Autore: Roberto D’Alimonte

  • M5S e Lega ancora forti nonostante i tanti scivoloni

    M5S e Lega ancora forti nonostante i tanti scivoloni

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 9 gennaio

    Tanto rumore per nulla. Nonostante tutta la bagarre sulla legge di bilancio e i molti passi falsi dei due partiti di governo, la realtà è che a distanza di dieci mesi dalle elezioni e sette mesi dalla nascita del governo Conte il sostegno a M5S e Lega Nord (questo è il partito di cui Salvini è attualmente segretario) è ancora tra il 55 e il 60%. Si tratta di un dato straordinario. Non esiste in Europa Occidentale oggi un governo che può contare su un livello di sostegno simile. Certo, si tratta di intenzioni di voto e non di voti, ma il dato non può essere sottovalutato. La sua stabilità nel tempo denota chiaramente che siamo in presenza di un trend di cui non si vede ancora l’inversione.

    In politica è facile scambiare i propri desideri per la realtà. È quello che sta succedendo agli oppositori dell’attuale governo. Ogni motivo di contrapposizione tra Salvini e Di Maio diventa l’occasione per pronosticare la fine della grande coalizione gialloverde. Allo stesso scopo servono le denunce veementi sulla distanza tra le promesse elettorali e le realizzazioni di questo governo. Non c’è dubbio che esistano differenze politiche significative tra Lega Nord e M5S ed è vero che molte aspettative siano andate deluse. Ma resta il fatto che tutto ciò non si è tradotto in una diminuzione del consenso per i due partiti. Almeno fino ad oggi. Ed è questo il fenomeno da spiegare.

    La sfiducia degli elettori nelle vecchie classi dirigenti è così diffusa e così profonda da rappresentare ancora oggi un capitale cui M5S e Lega Nord possono continuare ad attingere. E lo fanno dimostrando di andare incontro a quel bisogno di protezione che la gente vuole vedere soddisfatto. Le posizioni politiche di Salvini su immigrazione e sicurezza sono una risposta a questa domanda. E lo stesso dicasi del reddito di cittadinanza. Le critiche, anche fondate, e la gestione per tanti aspetti maldestra di queste politiche, non hanno scalfito l’impressione che i due partiti stiano dalla parte della gente. Arriverà certamente il giorno di un giudizio più severo. In politica la ruota gira. Le circostanze cambiano. Il rallentamento della crescita economica, l’aumento della disoccupazione, o anche solo la mancata crescita dei posti di lavoro, un eventuale nuovo scontro con l’Europa sui conti, l’aumento dello spread sono tutti fattori che possono cambiare il quadro e spostare i consensi. Ma quel giorno non è ancora arrivato.

    Ciò non vuole dire che tutto fili liscio per i due partiti al governo. Qua e là serpeggiano malumori. Qualche sondaggio registra un arretramento della Lega Nord in Veneto e dintorni. Il reddito di cittadinanza non è molto popolare da queste parti e la voglia di autonomia è sempre forte. Ma resta il fatto che il partito di Salvini è comunque sopra il 40% delle intenzioni di voto in questa zona. Nemmeno Berlusconi ai tempi d’oro è mai arrivato a questo livello. Dentro il M5S cresce la fronda su decreto sicurezza e immigrazione. E continua a covare il sospetto che questa esperienza di governo vada più a vantaggio della Lega Nord che del Movimento. Ma non saranno questi malumori né la vicenda dei 49 migranti della Sea Watch, né il dissenso sul referendum propositivo a far saltare la grande coalizione. Di questo governo si può dire di tutto e di più, ma non si può negare che i due partiti che lo hanno fatto nascere hanno dimostrato fino ad oggi una sorprendente propensione al compromesso. Ed è questo l’elemento cruciale per la sopravvivenza di ogni coalizione e soprattutto delle grandi coalizioni. Non c’è motivo di credere che da qui alle prossime elezioni europee questa voglia di compromesso venga meno.

    Dove si collocano le opposizioni in questo quadro? In una terra di nessuno. PD e Forza Italia sono ancora in mezzo al guado di una transizione infinita. E in ogni caso non rappresentano una opposizione competitiva. Singolarmente sono troppo deboli e troppo isolati. Insieme non sono credibili come alternativa di governo. E con quale programma? Mancano le idee e mancano i leader. Manca tutto. I dissensi che si registrano in settori della società civile, nel volontariato per esempio o a livello di sindaci e presidenti di regione, non sono sufficienti a offrire una alternativa. E così i malumori generati dalle politiche e dai comportamenti di questo governo si traducono in astensione a tutto vantaggio di M5S e Lega Nord. Alla fine i conti in politica si fanno non sul numero degli elettori ma sulle percentuali di voto. I due partiti al governo possono pure perdere voti, ma se questi voti non si traducono in consensi dati ad altri partiti la situazione non cambia. Ed è quello che sta succedendo. Prendendo a prestito una espressione utilizzata nella politica USA, ‘non si può battere qualcuno con nessuno’. E oggi non esiste nessuna vera opposizione a questo governo. Questa è la realtà. Il resto sono desideri.

    L’unica alternativa realistica all’attuale governo è un esecutivo di centrodestra con Salvini premier. La matematica elettorale dice che sulla base dei sondaggi attuali questo governo potrebbe nascere dopo eventuali elezioni anticipate. Infatti, con il 45% dei voti un centrodestra unito può arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera che al Senato. Come abbiamo scritto su questo giornale (D’Alimonte 2018) è un risultato che questo schieramento potrebbe ottenere anche senza ipotizzare un massiccio tracollo del M5S al Sud. Salvini lo sa, ma al momento non gli interessa. Gli interessano invece le elezioni europee. Lì si vedranno i voti e non le intenzioni di voto. Nel frattempo una tappa da non sottovalutare sono le elezioni regionali in Abruzzo. Il 10 febbraio si vedrà se in questa regione del Sud il M5S, che ha qui ha preso circa il 40% dei voti lo scorso 4 marzo, sarà ancora il primo partito o se invece avrà ceduto il primato alla Lega Nord. A seguire la Sardegna il 24 febbraio. Poi le europee a maggio. E dopo si faranno i conti.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, R. (2018), ‘Centrodestra avanti ma Salvini aspetta il voto delle Europee’. https://cise.luiss.it/cise/2018/12/01/centrodestra-avanti-ma-salvini-aspetta-il-voto-delle-europee/

  • La nuova Lega al 30% strappa voti al M5S

    La nuova Lega al 30% strappa voti al M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 27 dicembre

    Lega Nord o Lega Nazionale?

    La Lega Nord è oggi il maggior partito italiano. Non è una novità. Sono mesi che tutti i sondaggi registrano questo risultato. Le percentuali cambiano da sondaggio a sondaggio e tra i vari istituti demoscopici ma sono variazioni marginali. Nel sondaggio che il CISE ha condotto per il suo Osservatorio Politico[1] e che presentiamo qui, la stima delle intenzioni di voto per la Lega è 30,6% contro il 27,1% a favore del M5S. Il trend quindi è chiaro. Quello che non è chiaro a molti è che i sondaggi stimano la forza di una Lega che non esiste. La Lega Nazionale, l’obiettivo finale della strategia di Salvini, non c’è ancora (D’Alimonte 2018a). Esiste sì una Lega per Salvini premier, ma è ancora un partito largamente fittizio. Il partito vero, di cui Salvini è segretario, è ancora la vecchia Lega Nord. Ma per gli elettori italiani questo è un dettaglio. La realtà è quella che si percepisce come tale. Nell’immaginario collettivo la nuova Lega è già nata. Ed è ciò che conta, non quello che dice lo statuto. Anche in questo sta l’abilità di Salvini: far credere che quello che ancora deve nascere sia già nato. I dati gli danno ragione.

    Tab. 1 – Le intenzioni di voto nel sondaggio CISE del dicembre 2018, valori percentuali sul totale delle intenzioni a votare validamentevoteint_sole

    I flussi elettorali

    La nuova Lega è il prodotto di una espansione territoriale che non ha precedenti nella storia dei partiti politici moderni. Il partito secessionista-federalista di Bossi è diventato un partito nazionalista e nazionale (Albertazzi, Giovannini, Seddone 2018)– senza cambiare formalmente la sua missione originale – espandendosi al di sotto del Po. Prima nelle regioni confinanti, quelle del Centro-Nord. Ora anche in quelle del Sud (Passarelli e Tuorto 2018). Il diagramma di Sankey che presentiamo nella Figura 1 mostra, attraverso l’analisi dei flussi elettorali, la seconda fase di questa espansione. Quella avvenuta dopo le elezioni del 4 marzo e che ha portato la Lega dal 17% di allora al 30% e passa di oggi. A sinistra sono riportati i voti presi alle politiche, a destra le intenzioni di voto rilevate dal sondaggio CISE. Le diverse bande, colorate in base al bacino di provenienza alle politiche, mostrano gli spostamenti di voto dalle politiche a oggi. L’altezza di ciascuna banda misura l’entità dei flussi. Più spessa la banda, maggiori gli spostamenti di voto. La stima è fatta sul totale degli elettori, e non sul totale dei voti validi, per tener conto dei movimenti da e verso l’astensione.

    Il diagramma mostra chiaramente i due fattori alla base del successo della Lega. Il primo è la fedeltà dei suoi elettori. L’ 88% di coloro che hanno votato Lega alle elezioni la rivoterebbe oggi. È il tasso più alto tra tutti i partiti. Oltre ad essere il più bravo a conservare i suoi vecchi elettori, elemento tipico di un partito in ascesa, Salvini beneficia anche di significativi flussi in entrata da tre diverse direzioni. Innanzitutto, prosegue la già ben avviata OPA sul centrodestra, o su quello che ne è rimasto: Forza Italia e Fratelli d’Italia trattengono poco più di un elettore su due e ne cedono uno su quattro alla Lega. In secondo luogo, si nota un rilevante ingresso dal M5S. Di Maio infatti riesce a trattenere solo due elettori su tre, con il restante terzo che si astiene (14%), sceglie la Lega (12%) o va verso altri lidi. Infine, Salvini riesce a pescare anche dentro il bacino dell’astensione: quasi un astenuto su dieci tornerebbe alle urne per votarlo. Guardando questi dati da un altro punto di vista si può dire che, fatti 100 gli attuali elettori leghisti, il 58% sono ‘vecchi’ e il 42% sono nuovi. Questi ultimi vengono per il 16% dal centrodestra, per il 12% dal M5S e per l’ 11% dall’astensione. Pochi dal PD.

    Fig. 1 – I flussi elettorali fra 4 marzo e oggi, valori percentuali sul totale degli elettori (clicca per ingrandire)sankey_sole

    Il nuovo spazio della politica italiana

    La Lega non è solo il maggior partito ma è anche quello che occupa la posizione più centrale nel nuovo spazio della politica italiana. È quanto emerge utilizzando i dati relativi alla propensione al voto. Questo indicatore viene ricavato chiedendo all’intervistato quanto è probabile che in futuro possa votare per un dato partito su una scala da 0 a 10, dove 0 significa ‘per niente probabile’ e 10 significa ‘molto probabile’. Si tratta di una domanda utile per due motivi. Da una parte permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a questa domanda mentre sono molto meno quelli che rispondono alla domanda sull’intenzione di voto. In secondo luogo la propensione al voto permette di identificare – selezionando chi dà a un partito un punteggio pari o superiore a sette – il potenziale elettorale del partito, cioè la sua possibilità di espandersi ulteriormente. Va da sé che si tratta di un dato particolarmente utile in una fase di transizione come quella attuale.

    L’uso di questo indicatore è alla base dei diagrammi di Venn relativi ai principali partiti italiani che si vedono nella Figura 2. Ciascuna circonferenza rappresenta il bacino elettorale potenziale di un partito. Più grande è la porzione del campione che ha espresso una propensione al voto per un partito pari ad almeno sette, più grande è la sua circonferenza. Le aree di sovrapposizione fra i cerchi rappresentano la quota di elettori potenziali ‘in comune’ fra due o più partiti (ossia quegli elettori che esprimono una propensione al voto pari o superiore a sette per i partiti in questione). Ai cinque principali partiti italiani abbiamo aggiunto anche un possibile nuovo partito guidato da Matteo Renzi. (xanax)

    Il grafico delinea il nuovo spazio della politica italiana, la grandezza dei bacini potenziali dei diversi partiti e la loro maggiore o minore sovrapponibilità oltre alla loro centralità o marginalità. Come si vede, il centro del sistema è chiaramente occupato dalla Lega. Non solo il suo bacino elettorale potenziale è il più grande in assoluto (31%), ma è anche quello che si sovrappone di più a quello degli altri partiti. Non sorprende la sovrapposizione con Forza Italia e FDI. Sorprende invece quella molto estesa con il M5S. In parole povere i due partiti al governo si contendono una fetta importante di elettori. Sono tanti quelli propensi a votare l’uno o l’altro a seconda delle circostanze. Come abbiamo visto precedentemente una parte degli elettori pentastellati si è già spostata verso la Lega. Altri potrebbero seguire. Ma potrebbe anche accadere il contrario. Anche se questa ipotesi appare oggi molto meno plausibile. La sopravvivenza del governo dipenderà anche dalla capacità dei due alleati-rivali di gestire la competizione per il loro elettorato in comune.

    Fig. 2 – Lo spazio politico in Italia oggi, valori percentuali sul totale degli elettorivenn_sole

    Il PD e il partito di Renzi

    Quanto al PD e a Renzi, il quadro delineato dal nostro sondaggio presenta luci e ombre. Il PD è diventato un partito periferico e questo non è certamente un fatto positivo, ma quello che resta del suo elettorato si sovrappone molto poco a quello degli altri partiti. Ha perso tanti elettori, ma quelli che sono rimasti rappresentano uno zoccolo duro su cui può contare per rilanciarsi, se ne sarà capace. Chi voleva andarsene se n’è andato. L’emorragia sembra che per ora si sia arrestata. È una magra consolazione, ma è una condizione migliore in ogni caso di quella dei socialisti francesi, tanto per fare un esempio. Su Renzi abbiamo già scritto in altra occasione (D’Alimonte 2018b). Questi dati sono una sostanziale conferma di cose già dette. Il suo partito pescherebbe in larga misura nel bacino elettorale del PD e qualcosa in quello di Forza Italia. Non è una prospettiva incoraggiante. Ma stiamo ragionando a bocce ferme. In questa fase tutto scorre.

    Riferimenti bibliografici

    Albertazzi, D., Giovannini, A., e Seddone, A. (2018), ‘”No regionalism please, we are Leghisti!” The transformation of the Italian Lega Nord under the leadership of Matteo Salvini’, Regional and Federal Studies, 28(5), pp. 645-671.

    D’Alimonte, R. (2018a), ‘Il successo della nuova Lega e le contraddizioni con la vecchia’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/14/il-successo-della-nuova-lega-e-le-contraddizioni-con-la-vecchia/

    D’Alimonte, R. (2018b), ‘Il congresso PD e le tre opzioni di Renzi, l’Amleto della politica italiana’. https://cise.luiss.it/cise/2018/12/11/il-congresso-pd-e-le-tre-opzioni-di-renzi-lamleto-della-politica-italiana/

    Passarelli, G., e Tuorto, D. (2018), La Lega di Salvini. Estrema destra di governo, Bologna, Il Mulino.


    [1] Il sondaggio è stato realizzato con metodo CAWI (Computer-Assisted Web Interviewing) da Demetra opinioni.net S.r.l. nel periodo 10-19 dicembre. Il campione ha una numerosità di 1.113 rispondenti ed è rappresentativo della popolazione elettorale italiana per genere, classe di età, titolo di studio, zona geografica di residenza, e classe demografica del comune di residenza. Le stime qui riportate sono state ponderate in funzione del ricordo del voto alle politiche e di alcune variabili socio-demografiche. L’intervallo di confidenza al 95% per un campione probabilistico di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è ±2,9%.

  • Verso le Europee, il peso del modello tedesco

    Verso le Europee, il peso del modello tedesco

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 dicembre

    Il 22 ottobre 2014 il Parlamento Europeo ha approvato la Commissione Juncker con 423 voti a favore, 209 contrari e 67 astensioni. Dei sette gruppi politici allora esistenti hanno votato a favore i popolari (PPE), i socialisti (S&D) e i liberali (ALDE). Questi sono i tre gruppi rappresentati nella Commissione. Hanno votato contro i verdi (Greens-EFA), la sinistra (GUE-NGL) e i sovranisti del gruppo di Farage (EFDD). I conservatori si sono divisi. I socialisti spagnoli, pur appartenendo al gruppo dei Socialisti e Democratici, si sono astenuti. La Commissione Juncker ha potuto contare su una maggioranza pari a circa il 56% dei seggi, più o meno in linea con il sostegno che hanno avuto le commissioni precedenti. Cosa succederà dopo le prossime elezioni europee? La futura Commissione sarà ancora espressione di una grande coalizione di centro, formata da popolari, socialisti e liberali?

    A distanza di molti mesi dal voto, e in una situazione di grande volatilità, non è semplice rispondere a queste domande. Basterebbe un grave attentato in uno dei paesi dell’Unione poco prima del voto per modificare gli orientamenti fotografati oggi. Ciò premesso, il CISE ha provato a stimare il risultato delle elezioni di maggio utilizzando i sondaggi più recenti disponibili nei 27 paesi. A differenza della precedente tornata questa volta il totale dei seggi da assegnare è 705 invece di 751. È la conseguenza della Brexit. Dei 73 seggi assegnati alla Gran Bretagna 46 sono stati aboliti mentre i restanti 27 sono stati redistribuiti tra vari paesi. All’Italia sono toccati 3 seggi in più.

    Nell’attuale Parlamento i partiti al ‘governo’, cioè quelli presenti in commissione, popolari, socialisti e liberali, possono contare su 476 seggi su 751, cioè su una maggioranza superiore al 60%. In base alle nostre stime a maggio i loro seggi dovrebbero essere 414 su 705, cioè poco sotto il 60%. La cosa interessante è che questo risultato sarebbe frutto di una dinamica elettorale diversa tra i sette paesi più grandi dell’Unione (Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia, Romania, Paesi Bassi) e gli altri. Nei primi, che eleggono 424 parlamentari, popolari, socialisti e liberali prenderebbero 218 seggi (il 51,4%) mentre negli altri 20, dove i seggi in palio sono 281, ne prenderebbero 196 (il 69,7%).

    Tab. 1 – Stima della composizione del prossimo Parlamento Europeo sulla base dei recenti sondaggi nei diversi Stati.ep19_simIl dato è in linea con quello che sappiamo sulle difficoltà dei socialisti e dei popolari in Germania, Francia, Spagna e Italia. Negli altri paesi dell’Unione invece le cose vanno meglio per i partiti che formano la Commissione. Saranno quindi i ‘piccoli’ a compensare le perdite che ‘i governativi’ soffriranno nei paesi più grandi.

    Se le nostre stime fossero corrette è molto probabile che la prossima commissione non sarebbe molto diversa dall’attuale. Il Parlamento Europeo continuerebbe ad essere governato da una grande coalizione di centro. Sarebbe ancora ‘il modello tedesco’ applicato a livello europeo, con la variante della inclusione dei liberali che a Berlino invece stanno fuori dal governo. Infatti con questi numeri è poco plausibile che i socialisti rinuncerebbero ad allearsi con popolari e liberali. Lo stesso dicasi per i liberali.

    L’incognita è rappresentata dai popolari. In questo gruppo si annidano parlamentari di diverse tendenze. Si pensi che i parlamentari ungheresi eletti nel partito sovranista di Orban sono iscritti a questo gruppo. La defezione dei membri più conservatori potrebbe mettere a rischio la maggioranza di centro. Ma se la stima CISE è corretta si tratta di un evento poco probabile. Il problema è che potrebbe non esserlo.

    Viviamo in un contesto instabile. Basti vedere a quanto è accaduto recentemente in Spagna con il successo di Vox nelle elezioni regionali in Andalusia (Vittori 2018).

    Tra l’altro alcuni degli otto gruppi attualmente presenti in questo Parlamento potrebbero non esserlo nel prossimo. Né si conoscono per certo le future affiliazioni di diversi partiti. Per esempio, non si sa cosa farà il M5S che a un certo punto voleva entrare dentro l’ALDE. Né cosa faranno i conservatori polacchi. Ci saranno rimescolamenti ad oggi imprevedibili. E allora cosa potrebbe accadere se la grande coalizione di centro non fosse più possibile?

    Questa è la speranza dei sovranisti da Salvini a Le Pen, Wilders e così via. Il loro obiettivo è chiaramente quello di poter condizionare la formazione della futura Commissione. Oggi non sembra però un obiettivo realistico. Nell’attuale Parlamento la destra sovranista è organizzata nel gruppo della Europa delle Nazioni e della Libertà (ENF), che comprende oltre alla Lega Nord e al Fronte Nazionale di Marine Le Pen vari partiti nazionalisti come il PVV olandese e il FPÖ austriaco. In totale si tratta di 35 parlamentari che sulla base della stima CISE potrebbero diventare 81. Di certo un grosso successo, ma insufficiente a cambiare significativamente gli equilibri parlamentari. E questo resta vero anche se ai loro voti si aggiungessero quelli del gruppo di ‘Europa della Libertà e della Democrazia Diretta’ di cui fa parte il M5S, oltre a quelli di Orban.

    Alla fine, anche nel caso di una crescita straordinaria dei loro consensi, i partiti sovranisti non dovrebbero pesare più del 15% nel nuovo Parlamento. Non è da qui che verranno i pericoli per la stabilità dell’Unione.

    Resta il fatto che l’opposizione alla grande coalizione non è rappresentata solo dai sovranisti. Su posizioni variamente critiche nei confronti della attuale maggioranza e delle sue politiche ci sono anche i Verdi, la Sinistra e i Conservatori. È poco probabile, ma non si può escludere del tutto, che la somma dei loro seggi, insieme a quelli dei sovranisti, rappresenti la maggioranza assoluta nel prossimo Parlamento.

    Ciò non vuole dire però che saranno loro a esprimere la prossima Commissione. Questo è certo. Ma è altrettanto certo che con questo scenario si aprirebbe una fase nuova in cui i partiti che tradizionalmente hanno ‘governato’ l’Unione dovrebbero cercare un compromesso con forze tradizionalmente molto critiche da destra o da sinistra nei confronti dell’attuale modello europeo.

    In questo caso l’ipotesi più probabile è che la grande coalizione diventi ancora più grande con l’inclusione dei Verdi o dei Conservatori. Ci sarebbero dei cambiamenti, ma si illude chi pensa che possano essere radicali.

    Riferimenti bibliografici

    Vittori, Davide (2018), ‘Crollo del PSOE nelle regionali in Andalusia: verso il primo governo di centrodestra?’ https://cise.luiss.it/cise/2018/12/03/crollo-del-psoe-nelle-regionali-in-andalusia-verso-il-primo-governo-di-centrodestra/

  • Il congresso PD e le tre opzioni di Renzi, l’Amleto della politica italiana

    Il congresso PD e le tre opzioni di Renzi, l’Amleto della politica italiana

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore dell’11 dicembre 2018

    Matteo Renzi è diventato l’Amleto della politica italiana. È in preda a dilemmi che non riesce a sciogliere. Sono tre le opzioni che ha davanti. La prima è quella di non fare niente. Stare alla finestra e vedere che succede. Non partecipare al congresso, non sostenere alcun candidato tra quelli in corsa, non avanzare proposte se non quella di dire no al dialogo con il M5S. La conseguenza è quella di prolungare indefinitamente l’incertezza che paralizza il PD. Dentro il partito Renzi conta ancora. Chi ha seguito l’ultima Leopolda, come il sottoscritto, se ne è reso perfettamente conto. Una parte non piccola del PD si riconosce ancora in lui. Le sconfitte referendarie ed elettorali lo hanno indebolito, ma per molti resta ancora l’unico vero leader del partito. Chiunque vinca la corsa alla segreteria dovrà fare i conti con questa realtà. Il risultato è che in queste condizioni il prossimo congresso non riuscirà a rilanciare il PD e a farne l’opposizione efficace di cui la nostra democrazia ha bisogno. Forse Renzi pensa che aspettare Godot sia per lui la scelta migliore (D’Alimonte 2018). Aspettare che il partito e il governo finiscano in un vicolo cieco ed essere richiamato alla guida per salvare la ditta e la patria. Di certo non è la scelta migliore per il PD.

    La seconda opzione è quella di correre lui stesso per la segreteria sfruttando il consenso che ha all’interno del partito. Sarebbe la quarta volta. Il bilancio delle precedenti tre primarie è di una sconfitta, quella contro Bersani nel 2012, e due vittorie, nel 2013 contro Cuperlo e Civati, e nel 2017 – dopo la sconfitta referendaria e le dimissioni dal governo – contro Orlando e Emiliano. Non è detto che l’impresa non gli possa riuscire anche questa volta. Non abbiamo dati attendibili per valutare quante possibilità abbia di vincere. Possiamo però dire che la sfida con Zingaretti sarebbe avvincente. Soprattutto farebbe emergere chiaramente le due alternative che il PD ha davanti: quella laburista alla Corbyn o quella centrista alla Macron. Oggi in Italia esiste un elettorato moderato che non si sente rappresentato né da Salvini né da Di Maio. La debolezza di Berlusconi ha allargato questo spazio. Ma in politica non basta che ci sia una domanda per cambiare le decisioni di voto, occorre anche una offerta credibile. Renzi lo è ancora? Può essere lui a guidare di nuovo il PD alla conquista di questo elettorato di mezzo? E per di più con questo sistema elettorale che è più proporzionale che maggioritario? Molti ne dubitano e forse ne dubita lui stesso.

    La terza opzione è fare un nuovo partito. È quella di cui si vocifera in questi giorni. È la scelta più difficile e anche la più complicata. Fino ad oggi Renzi ha sempre respinto questa ipotesi. Lo ha fatto anche dopo le primarie perse contro Bersani, quando molti lo spingevano a uscire dal PD e a fare una cosa sua. Allora avrebbe anticipato Macron. Ma non se la sentì. Le sfide organizzative non gli piacciono. Voleva conquistare il PD e così è stato. Pensava che diventare segretario del partito e poi presidente del consiglio sarebbe bastato per fare del PD la forza egemone nel paese. Ma così non è stato. Le elezioni europee del 2014 sono state una illusione fatale per molti motivi. Adesso la questione si ripropone, ma i tempi sono cambiati. Renzi non è più quello del 2013. Però un pensierino forse lo sta facendo. A che servirebbero altrimenti quei comitati civici che sono l’unica vera novità venuta fuori dall’ultima Leopolda? Non è campato per aria immaginarli come la infrastruttura organizzativa del nuovo partito. Ma su quanti consensi potrebbe contare oggi il partito di Renzi?

    Secondo un recente sondaggio di Winpoll (giovane istituto demoscopico veneto) varrebbe il 9,4% contro l’11,8 del PD senza Renzi. Sono ovviamente numeri aleatori. Ma più interessanti di queste percentuali sono i dati relativi al gradimento che Renzi incontra in diversi segmenti dell’elettorato. Tra tutti gli elettori la propensione a votarlo è bassina: solo il 21%. Tra i soli elettori del PD sale al 43. E questa è una percentuale di tutto rispetto che conferma quanto abbiamo detto sopra sul suo gradimento all’interno del partito. Il problema sono gli altri elettori. Tra quelli del M5S e della Lega sono veramente pochi quelli propensi a votarlo. E quel che è peggio e che non sono molti nemmeno dentro il bacino di Forza Italia (19%). Se questi dati verranno confermati da altri sondaggi si capisce perché Renzi esiti a battere la strada di un nuovo partito. Ma se anche alla fine si decidesse, quale sarebbe il suo ruolo? Opposizione sì, ma con quali alleati? E quali i rapporti con la vecchia casa?

    Fig. 1 – Potenziale elettorale di “un nuovo soggetto politico guidato da Matteo Renzi”, nei diversi bacini elettoralipartito_renzi_fig

    Insomma tre opzioni sono tante. Anzi troppe. E tutte presentano dei rischi non facili da valutare. Si capisce perché il nostro abbia scelto – per ora – di fare l’Amleto. Aspettare a volte conviene. Forse.

    Riferimenti bibliografici

    D’Alimonte, Roberto (2018), ‘Nazareno-bis, dialogo con M5S o “aspettando Godot”: 3 scenari per il PD’. https://cise.luiss.it/cise/2018/09/04/nazareno-bis-dialogo-con-m5s-o-aspettando-godot-3-scenari-per-il-pd/


    Nota metodologica: Sondaggio effettuato da Scenari Politici – Winpoll Srls (diretto da Federico Benini) nel periodo 7-9 dicembre. Il campione comprende 1.500 interviste con metodo misto CAWI-CAMI ed è rappresentativo della popolazione elettorale italiana per genere ed età. Le stime sull’elettorato nel complesso qui riportate sono inoltre state ponderate in funzione del ricordo del voto alle politiche. L’intervallo di confidenza al 99% per un campione di pari numerosità in riferimento alla popolazione elettorale italiana è ±2,3%.

  • Centrodestra avanti ma Salvini aspetta il voto delle Europee

    Centrodestra avanti ma Salvini aspetta il voto delle Europee

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del primo dicembre

    Molti si chiedono di questi tempi se questo governo durerà ancora a lungo. Sono le crescenti difficoltà del M5S ad alimentare questi dubbi. È difficile fare previsioni. La situazione è molto volatile. Una cosa è certa però. Se questo governo cadesse non sarebbe possibile metterne insieme un altro dentro l’attuale parlamento. Non è plausibile un governo del centrodestra sostenuto da transfughi del Movimento. Né è plausibile un governo PD-M5S. L’esito della crisi sarebbero le elezioni anticipate. Con quale possibile risultato? Sulla base della media dei sondaggi che vediamo da settimane è molto probabile che il centrodestra, guidato da Salvini, potrebbe arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi.

    Il 4 marzo il centrodestra, guidato da Berlusconi, è risultato lo schieramento con più voti e con più seggi, ma senza maggioranza nelle due camere (Chiaramonte et al. 2018). Con l’attuale sistema elettorale per conquistare la maggioranza assoluta occorre vincere il 40% dei seggi proporzionali e il 70% di quelli maggioritari. Questa è la combinazione minima vincente, tra le tante possibili (D’Alimonte 2017). Il 4 marzo il centrodestra con il 37% dei voti ha ottenuto alla Camera il 39,1% dei primi e il 47,8% dei secondi (Tab. 1). Complessivamente si è fermato a 265 seggi. Per la maggioranza assoluta ne sono mancati 51.

    Tab. 1 – Il risultato del centrodestra alle politiche del 4 marzo, Camera[1]tab1_sim_lega_cdxOggi la media dei sondaggi della scorsa settimana dà il centrodestra, guidato da Salvini, al 45,2%, con la Lega tra il 31 e il 33. Con questi dati il centrodestra può conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. La Tabella 2 fa vedere come, consentendo un facile confronto con il risultato del 4 marzo (Tab. 1).

    Tab. 2 – Il possibile esito di elezioni immediate per il centrodestra, Camera[2]tab2_sim_lega_cdxIn primo luogo, con il 45,2% dei voti lo schieramento di Salvini, invece di prendere il 39,1% dei seggi proporzionali, ne prenderebbe il 47,8, cioè 184 invece di 151[3]. Dei 51 seggi che gli sono mancati il 4 marzo per arrivare alla maggioranza assoluta ne resterebbero da conquistare nei collegi uninominali solo 18. Qualcuno verrebbe certamente dal Nord dove farebbe praticamente il pieno, a parte l’Alto Adige. Qualcun altro verrebbe dalle regioni della ex-zona rossa. Poi c’è il Sud. Quanto vale oggi la Lega, e quindi il centrodestra, in questa zona? Qui il 4 marzo con il 31,8% dei voti ha vinto solo 13 seggi contro gli 84 del M5S. Con il 38,8 stimato oggi ne vincerebbe certamente di più. Ma anche ipotizzando che non ne vinca neanche uno in più la tabella ci dice che al centrodestra basterebbe ottenere 7 seggi in più nelle regioni del Nord e 11 in quelle della ex-zona rossa per vincere le elezioni.

    In sintesi, con i voti stimati oggi a Salvini basterebbe conquistare solo 18 collegi uninominali in più rispetto al 4 marzo. Questo per sottolineare che anche senza un forte ridimensionamento del M5S al Sud non avrebbe problemi a vincere le elezioni. Con il 45% dei voti che oggi i sondaggi gli attribuiscono, gli basterebbe solo il 56% di quelli maggioritari per ottenere la maggioranza assoluta. E questa percentuale è oggi ampiamente alla sua portata. In altre parole il centrodestra può vincere le elezioni e governare da solo. E allora perché Salvini non ne approfitta?

    Il grosso rischio di elezioni anticipate è l’ulteriore spaccatura del Paese Il 4 marzo M5S e Lega non si sono affrontati l’uno contro l’altra. È stato uno scontro nuovo contro vecchio, in cui Salvini è riuscito a nascondere il fatto di essere alleato a un pezzo del vecchio mondo. Votare ora vorrebbe dire M5S contro Lega, senza alibi. Nord contro Sud. I due populismi l’un contro l’altro armati. Ex post le elezioni del 4 marzo ci hanno fatto scoprire una Italia nettamente spaccata tra una Lega dominante al Nord e un M5S assolutamente egemone al Sud. Lo scontro elettorale non farebbe altro che aggravare questo scenario mettendo tra l’altro a repentaglio la strategia di penetrazione della Lega di Salvini al Sud.

    Tra le qualità politiche di Salvini una è la pazienza (D’Alimonte 2018). Perché rischiare? Meglio trattare con Di Maio che con Berlusconi. Meglio stare al governo ora senza vera opposizione che governare dopo contro i Cinque Stelle che l’opposizione la sanno fare. E allora meglio aspettare le elezioni europee e poi vedere. Il problema è che a quella data non è facile arrivare con un M5S diviso e un Di Maio indebolito.

    Riferimenti bibliografici

    Chiaramonte, Alessandro, Vincenzo Emanuele, Nicola Maggini e Aldo Paparo (2018), ‘Populist Success in a Hung Parliament: The 2018 General Election in Italy’, South European Society and Politics, Online First. https://doi.org/10.1080/13608746.2018.1506513

    D’Alimonte, Roberto (2017), ‘Il “pallottoliere” del Rosatellum’. https://cise.luiss.it/cise/2017/10/15/il-pallottoliere-del-rosatellum/

    D’Alimonte, Roberto (2018), ‘Il successo della nuova Lega e le contraddizioni con la vecchia’. https://cise.luiss.it/cise/2018/11/14/il-successo-della-nuova-lega-e-le-contraddizioni-con-la-vecchia/


    [1] I seggi totali a livello nazionale comprendono anche 3 seggi conquistati nella circoscrizione Estero.

    [2] Anche in questo caso, come per la Tabella 1, i seggi totali a livello nazionale comprendono anche 3 seggi conquistati nella circoscrizione Estero, tanti quanti quelli conquistati dal centrodestra il 4 marzo.

    [3] Si tratta di calcoli fatti sulla base della crescita dal 37% dei voti del 4 marzo al 45,2% della stima delle intenzioni di voto oggi, cioè un tasso di crescita del 22% (che abbiamo ipotizzato omogeneo a livello geografico, e applicato quindi uniformemente in ciascuna delle tre zone).

  • Il successo della nuova Lega e le contraddizioni con la vecchia

    Il successo della nuova Lega e le contraddizioni con la vecchia

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 14 novembre 2018

    La Lega di Matteo Salvini è un fenomeno straordinario. Lo è innanzitutto sul piano elettorale. Sono estremamente rari i casi di partiti che in cinque anni passano dal 4,1% (politiche 2013) al 17,4% (politiche 2018) e al 31% delle intenzioni di voto (media dei sondaggi della settimana 4-10 novembre). Ma lo è anche perché non esiste un altro caso di un partito secessionista e regionale che sia riuscito a diventare un partito nazionalista e nazionale (Passarelli e Tuorto 2018). Ciò che rende ancora più straordinario tutto ciò è che questa trasformazione è avvenuta senza alcuna vera discussione all’interno della Lega e senza un congresso che sancisse la fine della vecchia Lega Nord e la nascita della nuova Lega Nazionale. È avvenuto tutto sul web, grazie alla iniziativa di Salvini e al suo uso dei social media. Ha deciso tutto lui, aggirando le strutture del partito e rivolgendosi direttamente agli elettori. Il resto lo ha fatto il successo elettorale.

    Questa è la parte nota della storia. Poi c’è quella meno nota. Infatti oggi non si può parlare di una sola Lega, quella di Salvini. In realtà la Lega di Salvini non è quella di cui lui è segretario. Non è quella il cui simbolo è ancora Alberto da Giussano. Questa è formalmente ancora la Lega di Bossi, quella fondata nel 1991. La ‘vera’ Lega di Salvini è quella il cui statuto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 Dicembre 2017. Si chiama per l’appunto ‘Lega per Salvini Premier’ e nel suo simbolo Alberto da Giussano non c’è[1]. La sua creazione si è intrecciata con la spiacevole vicenda dei 49 milioni di euro che la Lega deve rimborsare, ma la sua rilevanza va al di là dell’episodio che l’ha vista nascere. Questa è la Lega che Salvini vorrebbe creare come organizzazione nazionale dopo averla fatta nascere nelle urne. L’attuale Lega di cui Salvini è segretario è ancora la ‘Lega Nord per l’Indipendenza della Padania’, come recita l’articolo uno dello statuto ancora in vigore. Ed è un partito che all’articolo due elenca le nazioni che ne fanno parte. In questa Lega il Sud non esiste. Toscana, Marche e Umbria sono il confine meridionale statutario della Lega Nord[2].

    Perché Salvini non si decide a risolvere il dilemma tra la Lega che c’è, ma che non dovrebbe più esserci, e quella che dovrebbe esserci ma ancora non c’è? In altre parole, perché la Lega Nord non diventa la Lega Nazionale ovvero la Lega per Salvini premier? Ci vorrebbe un congresso, ma non se ne parla. Evidentemente qualche problema c’è nel passare il Rubicone. La ‘Bolognina’ della Lega Nord non c’è ancora stata e chissà se mai ci sarà. E si capisce. La Lega Nord non solo è il più vecchio partito italiano, ma è anche quello più organizzato sul territorio. E’ un partito vero. Per molti aspetti ancora un partito del novecento con le sue sezioni e i suoi militanti. Con regole severe sulla membership e sul cursus honorum al suo interno e nelle istituzioni. La secessione non è più la sua bandiera, ma l’idea di un Nord diverso dal resto del paese e con tanta voglia di una vera autonomia fa parte del suo DNA. I militanti ci sono affezionati. Cancellare aspettative e passioni con un tratto di penna è difficile, anche per un leader popolare e vincente come Salvini.

    Ma sta di fatto che dopo il 4 marzo la Lega Nord è cambiata. In realtà era già cambiata prima. L’ha cambiata Facebook e la scoperta che Salvini ha fatto del potenziale comunicativo ed elettorale dei social media in questi tempi liquidi. A dire il vero, il vecchio partito non è in realtà cambiato. Il partito delle sezioni convive oggi con quello di Facebook. Così come la Lega Nord convive con la Lega per Salvini premier. La differenza è che la prima è una realtà consolidata, anche se ora un po’ disorientata, la seconda invece è ancora un progetto in divenire. Il progetto però sta prendendo piede. Intanto si è materializzato in modo straordinario nelle urne il 4 marzo e ora nelle intenzioni di voto. Di recente si sta concretizzando anche sul piano organizzativo. Nel Sud.

    Nel Mezzogiorno, a partire dal 2014, la Lega Nord si è presentata a livello locale con la lista ‘Noi con Salvini’. I risultati sono stati molto modesti. Alle ultime politiche si è presentata come Lega. Con lo stesso contrassegno con cui si è presentata nel resto del Paese. Ha preso il 17,4%. Oggi, visto che i sondaggi a livello nazionale la danno in media al 31%, dovrebbe essere tra il 15 e il 20% al Sud. La Lega si sta radicando dunque anche in questa zona del Paese. Sta aprendo sedi e reclutando iscritti. Lo sta facendo utilizzando la Lega per Salvini Premier. Questo è lo strumento per inquadrare le nuove reclute meridionali senza stravolgere la vecchia e collaudata struttura che ha permesso alla Lega Nord di sopravvivere in tempi duri e di diventare oggi il primo partito del Nord del paese. Oltre che il primo partito del Paese tout court. In questo modo però la Lega per Salvini Premier tende ad assomigliare più alla lista ‘Noi con Salvini’ che alla Lega Nazionale. La differenza è che diversamente dalla lista ‘Noi con Salvini’ la nuova Lega funziona anche da Roma in giù.

    Infatti, ci sono chiarissimi segnali che nel deserto lasciato dal declino di PD e di Forza Italia, e grazie alla scarsa capacità organizzativa e relazionale del M5S, settori importanti del notabilato e del caporalato meridionale si stanno trasferendo armi e bagagli verso la Lega. Non quella di cui Salvini è segretario, ma l’altra quella parallela. Il fatto che assomigli più a una Lega Sud che a una Lega Nazionale non importa. È il successo di Salvini che ha cambiato le cose. I meridionali sono gente pratica cui non interessano le utopie rousseauiane ma i rapporti con il potere locale e nazionale. Hanno creduto in Grillo e ora sperano nel reddito di cittadinanza, ma i signori delle preferenze non si fidano dei Cinque Stelle. Sono orfani della DC e di Berlusconi. Salvini sta diventando il loro punto di riferimento. Nel breve termine sarà il reddito di cittadinanza a decidere la questione. Se Salvini vuole crescere al Sud deve trovare un accordo su questo con Di Maio e con i leghisti del Nord.

    Insomma, la Lega di Salvini oggi è in una sorta di limbo. Confusione, transizione o strategia? Non si sa. Non lo sanno i militanti leghisti e forse non lo sa nemmeno lo stesso Salvini. Si vive alla giornata. Tanto ogni giorno porta buone nuove. La Lega ha il vento in poppa. Non ha avversari credibili. La competizione con i Cinque Stelle è vinta. Perché porsi fastidiosi problemi organizzativi? L’intendenza seguirà. In fondo questa è una strategia. Quanto potrà funzionare si vedrà. Intanto ci sono le elezioni europee. Dopo forse succederà qualcosa. O forse no. Non è detto che le due Leghe di oggi debbano necessariamente diventare una sola Lega domani. E non è detto che la Lega delle sezioni non possa continuare a convivere con la Lega di Facebook. Finché funziona perché cambiare?

    Riferimenti bibliografici

    Passarelli, Gianluca e Dario Tuorto (2018), La Lega di Salvini. Estrema destra di governo, Bologna, Il Mulino.


    [1] L’art. 1. dello Statuto della Lega per Salvini Premier recita: “Finalità. Lega per Salvini Premier è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità la pacifica trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali. Lega per Salvini Premier promuove e sostiene la libertà e la sovranità dei popoli a livello europeo.”

    L’art. 2. recita: “Struttura organizzativa della Lega per Salvini Premier. Lega per Salvini Premier è una confederazione composta dalle seguenti articolazioni territoriali regionali costituite a livello regionale, provinciale o sovra-provinciale, in forma di associazioni non riconosciute:

    1. Valle d’Aosta – Vallée d’Aoste;
    2. Piemonte;
    3. Liguria;
    4. Lombardia;
    5. Trentino;
    6. Alto Adige – Südtirol;
    7. Veneto;
    8. Friuli Venezia Giulia;
    9. Emilia;
    10. Romagna;
    11. Toscana;
    12. Marche;
    13. Umbria;
    14. Lazio;
    15. Abruzzo;
    16. Molise;
    17. Campania;
    18. Puglia;
    19. Basilicata;
    20. Calabria;
    21. Sicilia;
    22. Sardegna.”

    [2] L’art. 1 dello Statuto della Lega Nord, come attualmente in vigore dopo le modifiche del 2015, recita: “Finalità. ‘Lega Nord per l’Indipendenza della Padania’ (di seguito indicato come ‘Lega Nord’, ‘Lega Nord – Padania’ o ‘Movimento’), è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana.

    L’art. 2 recita: “Struttura organizzativa della Lega Nord. Lega Nord è una confederazione composta dalle seguenti Nazioni costituite a livello regionale in forma di associazioni non riconosciute:

    1. Alto Adige – Südtirol;
    2. Emilia;
    3. Friuli – Venezia Giulia;
    4. Liguria;
    5. Lombardia;
    6. Marche;
    7. Piemonte;
    8. Romagna;
    9. Toscana;
    10. Trentino;
    11. Umbria;
    12. Valle d’Aosta – Vallée d’Aoste;
    13. Veneto.”
  • Crisi, migranti e UE: i paradossi del nuovo euro-scetticismo

    Crisi, migranti e UE: i paradossi del nuovo euro-scetticismo

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 20 ottobre

    Tra gli italiani e l’Europa è un momento di rapporti difficili e confusi. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto dell’Eurobarometro, ma anche da altre rilevazioni recenti e non. Che i rapporti siano difficili non è una novità. L’atteggiamento favorevole degli italiani nei confronti della Comunità Economica Europea prima e della Unione poi è cambiato moltissimo negli ultimi trenta anni. Fino alla fine degli anni 80 circa il 70% pensava che l’appartenenza alla Unione avesse portato dei benefici al nostro paese Oggi solo il 43% ha la stessa opinione. La percentuale più bassa tra tutti gli stati membri. Al penultimo posto c’è la Grecia dove, nonostante la troika e tutto il resto, il 54% ritiene che il paese abbia ricavato dei benefici dalla appartenenza alla UE. Addirittura il 60% dei britannici la pensa così oggi, nonostante la Brexit o forse a causa della Brexit.

    La disaffezione degli italiani nei confronti della UE è tale che nell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro solo il 44% di loro ha risposto che voterebbe per rimanere nella UE nel caso in cui si tenesse domani un referendum al riguardo. Anche in questo caso si tratta del valore più basso tra tutti i 28 paesi. È vero che la percentuale di coloro che non hanno risposto a questa domanda è molto elevata, il 32%, ma il dato resta comunque molto significativo e preoccupante. Ma ciò che è ancora più preoccupante, e per un altro motivo, è la risposta alla domanda sull’Euro. In questo caso è stato chiesto agli intervistati se fossero a favore o contrari a una Unione Economica e Monetaria con una valuta comune. Non è proprio la stessa domanda fatta su un eventuale referendum, ma è lecito supporre che una opinione positiva sull’Euro equivalga a un voto per restare nell’eurozona. Ebbene, sorprendentemente, il 65% degli italiani ha dichiarato di essere a favore dell’Euro. La percentuale bassa, solo il 9% che non ha risposto, rafforza il dato. In questo caso la posizione dell’Italia è addirittura superiore alla media dei 28 paesi, che è 61. In sintesi, l’UE non va bene agli italiani, ma l’Euro sì. Qui sta la preoccupazione, nella confusione che sembra emergere da questi dati contraddittori.

    Come spiegare questa contraddizione? In parte è certamente il risultato della scarsa informazione. Gli italiani sono confusi perché sono poco informati. C’è da dire però che il dato sulla volontà di restare nell’Euro sembra solido. Almeno per ora. Qualche giorno fa in un sondaggio Ipsos alla stessa domanda se restare nell’Euro o tornare alla lira il 61% ha risposto di preferire l’Euro. Più o meno, le stesse percentuali che si riscontrano in un sondaggio di Quorum di qualche settimana fa. Gli italiani si sentono protetti dalla moneta unica, ma sono delusi dalla UE.

    È una disaffezione che viene da lontano, come abbiamo già detto. Ed è certamente legata all’andamento negativo della economia italiana negli ultimi anni e alla spiegazione che ne danno i partiti. Nella Figura 1 in pagina si vede bene come il giudizio sulla Unione Europea si sia nettamente divaricato tra noi e i cittadini degli altri paesi a partire dal 2008. È plausibile spiegare questa divaricazione con il fatto che nella maggioranza degli altri paesi l’economia è cresciuta molto più che in Italia. Tant’è che ora che l’economia ha dato segnali di ripresa anche da noi il giudizio sulla UE è migliorato. La nostra ripresa però dopo la recessione seguita alla grande crisi del 2008 è stata tardiva e stentata. E i nostri partiti sia i vecchi, che ancora di più i nuovi, hanno trovato comodo addebitare all’Europa, e non alle debolezze strutturali del paese, la causa dei nostri mali.

    Fig. 1 – Percetuale di valutazioni positive circa l’appartenenza del paese alla UE nel corso del tempo (P=Primavera, A=Autunno)crisi_migranti_1

    Fonte: Jacques Delors Institute

    Naturalmente l’Unione ci ha messo del suo. La gestione a livello europeo della questione migratoria è stata disastrosa e ha fornito ai nostri populisti una enorme opportunità per prendere voti attaccando le inefficienti istituzioni europee. E così Bruxelles è diventata il capro espiatorio sia per la insoddisfacente situazione economica che per il mancato sostegno al controllo dei flussi migratori. Peccato. Perché l’immigrazione poteva diventare il terreno su cui ricostruire il rapporto di fiducia tra noi e l’Europa. E invece ora ci troviamo a gestire un conflitto sul bilancio che non promette nulla di buono. Resta il fatto che agli italiani l’Euro piace. Quanto meno lo considerano il male minore. Per adesso. Ma confusi come sono, non è detto che questa posizione, che oggi sembra solida, non cambi in futuro. Speriamo che l’economia dia una mano.

  • Nazareno-bis, dialogo con M5S o “aspettando Godot”: 3 scenari per il PD

    Nazareno-bis, dialogo con M5S o “aspettando Godot”: 3 scenari per il PD

    Pubblicato sul Sole 24 Ore del 4 settembre 2018

    La mancanza di una opposizione credibile è una delle tante anomalie italiane. E’ forse la caratteristica politica più rilevante in questa fase confusa della nostra storia. Non è che manchi l’opposizione all’attuale governo. Ci sono partiti fuori dal governo che fanno opposizione, ma la fanno male. Non sono credibili. Questo è il punto. Le ragioni della loro scarsa credibilità sono state messe in luce da Sergio Fabbrini sulle pagine di questo giornale Domenica scorsa.  A differenza però di quello che scrive Fabbrini l’assenza di opposizione è un fenomeno recente.  Tra il 1994 e il 2018 l’assetto bipolare del sistema dei partiti aveva assicurato l’esistenza di una opposizione più o meno credibile. E’ a partire dal 2013, con il grande successo del M5s, che quell’assetto è stato messo in crisi. Il resto lo hanno fatto il declino del Pd e di Forza Italia. Così nasce l’anomalia del governo attuale. Un governo senza una opposizione credibile. Sembra di essere tornati ai tempi del governo Renzi dopo le europee del 2014 quando circolava la teoria-sbagliata-del gigante e dei tanti nani. Tutto questo solo pochi anni fa. Questo per dire come cambiano rapidamente le cose in questi tempi liquidi.

    Come uscire da questa fase ? Che fare per ricostruire una opposizione credibile?

    C’è chi pensa che –come nel periodo 1993-1994- esistano oggi le condizioni per la formazione di nuovi partiti e quindi di una nuova opposizione.  E’ una ipotesi plausibile. Ma al momento non si vedono all’orizzonte leader capaci di sfidare gli attuali partiti.

    In mancanza di nuovi attori, la ricostruzione dell’ opposizione deve necessariamente passare dalla eventuale ridefinizione dei rapporti tra gli attuali protagonisti della scena politica. Uno degli scenari teoricamente possibili coinvolge Pd e Forza Italia. E’ plausibile che questi due partiti possano trovare un accordo per presentarsi come opposizione credibile all’attuale governo?  Si tratterebbe né più né meno di un nuovo ‘patto del Nazareno’.  Non per fare le riforme istituzionali, ma per garantire il legame dell’Italia con l’Europa. Ecco. Questo potrebbe essere il minimo comune denominatore. E  le prossime elezioni europee ne diventerebbero il banco di prova. Se questo scenario si realizzasse il sistema dei partiti si strutturerebbe molto probabilmente sull’asse sovranismo-europeismo. Una delle consequenze sarebbe il consolidamento della alleanza tra M5s e Lega. I cinque stelle sarebbe spinti ancora di più verso la Lega di Salvini. Non ci pare uno scenario  credibile. Ma non è il solo.

    Un altro scenario teoricamente possibile,è quello intravisto fugacemente durante la fase di formazione del governo dopo il voto del 4 Marzo: un accordo tra Pd e M5s. Anche questo sembra a prima vista inverosimile. Se ne parla sotto voce. E’ una strada complicata e rischiosa per il Pd. Non c’è dubbio. Sono molti gli ostacoli da superare: il risentimento accumulato, il linguaggio, la retorica, le differenti visioni della partecipazione e della democrazia. Solo per citarne alcuni. Ma questa è comunque una altra possibilità per superare oggi l’attuale anomalia e ricreare una dinamica ‘normale’ della competizione politica con un governo da una parte – qualunque esso sia- e una opposizione credibile dall’altra. M5s e Lega non sono la stessa cosa, come pensa Veltroni. Ma anche questa è una affermazione che va dimostrata. La si può dimostrare solo aprendo un confronto. E al centro di questo confronto ci deve essere anche in questo caso l’Europa. Non dipende ovviamente solo dal Pd. Occorre che anche il M5s decida quale debba essere il suo ruolo in Italia e in Europa. L’ambiguità non può durare in eterno. Si vedrà se le prossime europee saranno l’occasione per fare chiarezza.

    Il terzo scenario è quello in cui non si muove nulla. Il Pd sta sulle sue, aspettando Godot. Diviso e incapace di scegliere. Nell’attesa che l’eventuale fallimento dell’attuale governo riapra prospettive elettorali inedite. Cinque Stelle e Lega continuano a negoziare sulle priorità da assegnare all’ azione di governo, tirando la coperta ciascuno dalla propria parte. Senza però far saltare il banco. Anche loro in attesa delle elezioni europee. Questo è lo scenario più probabile. Bisogna vedere cosa ne penseranno i mercati finanziari dopo la legge di bilancio e con la BCE che non farà più la sua parte come ha fatto in questi ultimi anni. Forse saranno loro la vera opposizione. Non proprio quella di cui abbiamo bisogno.

  • Nei ballottaggi un test sugli elettori M5S

    Nei ballottaggi un test sugli elettori M5S

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 24 giugno

    Oggi si vota in 75 comuni superiori ai 15.000 abitanti oltre al Municipio 3 di Roma. Quattordici sono comuni capoluogo. Si tratta di una consultazione elettorale “minore” rispetto ad altre elezioni amministrative, ma 75 ballottaggi rappresentano in ogni caso un test significativo sia per gli esiti che si determineranno che per le informazioni che se ne potranno ricavare sulle tendenze di voto. Due domeniche fa il risultato è stato buono per il centrodestra, discreto per il PD, negativo per il M5S. Ma il vero bilancio si potrà fare solo questa sera.

    Vincere un ballottaggio non è cosa semplice. È vero che un buon risultato al primo turno spesso si traduce in successo al secondo. Ma non sono pochi i casi in cui questo non si verifica. Ne sanno qualcosa Alessandro Cattaneo candidato sindaco del centrodestra a Pavia che nel 2014 prese il 46,7% al primo turno e Luigi Petrone, candidato del centrosinistra a Potenza che nel 2014 prese il 47,8%. Entrambi hanno perso al secondo turno. Come Americo Di Benedetto che a L’Aquila l’anno scorso arrivò al 47,1%, ma non vinse al ballottaggio contro Pierluigi Biondi del centrodestra che al primo turno aveva preso il 35,8% (Mannoni 2017Mannoni e Paparo 2017).

    Per vincere un ballottaggio occorre fare due cose: riportare a votare tutti quelli che ti hanno votato al primo turno e farsi votare da una parte di coloro che al primo turno avevano votato candidati non ammessi al secondo. Entrambe sono operazioni difficili. Al primo turno ci sono le preferenze a mobilitare tanti elettori a favore dei candidati sindaco. Soprattutto nei comuni del Sud questo è un fattore decisivo. Al secondo turno senza preferenze tanti elettori restano a casa. Lo stesso comportamento tende a prevalere tra chi ha votato al primo turno uno dei candidati perdenti. Ma tra questi elettori ci sono anche quelli che scelgono di esprimere una seconda preferenza. Dopo aver votato il candidato preferito al primo turno, decidono di votare il candidato meno sgradito tra i due sfidanti al ballottaggio. Questa è stata la chiave del successo della Appendino a Torino e della Raggi a Roma. In quella occasione sono state le seconde preferenze degli elettori del centrodestra a far vincere le due candidate pentastellate (Paparo e Cataldi 2016a).

    Cosa succederà oggi? I candidati del M5S al ballottaggio sono pochi, sette in tutto. Sono presenti in tre capoluoghi. A Ragusa sfidano un candidato di destra, ad Avellino un candidato di centrosinistra, a Terni un candidato di centrodestra.

    Tab. 1 – I ballottaggi nei comuni capoluogo (in grassetto sono indicati i poli che schierano in quel comune il sindaco uscente)dettaglio14

    Negli altri quattro comuni corrono tre volte contro un candidato del centrodestra (Pomezia, Assemini e Acireale) e una volta contro un candidato del centrosinistra (Imola). Anche in passato il M5S ha sempre faticato ad arrivare al ballottaggio, ma una volta lì vinceva grazie alla sua capacità di attrarre voti da tutte le parti (Maggini 2016, Emanuele e Paparo 2017). Sarà così anche questa volta? Il vero interesse di questa consultazione però è un altro. La maggioranza relativa dei 75 ballottaggi vede in gioco un candidato del centrosinistra e uno del centrodestra. È così in 33 comuni, tra cui Pisa, Siena, Ancona, Teramo. Più in generale, escludendo i comuni in cui è presente un candidato cinque stelle, sono 41 i comuni con un candidato di centrosinistra e 55 quelli con un candidato di centrodestra. In molti tra questi comuni l’esito potrebbe essere deciso dal comportamento degli elettori del M5S. Cosa faranno? Staranno a casa o sceglieranno uno dei due sfidanti? E in questo ultimo caso chi preferiranno?

    Tab. 2 – Quadro riassuntivo delle sfide nei ballottaggiriepilogo75

    Negli ultimi anni molti elettori cinque stelle si astenevano, ma tra quelli che tornavano alle urne prevaleva il voto per il candidato del centrodestra (Carrieri e Paparo 2017Mannoni e Paparo 2017Paparo e Cataldi 2016b), o per candidati di liste civiche non collegate al PD (Vittori e Paparo 2017). Ma i tempi sono cambiati. Adesso il M5S è al governo con la Lega Nord. Non è più solo. Ha fatto una scelta che non è piaciuta a tutti. Per di più l’alleanza con Salvini sta creando malumori anche tra chi l’aveva approvata inizialmente. È questo che rende il voto di oggi interessante per capire cosa si muove all’interno del corpo elettorale. In particolare per capire se il PD è capace, quanto meno a livello locale, di recuperare una parte dei voti perduti a livello nazionale. L’esito dei cruciali ballottaggi di Pisa e di Siena dipenderà anche da questo fattore.

    Riferimenti bibliografici

    Carrieri, L. e Paparo, A. (2017), ‘I flussi elettorali a Genova: Bucci vince grazie ai voti 2013 del M5s’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017,  Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 231-235.

    Emanuele, V. e Paparo, A. (2017), ‘Il centrodestra avanza, il Pd arretra: è pareggio. I numeri finali delle comunali’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017,  Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 191-199.

    Maggini, N. ‘Il quadro riassuntivo dei ballottaggi: arretramento del PD, avanzata del centrodestra e vittorie storiche del M5S’ in V. Emanuele, N. Maggini e A. Paparo (a cura di), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Dossier CISE(8), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 145-153.

    Mannoni, E. (2017), ‘A L’Aquila il centrosinistra supera il 50% ma il suo candidato no: i risultati e i flussi elettorali’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017,  Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 149-153.

    Mannoni, E. e Paparo, A. (2017), ‘I flussi elettorali a L’Aquila: gli elettori 2013 del M5s consegnano la vittoria al centrodestra’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017,  Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 249-253.

    Paparo, A. e Cataldi, M. (2016a), ‘La mutazione genetica porta all’estinzione? I fussi elettorali fra primo e secondo turno a Torino’ in V. Emanuele, N. Maggini e A. Paparo (a cura di), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Dossier CISE(8), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 155-157.

    Paparo, A. e Cataldi, M. (2016b), ‘Il PD che ancora riesce a vincere: i flussi fra primo e secondo turno a Milano e Bologna’ in V. Emanuele, N. Maggini e A. Paparo (a cura di), Cosa succede in città? Le elezioni comunali 2016, Dossier CISE(8), Roma, Centro Italiano Studi Elettorali, pp. 163-168.

    Vittori, D. e Paparo, A. (2017), ‘I flussi elettorali a Parma: Pizzarotti ancora il preferito per elettori di centrodestra e M5s 2013’, in Paparo, A. (a cura di), La rinascita del centrodestra? Le elezioni comunali 2017,  Dossier CISE(9), Roma, Centro Italiano di Studi Elettorali, pp. 225-230.


    NOTA:

    Sinistra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra PAP, RC, PCI, PC, MDP, LEU, SI, Verdi, IDV, Radicali, ma non dal PD;

    il Centrosinistra è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia il PD;

    il Centro riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra  NCI, UDC, CP, NCD, FLI, SC, PDF, DC, PRI, PLI;

    il Centrodestra  è formato da candidati nelle cui coalizioni a sostegno compaia FI (o il PDL);

    la Destra riunisce tutti i candidati sostenuti da almeno una fra  Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, DivBell ma non FI (o PDL).

    Quindi, se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centrosinistra e al centrodestra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno.

    Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico (Altri). Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).

  • In Friuli si completa il successo della Lega: governatore e oltre un terzo dei voti

    In Friuli si completa il successo della Lega: governatore e oltre un terzo dei voti

    Pubblicato su Il Sole 24 Ore del Primo Maggio.

    La Lega Nord di Matteo Salvini ha ottenuto in Friuli-Venezia Giulia un successo politico indiscutibile. Mai in questa regione era arrivata al 34,9% dei voti. E questo senza tener conto dei voti della lista collegata al suo candidato alla presidenza che ha preso il 6,3%. Ma c’è di più. Mai in una qualunque regione era arrivata a questa percentuale. Nemmeno in Veneto e in Lombardia. A tutto ciò bisogna aggiungere la riconferma, non inattesa a dire il vero, del sorpasso su Forza Italia che si era già verificato alle politiche. Allora la distanza tra il partito di Salvini e quello di Berlusconi era stato di 15 punti percentuali (il 25,8% contro il 10,7%), in queste regionali è diventato di quasi 23 punti (il 34,9% contro il 12,1%). Insomma per Salvini un successo su tutta la linea che conferma la validità del suo progetto e la forza della sua leadership, e forse anche l’abilità con cui si è mosso nel corso dei negoziati per la formazione del governo.

    Detto ciò, occorre però anche distinguere tra percentuali e elettori. Le percentuali ci dicono chi vince e chi perde. Gli elettori ci dicono quali sono le dinamiche del voto. Questa distinzione è cruciale soprattutto quando si confronta il risultato delle recenti politiche con quello delle regionali di domenica. Tra politiche e regionali i voti alla Lega Nord non sono cresciuti. Erano 177.809 il 4 marzo, sono stati 147.340 domenica scorsa (Tab. 1). Il suo elettorato non si è allargato, anche se senza la lista di Fedriga è possibile che la lista della Lega Nord avrebbe avuto qualche voto in più. In ogni caso non sarebbe corretto dire che la Lega Nord ha ‘sfondato’ ulteriormente in questa regione e tanto meno nel resto del Nord. La differenza tra percentuali e elettori l’ha fatta l’affluenza. Alle politiche infatti sono andati a votare il 75,1% degli elettori, alle regionali solo il 49,6%. La Lega Nord ha sfruttato molto bene il calo della partecipazione elettorale riuscendo a portare a votare anche alle regionali una quota molto elevata degli elettori che l’avevano votata il 4 marzo. Anche se non tutti. Sempre guardando ai valori assoluti aggiungiamo che in Friuli-Venezia Giulia nel 1996 la Lega Nord di Bossi aveva fatto meglio di quella di Salvini. Allora con una partecipazione elettorale del 86,2% aveva ottenuto circa 196.000 voti (il 23%), cioè più di quanti ne ha presi la Lega Nord di Salvini alle politiche del 4 marzo e alle regionali di domenica scorsa.

    La capacità, dimostrata dalla Lega Nord, di mobilitare il proprio elettorato è mancata invece al M5S. Colpisce il calo del partito di Di Maio dal 24,6% delle politiche all’11,7% delle regionali. Era successo anche in Molise il 22 aprile scorso, ma in Friuli-Venezia Giulia la differenza è ancora più accentuata. Certamente hanno giocato anche in questo caso fattori ben noti. Non è una novità che il M5S vada meglio alle politiche che alle regionali. È successo in Sicilia, in Molise e in altre regioni. La forza del brand Cinque Stelle si esprime meglio in una competizione nazionale. Il suo radicamento territoriale è modesto in generale e soprattutto rispetto a quello di un partito come la Lega Nord. Anche in Friuli-Venezia Giulia ha dovuto competere con coalizioni formate da molte liste (anche se meno che in Molise). Insomma ci sono valide ragioni per ‘giustificare’ una performance molto deludente. Detto ciò, resta però il sospetto che forse c’è dell’altro. Forse il gradimento nei confronti del Movimento è calato tra gli elettori del Nord. Forse le vicende romane hanno avuto un impatto negativo. Solo dati di sondaggio potranno chiarire la questione. Ma l’ipotesi che il voto al Movimento sia ”fragile” è plausibile.

    Il PD ha perso, ma non è andato male. E anche qui troviamo una conferma. Anche il 4 marzo al Nord aveva tenuto meglio che in altre zone del paese. Questo è un dato importante da cui ripartire. Ma certo non lo si può fare con un partito acefalo. E con il rischio che a settembre si torni a votare.

    Tab. 1 – I risultati elettorali del 2018 in Friuli-Venezia Giulia, confronto con il 2013 (clicca per ingrandire)[1]FVG_tableu

    Riferimenti bibliografici

    De Lucia, F. (2013), ‘Friuli VG: vince di un soffio Serracchiani su Tondo, i 5 stelle non sfondano’, Roma, Centro Italiano Studi Elettorali.


    [1]NOTA: Nella parte superiore della tabella sono presentati i risultati al proporzionale; nella parte inferiore si usano i risultati maggioritari (per le regionali).

    Sinistra è la somma dei risultati ottenuti da candidati (regionali) o partiti (politiche) di sinistra ma non in coalizione con il PD;

    il Centro-sinistra somma candidati (regionali) del PD o le coalizioni (politiche) con il PD;

    Il Centro è formato da candidati (regionali) o coalizioni (politiche) sostenuti o contenenti almeno uno fra NCI, UDC, NCD, FLI, SC;

    il Centro-destra somma candidati (regionali) sostenuti da FI (o PDL) o coalizioni (politiche) contenenti FI (o PDL);

    la Destra è la somma di candidati (regionali) sostenuti, contro FI/PDL, da Lega, FDI, La Destra, MNS, FN, FT, CasaPound, o coalizioni (politiche) contenenti almeno uno di questi. Pirozzi è stato inserito in questa voce, così come le liste a suo sostegno nella parte superiore della tabella.

    Criteri per l’assegnazione di un candidato a un polo: se un candidato è sostenuto dal PD o da FI (o PDL) è attribuito al centro-sinistra e al centro-destra rispettivamente, a prescindere da quali altre liste facciano parte della coalizione a suo sostegno. Se un candidato è sostenuto solo da liste civiche è un candidato civico. Se una coalizione è mista civiche-partiti, questi trascinano il candidato nel loro proprio polo se valgono almeno il 10% della coalizione, altrimenti il candidato resta civico. Se un candidato è sostenuto da partiti appartenenti a diverse aree (escludendo PD e FI/PDL che hanno la priorità), si valuta il relativo contributo dei diversi poli alla coalizione del candidato per determinarne l’assegnazione (al polo che pesa di più).