiente per far vincere il
loro capo. Trump ha vinto nel 2016 perché ha conquistato non solo il 90% degli
elettori che si auto-definiscono Repubblicani ma anche la maggioranza relativa
degli Indipendenti che sono circa il 40% dell’elettorato. È successo perché
Clinton era straordinariamente poco gradita e a Trump è stato concesso il
beneficio del dubbio. In fondo era l’uomo nuovo della politica americana.
Cosa è successo dal 2017 a oggi? Molti dati evidenziano
l’erosione della sua base elettorale. Percentuali marginali ma decisive di donne
bianche e di anziani sembrano averlo abbandonato a favore di Biden. Restano
straordinariamente fedeli i bianchi senza laurea che rappresentano il nocciolo
duro del suo consenso. Ma non bastano. Il voto degli Indipendenti sarà di nuovo
importante. La maggioranza di loro però non è soddisfatta di come il presidente
sta gestendo la pandemia. Non è una buona notizia per lui. E non c’è più la ‘antipatica’
Clinton a dargli una mano. Ma la storia non finisce qui.
Chi vincerà?
Il quadro che abbiamo tracciato fa pensare che Biden abbia una possibilità molto concreta di diventare presidente. Le probabilità sono a suo favore. Nate Silver del sito FiveThirtyEight le stima all’ 87%. Eppure, resta ancora il dubbio che una altra sorpresa possa essere dietro l’angolo. Come nel 2016. È vero che gli stati contendibili sono tanti e quasi tutti i sondaggi danno Biden in vantaggio. In particolare in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Ma non si tratta di un vantaggio decisivo, con l’eccezione del Michigan. E il fatto che i sondaggi di oggi, soprattutto a livello statale, siano di qualità superiore a quelli del 2016 non elimina completamente il dubbio. È vero anche che quest’ anno gli indecisi sono meno che nel 2016 e questo dovrebbe aumentare l’affidabilità dei sondaggi. Ma è anche vero che è difficile stimare quanti siano gli elettori di Trump ‘nascosti’, che i sondaggi non intercettano. Soprattutto è impossibile escludere del tutto che nella ultima fase della campagna elettorale non riaffiori prepotentemente tra gli elettori bianchi d’America, che sono ancora il 66 % della popolazione, quella rabbia che ha fatto vincere Trump nel 2016 e che è stata descritta in questi termini da P. Hart e D. McGinn: ‘un ampio settore della nostra società è profondamente, visceralmente arrabbiato… Le persone che hanno guidato questa rivoluzione non hanno nulla a che vedere con Washington, Los Angeles e New York. Non vanno da Starbucks, non mandano I loro figli all’università, né guardano i programmi di NPR. Fanno i loro acquisti da Wal-Mart, mangiano da McDonald’s, e si interessano più degli sport a scuola che delle partite di football professionale. I loro redditi stanno diminuendo e non hanno fondi pensione. Pensano che i loro genitori e i loro nonni hanno costruito questo paese. E martedì notte hanno urlato a gran voce che lo rivogliono indietro’.
Questa volta però l’urlo potrebbe non bastare al presidente
uscente per restare alla Casa Bianca. A decidere sarà l’affluenza al tempo del Covid. Se non lo
faranno le corti, o addirittura la Corte Suprema, come nel 2000. Speriamo di no.
Che impatto sulla tenuta del governo può avere l’esito delle prossime elezioni regionali e del referendum costituzionale? L’ipotesi più accreditata è che un collegamento ci sia. Quindi che il governo rischi. La nostra tesi è che indipendentemente da cosa succederà il 21 Settembre il governo Conte continuerà a sopravvivere. Tutt’al più potrebbe esserci un rimpastino.
Perché scoppi una crisi di governo occorre che
o il Pd o il M5s o Italia Viva decidano di mettere fine alla attuale alleanza. In
teoria la crisi potrebbe essere il risultato dello sfaldamento della esile
maggioranza su cui poggia il governo al Senato, ma non la riteniamo una ipotesi
plausibile. Eventuali nuove defezioni dal M5s non si traducono necessariamente
in possibili voti di sfiducia. Gioca sempre l’istinto di sopravvivenza. Più
plausibile invece che sia l’uno o l’altro dei due maggiori partiti di governo
oppure Renzi a provocarla. Ma perché dovrebbero farlo?
C’è chi dice che il detonatore potrebbe essere
un cattivo risultato del voto regionale e/o referendario. Ma qui occorre una
premessa. Dato il contesto attuale, una crisi vorrebbe dire tornare alle urne. Infatti,
non è ragionevole immaginare che oggi sia possibile una altra maggioranza in
parlamento in modo da evitare elezioni anticipate. A meno che non scoppi una
crisi economica e sociale così grave da rendere credibile l’ipotesi di un
governo di unità nazionale con o senza Mario Draghi primo ministro. Ciò premesso,
torniamo alla domanda da cui siamo partiti e cerchiamo una risposta prima dal
punto di vista del M5s e poi del Pd/Renzi.
Il M5s ha ben poche aspettative rispetto alle
regionali, Questa è una competizione in cui non ha mai brillato. Solo in Molise
nel 2018 è andato vicino ad eleggere un suo candidato alla presidenza. Nelle
sei principali regioni in cui si vota ora ha presentato 5 candidati suoi.
Nessuno di questi ha la benché minima possibilità di essere eletto. Sulla base
dei sondaggi Winpoll-Cise pubblicati nelle scorse settimane su questo giornale
la candidata messa meglio è in Puglia ed è Antonella Laricchia stimata al 15,9%.
Quanto al voto di lista le cose non andranno particolarmente bene, ma anche
questo risultato verrà facilmente metabolizzato con la giustificazione che non
è in questo tipo di elezioni che si può misurare il reale livello di consensi
per il Movimento. Ci vogliono le politiche.
Più delicata è invece la questione del
referendum. Il taglio della casta è da sempre una bandiera del partito di
Grillo. Fino a poco tempo fa sembrava che il Sì avrebbe prevalso largamente.
Poi i sondaggi regionali che abbiamo pubblicato su questo giornale hanno
rivelato la sorprendente forza del No, cosa che ora viene confermata anche da
sondaggi nazionali. In questo momento pare che il Sì possa vincere seppure con
percentuali inferiori alle aspettative di qualche tempo fa. In questo caso per
il M5s sarà comunque una vittoria. Oggi però non si può escludere che possa vincere
il No. Quale sarebbe in questo caso l’effetto sul Movimento? Potrebbe essere
questo il motivo della fine della sua esperienza al governo e quindi della
crisi? Non lo crediamo. È un fatto noto che gli attuali parlamentari del M5s si
sentono a proprio agio nelle posizioni che ricoprono. Sanno che in caso di
elezioni anticipate pochi di loro verrebbero rieletti. Tanto più che la
vittoria del No sarebbe un altro inequivocabile segnale che il vento
dell’anti-politica, grazie al quale il Movimento ha costruito la sua fortuna
elettorale, non tira più come una volta. Ergo, Conte su questo versante può
stare tranquillo. Sia nel caso che vincesse il No sia nel caso che il Si
prevalesse di poco con una bassa affluenza alle urne.
E il Pd? Non è il referendum che deve temere.
Se vince il Sì ha vinto una parte, se vince il No ha vinto una altra parte del
Pd. In questo secondo caso Zingaretti ne uscirebbe indebolito ma non il governo.
Sono le elezioni regionali il test vero. Al momento il Pd è certo di vincere
solo in Campania. Toscana e Puglia sono in bilico. Se vincesse in entrambe le
regioni finirebbe tre a tre, e sarebbe un ottimo risultato. Se finisse quattro
a due non andrebbe proprio bene ma se fra le due ci fosse la Toscana, oltre
alla Campania, è probabile che il risultato verrebbe metabolizzato. L’esito
peggiore, per non dire disastroso, sarebbe la perdita della Toscana. Cosa che
fino a poco tempo veniva considerata impossibile dalla dirigenza locale e
nazionale del Pd.
In questo caso ci sono pochi dubbi che la
attuale leadership del partito verrebbe messa in discussione. Si aprirebbe una
delicata fase pre-congressuale. Ma c’è qualcuno disposto a scommettere che uno
qualunque dei possibili leader del Pd, compreso l’attuale segretario, voglia
provocare una crisi di governo sapendo che porterà ad elezioni anticipate e
alla vittoria certa della destra? Potrebbe farlo Renzi? Non perdere il governo,
non perdere la possibilità di eleggere il prossimo presidente della repubblica,
non perdere la gestione dei fondi europei non rappresentano forse un potente
incentivo -per il Pd, per il M5s e per Renzi- per continuare a sopravvivere
anche da separati in casa? Razionalmente la risposta non può che essere
positiva. Ma sappiamo bene che in politica anche la irrazionalità e il caso hanno
un loro peso.
Sono due le regioni in cui il risultato del voto del 20-21 Settembre è del tutto incerto. Una è la Toscana che abbiamo analizzato il 1 Settembre. L’altra è la Puglia. Secondo le stime del sondaggio Winpoll-CISE Raffaele Fitto, candidato di tutto il centrodestra, e già governatore tra il 2000 e il 2005, raccoglie il 39,6 % delle intenzioni di voto contro il 38,2% del presidente uscente Michele Emiliano (Figura 1). Una differenza statisticamente insignificante. Seguono Antonella Laricchia del M5s con il 15,9% e Ivan Scalfarotto, candidato di Italia Viva, +Europa, e Verdi, con il 4,7%.
Fig. 1 – Intenzioni di voto ai candidati e liste
Per
Emiliano è una corsa in salita. A differenza di altri governatori uscenti che
si sono ricandidati, Zaia, De Luca, Toti, il Covid non sembra averlo
avvantaggiato veramente. Né può sfruttare un giudizio particolarmente
favorevole sull’operato della sua amministrazione. Infatti ne danno una valutazione
molto o abbastanza positiva solo il 46% degli intervistati (Figura 2). Rispetto
a cinque anni fa, quando conquistò il suo primo mandato, il quadro è cambiato
nettamente. Allora aveva vinto con il 47,1%, sostenuto da una coalizione che comprendeva
tutti i partiti del centrosinistra (tranne Verdi e l’Altra Puglia) e aveva
preso complessivamente il 48,3% dei voti proporzionali (Figura 3). Per di più
il centrodestra era diviso. Infatti, Forza Italia e Noi Con Salvini
appoggiarono Adriana Poli Bortone che prese il 14,4%, mentre Fratelli d’Italia
presentò come candidato presidente Francesco Schittulli che raccolse il 18,3%.
Oggi invece la situazione si è ribaltata: il centrodestra è unito e il
centrosinistra è diviso con Italia Viva e + Europa che hanno deciso di non
appoggiare il presidente uscente. Un po’ per questo motivo ma soprattutto per
il declino del Pd e della sinistra in generale le liste che lo sostengono valgono
oggi solo il 35,3 %.
Fig. 2 – Operato del governo regionale
Fig. 3 – Trend elettorali in Puglia nelle ultime tornate elettorali
Eppure
la partita è aperta. In un sondaggio fatto da Winpoll a Giugno di questo anno
la situazione per Emiliano era peggiore. Allora il vantaggio di Fitto era di
quasi cinque punti percentuali. Oggi sembra che si sia ridotto a 1,4 come
abbiamo già fatto notare. A quell’epoca non erano state ancora decise né liste
né candidature. E si sa quanto le une e le altre siano importanti in una
competizione locale, soprattutto al Sud. Emiliano ha dalla sua parte ben 15
liste. Una cosa indecente consentita da una legge elettorale su questo punto
sbagliata. C’è di tutto: Pd, Sinistra alternativa, Democrazia Cristiana,
Liberali, Partito animalista, Partito del Sud, Pensionati e invalidi, Sud
indipendente Puglia e così via. Tante liste uguale tanti candidati. Ogni lista
è una rete acchiappa-voti. E qui sta forse la ragione della rimonta. Messe
insieme, le 14 liste civiche (che civiche non sono) fanno il 18,6% dei
consensi. Complessivamente pesano più del Pd (16,7%). Fatta la somma di tutto
si arriva a quel 35,3% citato sopra che rappresenta la base elettorale di
partenza di Emiliano. Per arrivare al 38,2% di cui viene accreditato dal nostro
sondaggio occorre ipotizzare che ci sia una quota di elettori che votano lui
senza passare da nessuna delle liste che lo appoggiano.
A differenza di Emiliano, Fitto ha fatto una scelta molto più parsimoniosa in termini di liste a lui collegate. Appena 5, di cui solo una ‘La Puglia domani’ può essere considerata civica. Le altre sono Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Nuovo Psi-Udc. Tutte insieme queste liste sono stimate al 40,9%, vale a dire 5,6 punti percentuali più delle liste a sostegno di Emiliano (35,3%). Fitto quindi può contare su uno zoccolo più ampio di quello del suo rivale. La differenza si era già manifestata nettamente alle europee dello scorso anno quando il centrodestra aveva ottenuto il 45,3% dei voti contro il 23,6 del centrosinistra (Figura 3).
Alla
fine la partita verrà decisa dagli incerti e dal comportamento degli elettori
dei due terzi incomodi, cioè di chi dichiara oggi di voler votare Laricchia o
Scalfarotto. È certo che un accordo tra Emiliano e il M5s o Italia Viva avrebbe
incrementato notevolmente le sue prospettive di vittoria. In assenza, sia
Emiliano che Fitto possono sperare nel voto disgiunto. È possibile che alcuni
degli elettori che oggi dichiarano di voler votare Laricchia o Scalfarotto
decidano nelle urne di esprimere un ‘voto utile’ a influenzare la scelta tra i
due candidati più competitivi.
È
difficile stimare quanti lo faranno. Un indizio al riguardo ci viene dalla
analisi dei flussi tra il voto espresso alle europee dello scorso anno e l’intenzione
di voto dichiarata oggi (Figura 4). Per Emiliano hanno detto di voler votare il
72% degli elettori del Pd. Questo è un dato relativamente basso ed è un suo
punto di debolezza. In confronto De Luca in Campania ne mobilita l’89% e Giani
in Toscana l’87%. Lo stesso Fitto mobilita l’86% degli elettori del suo
partito, Fdi. Però Emiliano dimostra di avere un appeal più trasversale. Attira
il 25% di chi ha votato M5s alle europee (contro l’11% di Fitto e il 15% di
Giani) cui si aggiungono il 23% degli elettori di Forza Italia, il 14% della
Lega e anche un piccolo ma non insignificante 8% che viene da Fdi. È questa sua
capacità di attrazione, che non può essere paragonata a quella di De Luca ma
che gli assomiglia, a rendere la sua candidatura competitiva. Da qui al 21
Settembre si vedrà se questo fattore genererà una quota sufficiente di voto
disgiunto tale da permettergli di vincere. Ma certo Fitto non sta a guardare.
Fig. 4 – Flussi di voto tra europee e regionali
Infine
il referendum sul taglio dei parlamentari. I Sì prevalgono sui No: 59 a 41%
(Figura 5). Più o meno come nelle altre regioni oggetto dei nostri sondaggi (con
l’eccezione della Toscana). Ma solo tra gli elettori del Pd e quelli del M5s i
Sì sono in maggioranza. In tutti i partiti del centrodestra non è così. La
sensazione è che nell’elettorato dei partiti di opposizione stia prendendo
sempre più piede l’idea di usare questo referendum per indebolire il governo o
‘punire’ il M5s. È la ‘sindrome Renzi 2016’.
Fig. 5 – Il referendum costituzionale
Nota metodologica
Soggetto committente: Sole 24 Ore – Cise. Soggetto realizzatore: Winpoll – Cise. Periodo di realizzazione interviste: 28 agosto-1 settembre 2020. Popolazione di riferimento: popolazione pugliese, maschi e femmine dai 18 anni in su, segmentata per sesso, età, comuni capoluogo e non, proporzionalmente all’universo della popolazione pugliese. Metodo di campionamento: stratificato per provincia, comuni capoluogo e non, casuale ponderato per genere, fasce di età e voto alle ultime europee. Metodologia delle interviste: mista. Numero di interviste: 1000: 500 cati-cami (3059 rifiuti), 500 cawi. Margine di errore con intervallo di confidenza al 99%: 2,4%.