Autore: Vincenzo Emanuele

  • Regionali in Basilicata, l’astensione è maggioranza assoluta. Il centrosinistra (ri)vince con il 60%

    di Vincenzo Emanuele

    Il distacco dalla politica e il rifugio nell’astensione è ormai il dato costante della politica italiana negli anni della crisi. Di fronte agli scandali che colpiscono la classe politica, l’elettorato sceglie, per dirla con Hirschman [1970], non di esercitare l’opzione “voice”, ossia di protestare, ma di abbandonare il gioco praticando la “exit”.

    E’ quanto accaduto anche nella elezioni regionali in Basilicata che si sono appena concluse. La giunta di centrosinistra guidata da De Filippo – vincitore con il 61% dei consensi nel 2010 –  è stata travolta da un’inchiesta sui rimborsi elettorali illeciti, trascinando così la regione ad elezioni anticipate. La risposta degli elettori è stata la stessa registrata in Sicilia alle regionali del 2012 e nel resto del paese alle ultime amministrative: la maggioranza assoluta dei lucani non si è recata alle urne. Ha votato il 47,6%, oltre 15 punti in meno rispetto alle regionali 2010 che già si inserivano in un quadro di costante erosione della partecipazione al voto. Come vediamo nella Figura 1, mettendo a confronto i dati delle ultime 5 elezioni regionali, emerge un dato lampante: dal 1995, ossia da quanto è stato introdotto il nuovo sistema elettorale per le elezioni regionali[1], l’affluenza in Basilicata è diminuita di 31 punti. Metà di questi 31 punti sono da attribuire al quindicennio 1995-2010, metà circa a queste ultime elezioni. La crisi di partecipazione è dunque un fenomeno di lungo periodo ma negli ultimi tempi quello che era un lento declino è divenuto un crollo inarrestabile.

    Fig. 1 Affluenza alle elezioni regionali in Basilicata, 1995-2013.

     

    La minoranza dei lucani che si è recata alle urne doveva scegliere tra 8 candidati Presidente e 16 liste.

    Il centrosinistra è forte di una lunga tradizione di vittorie, tale da qualificare la Basilicata come vera e propria enclave rossa (o meglio “rosa” dal momento che la tradizione politica dominante era quella democristiana) del Sud. Dal 1994 ad oggi il centrosinistra ha sempre vinto le elezioni ad ogni livello, dalle amministrative alle europee. A volte lo ha fatto con percentuali bulgare, come alle regionali del 2000 e del 2005 in cui ha sfiorato il 70% nel voto alle liste o come nel 2010 (67,6% contro il 27,2% delle liste di centrodestra). Altre volte ha vinto con un margine inferiore, come alle ultime politiche in cui, pur in un contesto politico profondamente mutato, la coalizione di Bersani è arrivata prima con il 34,2%, distanziando di 10 punti sia il Movimento 5 Stelle sia il centrodestra di Berlusconi.

    Nel voto di ieri la coalizione di centrosinistra, “dimagrita” dopo le fuoriuscite dell’Udc (entrato in coalizione con il Pdl) e di Sel (che schierava una propria candidata, Maria Murante) ha riconfermato il proprio predominio in regione: Maurizio Pittella (fratello del candidato alla segreteria del Pd) è stato eletto Presidente con il 59,6% dei consensi contro appena il 19,4% ottenuto da Salvatore Di Maggio candidato del centrodestra e il 13,2% di Piernicola Pedicini del M5S (vedi Tabella 1).

    Tab. 1 La competizione maggioritaria, valori assoluti e percentuali.

     

    Pittella ha dunque conquistato la regione con un percentuale di voti analoga a quella ottenuta da De Filippo nel 2010, nonostante la buona affermazione della candidata di Sel (5,2%). Se in termini assoluti la sinistra paga dunque una larga emorragia di consensi rispetto al 2010 (circa 54.000 voti in meno), in termini relativi queste elezioni si rivelano un successo clamoroso: nonostante gli scandali che hanno colpito la giunta De Filippo, Pittella non sembra aver subito un astensionismo asimmetrico e rivince con il 60% in un contesto politico decisamente più concorrenziale rispetto a quello del 2010 (vista la presenza del M5S e della candidata di Sel). Le liste a sostegno di Pittella raccolgono il 62,7% dei voti contro il 21,5% del centrodestra. Distacchi del genere oggi non sono riscontrabili in nessun’altra parte del paese e fanno della Basilicata la regione meno contendibile ed elettoralmente competitiva d’Italia.

    Il Pd resta sotto il 25% perdendo oltre 20.000 voti rispetto alle politiche di febbraio e oltre 28.000 rispetto alle regionali (vedi Tabella 2). Eppure, sommando ai suoi voti quelli della lista Pittella (seconda lista più votata con il 16%) supera il 40% crescendo percentualmente rispetto alle regionali a scapito della sinistra radicale, rappresentata in coalizione dalla sola Idv (3,5%) mentre nel 2010 Idv, Verdi e Rifondazione totalizzavano insieme il 14,2%. Sorprendente il risultato del Psi (7,5%), ancor più di quello del Centro democratico (5%) che comunque nel 2010 aveva ottenuto il 4,2% (allora si chiamava Api).

    Tab. 2 Il voto alle liste e confronto con politiche 2013 e regionali 2010, valori assoluti e percentuali.

     

    Stupisce invece l’incapacità del centrodestra di lucrare elettoralmente dal fallimento della giunta De Filippo: Di Maggio peggiora, e non di poco, la prestazione di Nicola Pagliuca, candidato nel 2010 (-8,5 punti e quasi 45.000 voti in meno), nonostante una coalizione allargata a Scelta Civica e all’Udc. Le sue liste arretrano di 13 punti e oltre 60.000 voti rispetto alle scorse regionali. A pagare è in particolare il Pdl, che chiude la sua storia elettorale (vista la scissione consumata in questi giorni fra Forza Italia e Nuovo Centrodestra) con un deludente 12,3%  e 29.000 voti, meno della metà di quelli raccolti sia alle politiche che alle regionali (in cui in entrambi i casi si era attestato attorno al 19%).

    Il Movimento 5 Stelle, infine, conferma anche in Basilicata quanto già mostrato in altre competizioni a livello locale. Nonostante un terreno sulla carta favorevole alla sua retorica anti-establishment (lo scandalo dei rimborsi e la possibile crisi dell’egemonia della sinistra in regione) il partito di Grillo non sfonda, fermandosi al 13% nella competizione per il Presidente e al 9% al proporzionale (-15,3 punti e 54.000 voti in meno rispetto alle politiche). Quando la competizione scende sul terreno locale e si personalizza (sia per l’elezione diretta del Presidente che per il voto di preferenza ai consiglieri) il Movimento non è in grado di competere alla pari con gli altri due grandi partiti e così la meccanica bipolare del sistema, che sembrava abbattuta per sempre dopo le politiche di febbraio, ricompare a livello locale.

    Il risultato elettorale consegna a Pittella una solida maggioranza di 12 seggi sui 20 totali che compongono il Consiglio (erano 30 fino alla scorsa legislatura). L’opposizione di centrodestra raccoglie 5 seggi, il Movimento 5 Stelle 2 e Sel 1.



    [1] Si tratta della legge n. 43/1995, completato dalla successiva legge costituzionale n. 1/1999. Il sistema prevede l’elezione diretta del Presidente della Regione e l’assegnazione del premio di maggioranza (il cosiddetto “listino”) alla coalizione collegata al Presidente eletto. Per approfondire vedi Chiaramonte e Tarli Barbieri [2007].

  • Comunali in Sicilia, il M5S scompare ma il Pd non può esultare

    di Vincenzo Emanuele

    Con due settimane di ritardo rispetto al resto del paese, la Sicilia ha votato per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali di 142 comuni di cui 20 superiori ai 15.000 abitanti[1] e quattro capoluoghi di provincia.

    Il contesto in cui si è svolta questa tornata elettorale è stato caratterizzato da una grande frammentazione dell’offerta politica e da una sostanziale destrutturazione del sistema di alleanze consolidatosi nel corso della Seconda Repubblica (elementi già emersi alle regionali dello scorso Ottobre). Nei 20 comuni superiori si sono presentati una media di 6,3 candidati sindaco e 15,3 liste. Delle 306 liste complessivamente presenti, ben 168 (il 54,9%) facevano riferimento a candidati “terzi” rispetto a quelli sostenuti dal Pd e dal Pdl: la capacità aggregante dei due (ex) grandi partiti è decisamente venuta meno.

    La situazione di partenza nei 20 comuni superiori era nettamente favorevole al centrodestra: il Pdl e i suoi alleati governavano 12 comuni contro i 4 del Pd e i 3 dell’Udc, mentre Licata (AG) era amministrato da un sindaco esponente di una lista civica (vedi Tabella 1). Eppure le precedenti comunali, risalenti agli anni 2008-2011, non scontavano ancora il boom del Movimento 5 Stelle, esploso in Sicilia alle regionali di Ottobre[2] (15%) e confermatosi alle politiche di febbraio come la prima forza politica dell’Isola (33,5%).

    Tab. 1 Comunali in Sicilia 2013: situazione di partenza e risultati dopo il primo turno nei 20 comuni superiori.

     

    Nonostante si trattasse di elezioni comunali e perciò molto spesso dominate da fattori locali, era comunque plausibile attendersi un consolidamento del partito di Grillo e la conquista di molte città, conseguenza quasi inevitabile per un partito che raccoglieva oltre un terzo dei voti dei siciliani.

    E invece dopo l’onda inarrestabile delle regionali e delle politiche è arrivata la risacca delle comunali: il Movimento è sostanzialmente scomparso dall’Isola, portando a casa solo il ballottaggio di Ragusa. Per il resto, come possiamo notare osservando la Tabella 3, si riduce ad un misero 3,8%, con una perdita di quasi 173.000 voti e 30 punti rispetto alle politiche. In nessuno dei 19 comuni in cui si presenta la lista raggiunge la doppia cifra ed in generale supera il 6% solo a Ragusa e a Palma di Montechiaro.

    In attesa dei ballottaggi, che definiranno i contorni delle vittorie e delle sconfitte per le diverse forze politiche, il primo turno ha già emesso i propri (pochi) verdetti: 4 comuni sono infatti già stati assegnati, contro gli 11 della scorsa tornata decisi al primo turno (ulteriore segno dell’accresciuta frammentazione del sistema). Dopo 13 anni, il centrosinistra riconquista una storica roccaforte della destra berlusconiana come Catania, ancora con Enzo Bianco, già sindaco negli anni della “Primavera siciliana”, dal 1993 al 2000. Gli altri 3 comuni già assegnati sono Licata e Gravina di Catania, in cui vince il centrodestra, e Carlentini, in cui vince una coalizione guidata dall’Udc.

    Tab. 2 Coalizione vincente e prospetto dei ballottaggi nei comuni superiori, Sicilia 2013.

     

    Come vediamo nelle Tabelle 1 e 2, il quadro dei 16 ballottaggi è piuttosto variegato: il Pd e i suoi alleati ne conquistano la metà esatta, 8, e in 6 di questi partono in vantaggio dopo il primo turno. Il Pdl e i suoi alleati ne conquistano 7, ma sono in vantaggio solo a Palma di Montechiaro e a Giarre, mentre negli altri dovranno provare la rimonta. L’Udc proverà a conquistare i comuni di Piazza Armerina e Modica partendo da una posizione di vantaggio sui candidati avversari. Spicca poi la presenza di candidati civici che hanno ottenuto grandi risultati: sono ben 11, su un totale di 32 candidati al ballottaggio, quelli che non fanno riferimento ad alcun partito “nazionale”: in 5 casi questi candidati partono davanti e in 2 comuni, Mascalucia e Rosolini, la sfida al ballottaggio sarà tutta giocata tra candidati “civici”. Infine vi sono 3 casi di ballottaggi che vedono la presenza di partiti “minori”: a Palma di Montechiaro c’è un esponente di Cantiere popolare (il partito di Saverio Romano e degli ex cuffariani), a Biancavilla sarà Fratelli d’Italia a sfidare il Pd, mentre a Partinico la lista del “Megafono” del Presidente della Regione Crocetta parte in testa. Nel complesso, le sfide tra Pd e Pdl sono solamente 2 su 16 (Aci Sant’Antonio e Comiso). Nei ballottaggi del resto del paese erano invece ben 36 su 66. E questo è un ulteriore dato che attesta il preoccupante stato di liquefazione del sistema partitico siciliano che si configura come autentico caso estremo in un quadro nazionale di per sé già alquanto destrutturato.

    Oltre alla sostanziale scomparsa del M5S, in queste ore i commentatori, forse sulla scia del successo del partito nel resto d’Italia, enfatizzano il grande risultato del Pd siciliano. Eppure i dati ci dicono che non è affatto così. Se escludiamo la vittoria di Catania, imputabile più alla popolarità di Bianco che al successo del suo partito, il Pd non ha molto da festeggiare. In 8 comuni su 16 non va neppure al ballottaggio e le liste democratiche arretrano rispetto alle politiche di 7,8 punti di media (-43.000 voti), con punte fra il 10 e il 15% a Messina, in alcuni comuni del catanese e a Palma di Montechiaro. Il partito resta aggrappato ad un misero 10,4% rimanendo per mezzo punto sotto al Pdl (10,9%). Il Pd amministrava 4 comuni: proverà a tenere Modica e Biancavilla al ballottaggio, ma i suoi sindaci sono già stati battuti a Piazza Armerina e Mascalucia. Fra 2 settimane il conteggio delle sue vittorie sarà probabilmente più generoso dei quattro comuni in cui era uscente. In questo senso si può parlare di “vittoria”. Ma è una vittoria ottenuta in retromarcia, grazie alla scomparsa o al crollo dei suoi competitors.

    Tab. 3 Percentuali di voto di Pdl, Pd e M5S nei 20 comuni superiori, confronto Politiche-Comunali 2013.

     

    Chi senza dubbio alcuno ha perso le amministrative in Sicilia è il Pdl. Dopo 15 anni di dominio assoluto sull’Isola (si pensi allo storico 61-0 delle politiche del 2001), il partito di Berlusconi, già sconfitto un anno fa alle comunali di Palermo e alle regionali ad ottobre, aveva mantenuto la maggioranza relativa (come coalizione) al Senato lo scorso febbraio, pur risultando secondo alle spalle di Grillo alla Camera. In questa tornata amministrativa registra un cospicuo arretramento. Il Pdl governava 12 comuni su 20, fra cui Catania, Messina, Ragusa e Siracusa. Oggi rimane fuori dai ballottaggi in tutti e 4 i capoluoghi, nonché a Scordia, Comiso, Carlentini e Rosolini. Fra due settimane le sue vittorie totali oscilleranno fra 2 e 9, un risultato comunque inferiore alle 12 città in cui era uscente. Le sue liste, inoltre, registrano ovunque un’emorragia di consensi seconda solo a quella del M5S: pur risultando il primo partito dell’Isola, nei 20 comuni in questione il Pdl perde oltre 97.000 voti rispetto alle politiche (16,8 punti), passando dal 27,8% al 10,9% e risultando ovunque con percentuali inferiori al 17% (vedi Tabella 3).

    Infine, diamo uno sguardo al rendimento degli “incumbents” (Tabella 4), ossia i sindaci uscenti: erano 8. Di questi 2 sono già stati eliminati (Catania e Piazza Armerina), e altrettanti sono stati rieletti (Gravina di Catania e Carlentini). Nelle altre 4 città proveranno a confermarsi alla guida dei rispettivi comuni al ballottaggio, partendo in 2 casi da una posizione di vantaggio (Biancavilla, Partinico), mentre in altre due città inseguono il rivale (Adrano, Comiso). E’ però interessante notare che in ben 3 casi su 8 l’incumbent ha modificato la propria colorazione politica rispetto alle precedenti comunali: a Carlentini il sindaco (ex Pdl) si è presentato in una coalizione guidata dall’Udc, mentre il primo cittadino di Adrano ha fatto esattamente il percorso opposto, passando dallo scudocrociato al partito di Berlusconi. A Partinico, invece, il sindaco eletto sotto le insegne dell’Udc è oggi sostenuto dal Megafono di Crocetta.

    Tab. 4 Il rendimento dei sindaci uscenti, Sicilia 2013.



    [1] In seguito ad una modifica della legge elettorale regionale per l’elezione dei consigli comunali dell’Isola (legge n° 6/2011), anche in Sicilia, come nel resto d’Italia, i ballottaggi hanno luogo solo nei comuni superiori ai 15.000 abitanti (non più in quelli superiori ai 10.000, che in queste elezioni erano 39).

    [2] Per un’analisi delle elezioni regionali siciliane vedi il Dossier Cise 3, a cura di Lorenzo De Sio e Vincenzo Emanuele.

  • Ballottaggi, l’affluenza cala ancora ma rimane sui livelli delle comunali 2012

    di Vincenzo Emanuele

     Nel giorno dello storico cappotto del centrosinistra ai danni del centrodestra (il conteggio finale è di 16-0 nei comuni capoluogo) l’altro dato da registrare è l’ulteriore abbassamento della partecipazione elettorale. L’affluenza era già crollata due settimane fa rispetto alle ultime comunali (60,5% nei 92 comuni superiori con un calo di 16,2 punti), oggi arretra di altri 11,2 punti nei 66 comuni superiori ai 15.000 abitanti in cui ha avuto luogo il turno di ballottaggio. La partecipazione è infatti scesa sotto la soglia simbolica del 50% dei votanti (48,6%). Escludendo dall’aggregato il caso elettoralmente “pesante” del comune di Roma, in cui l’affluenza è scesa un po’ meno (-7,7 punti) ma è rimasta inferiore alla media nazionale (45,1%), la partecipazione complessiva degli altri 65 comuni è stata leggermente superiore alla metà degli aventi diritto (52,4%), con un calo di ben 15 punti rispetto a due settimane fa (vedi Tabella 1).

    Tab. 1 Confronto fra partecipazione al I e al II turno 2013 nei diversi aggregati.

     

    Prendendo in esame i soli 11 capoluoghi l’affluenza diminuisce di 9 punti (oltre 18 escludendo Roma) attestandosi su un livello ancora più basso (46,7%). Più di un elettore su due è rimasto a casa.

    Eppure questo dato negativo non è un’assoluta novità della politica italiana. Alle elezioni amministrative dello scorso anno era andata anche peggio: nei 19 capoluoghi al ballottaggio l’affluenza era diminuita di oltre 17 punti rispetto al primo turno, scendendo addirittura al 45,1% [Emanuele 2012, 111]. Il crollo di votanti dunque c’è ed è preoccupante, ma non rappresenta l’apice storico della crisi democratica del paese: al massimo esso può essere considerato la prosecuzione di un’onda lunga che già un anno fa aveva raggiunto livelli drammatici.

    Analizzando i dati delle principali città al voto (Tabella 2), l’affluenza è diminuita in tutti gli 11 capoluoghi, ma con intensità profondamente diverse: mentre le sfide cruciali di Brescia (-6,2 punti) e Treviso (-4,7 punti) al Nord riportano molti cittadini ai seggi, altrove si assiste ad un vero e proprio tracollo. E’ in particolare il caso di Avellino (-23,1), su cui ha indubbiamente inciso l’enorme numero di elettori rimasti senza candidato dopo il primo turno (il 58% di elettori aveva votato per candidati esclusi dal ballottaggio), e di Barletta (-27,7), città in cui la partita per il sindaco si era di fatto già chiusa dopo il primo turno (16,8 punti di distacco a favore del centrosinistra già due settimane fa).

    Tab. 2 Confronto fra partecipazione al I e al II turno 2013 nei capoluoghi di provincia.

     

    Scendendo nel dettaglio delle diverse macro-aree del paese (Figura 1), anche il turno del ballottaggio conferma la maggiore partecipazione del Nord del paese (52,3%) rispetto al Sud (48,1%), ma il dato sorprendente è quello della Zona rossa. Qui la partecipazione era già crollata al primo turno rispetto alle precedenti comunali (-20 punti). Oggi scende di altri 14 punti, raggiungendo appena il 46,3%, una cifra record. E nemmeno si può addurre la giustificazione della scarsa competitività di quest’area del paese, in cui i candidati del Pd partivano ovunque largamente in vantaggio sui rivali. La non competitività e il dominio elettorale del centrosinistra sono caratteristiche peculiari delle regioni rosse, che però da sempre spiccano per cultura civica e alti tassi di partecipazione. Evidentemente in queste regioni qualcosa si è rotto.

    Suddividendo infine il campione in tre classi di dimensione demografica, si conferma la tendenza, già evidenziata al primo turno, verso una diminuzione della partecipazione al crescere della dimensione del comune. Nella fascia di comuni compresi fra 15 e 50 mila abitanti l’affluenza è stata di 5 punti superiore alla media nazionale (53,6%), mentre nei 18 comuni compresi fra 50 e 500 mila abitanti ha votato il 51,3% e a Roma (unica città superiore ai 500 mila abitanti) appena il 45,1% (vedi Figura 2).

    Fig. 1 Affluenza nei 66 comuni superiori disaggregati per Zona geopolitica.

     

    Fig. 2 Affluenza nei 66 comuni superiori disaggregati per categorie di dimensione demografica.

     

    Dopo questa lunga panoramica sull’affluenza nei diversi aggregati e contesti territoriali rimane però da chiarire un punto: quali sono i fattori che incidono sulla maggiore o minore affluenza alle urne? L’influenza di queste variabili è statisticamente significativa?

    Una bassa affluenza al ballottaggio è per certi aspetti fisiologica ed è dovuta a diversi fattori: si vota solo per il sindaco e dunque manca il traino fondamentale del voto di preferenza per i consiglieri; si sceglie solo fra i due candidati più votati al primo turno e dunque gli elettori dei candidati esclusi perdono interesse nei confronti della sfida; molte competizioni appaiono inoltre già sostanzialmente decise dopo il primo turno, poiché il distacco tra i due candidati più votati è talmente alto da far ritenere impossibile una rimonta, e ciò disincentiva ulteriormente il ritorno dei cittadini alle urne.

    Abbiamo quindi deciso di verificare se esiste una correlazione fra la partecipazione al ballottaggio nei 66 comuni superiori e due variabili legate ai risultati del primo turno: i punti percentuali di distacco fra i primi due candidati e il totale percentuale raccolto dagli stessi al primo turno (detto anche Indice di bipolarismo). L’ipotesi è che un maggior distacco al primo turno disincentivi la partecipazione alle urne (il primo candidato è già dato per vincente), mentre una maggior percentuale dei primi due classificati tenda ad essere correlata con una più alta affluenza (il totale dei cittadini “coinvolti” dal ballottaggio è infatti maggiore). I risultati confermano l’ipotesi appena esposta. Come vediamo nella Tabella 1, vi è una correlazione negativa fra scarto percentuale dei due candidati più votati al primo turno e affluenza (r=-.302) e una correlazione di segno opposto ma di simile intensità (r=.272) fra Indice di bipolarismo e affluenza. Entrambe le associazioni risultano statisticamente significative con un intervallo di confidenza superiore al 95%.

  • Fra rimonte impossibili e sfide all’ultimo voto: la competizione nei 66 comuni al ballottaggio

    di Vincenzo Emanuele

    Archiviato il primo turno delle elezioni amministrative, per le forze politiche e i candidati rimasti in competizione è già partita la corsa verso i ballottaggi che si terranno il 9 e 10 giugno in 66 comuni superiori ai 15.000 abitanti sugli originari 92. Già da questi numeri si comprende la rilevanza del turno di ballottaggio che chiarirà chi saranno i vincitori e gli sconfitti di queste elezioni amministrative. Il primo turno ha infatti lasciato aperte molte più sfide rispetto al passato (solo 26 comuni già assegnati contro i 45 della precedente tornata elettorale), complice anche la mutata struttura del nostro sistema partitico, meno bipolare rispetto a 5 anni fa.

    In questo articolo esaminiamo la struttura della competizione nei 66 comuni superiori al voto domenica prossima, attraverso due dimensioni politicamente assai significative per comprendere il tipo di sfida che si configura nelle diverse città. La prima dimensione presa in esame è il distacco, in termini percentuali, tra primo e secondo candidato sindaco in ogni comune. Va da sé che la sfida del ballottaggio sarà quanto più aperta tanto minore è il distacco tra i due candidati che accedono al secondo turno. La seconda dimensione attiene invece al potenziale di voti “disponibili” da conquistare al ballottaggio. Essa consiste nella la percentuale dei voti raccolti dai candidati sindaco sconfitti al primo turno. Assumendo che non ci sarà una rimobilitazione di astenuti (è assai difficile che al ballottaggio l’affluenza cresca rispetto al primo turno), gli unici voti “sul mercato” sono quelli dei candidati già esclusi dalla competizione: maggiore è il numero di voti raccolti da questi candidati, più alte saranno le chances di rimonta per i candidati giunti secondi al primo turno e quindi tanto maggiore sarà lo spazio di competizione al ballottaggio.

    Incrociando le due dimensioni sulla base dei valori mediani delle rispettive variabili otteniamo quattro possibili situazioni, che delineano una vera e propria tipologia della competizione nelle 66 città (vedi Figura 1).

    Osservando la distribuzione dei punti nella Figura (ognuno dei quali rappresenta un comune) notiamo che questi si dispongono in forma piramidale, con i due quadranti inferiori che ospitano casi lungo tutto il range della variabile in ascissa, mentre nei due quadranti superiori i casi si concentrano nella parte centrale della Figura. Ciò non deve sorprendere: date le regole imposte dal sistema elettorale, non possono esservi casi di altissimo scarto tra i due candidati più votati al primo turno e contemporaneamente percentuali di voto per i candidati esclusi molto esigue (ciò vorrebbe dire che il primo classificato avrebbe superato il 50% dei voti e il ballottaggio non avrebbe luogo) o molto ampie (lo scarto tra i primi due non potrebbe essere troppo elevato dato che il totale percentuale non può ovviamente superare il 100%).

    Se vi è un alto scarto di partenza tra i due candidati e un basso numero di voti raccolti dai competitors esclusi al primo turno, le possibilità di rimonta per i secondi sono ridotte al lumicino. In questi comuni la partita del ballottaggio è quasi una formalità. Per questo il tipo di competizione che si configura è stato denominato “Partita chiusa” (quadrante in alto a sinistra). Tra i comuni di questo “tipo” troviamo città come Imperia, Viareggio, Barletta e soprattutto Roma: qui la sfida per Alemanno appare proibitiva visto soprattutto l’alto distacco al primo turno (12,3 punti), a meno naturalmente di non ipotizzare una rimobilitazione di elettori che si erano astenuti: in questo caso vi sarebbe un enorme potenziale di recupero, ma in assenza della parallela competizione proporzionale per l’elezione del Consiglio comunale è al contrario assai probabile che l’area della partecipazione si restringa ulteriormente, rendendo così il vantaggio di Marino non colmabile.

    Fig. 1 Tipologia della competizione nei 66 comuni al ballottaggio.

    Partita chiusa: Roma, Imperia, Barletta, Carate Brianza, Cinisello Balsamo, Orbassano, San Donà di Piave, Viareggio, Falconara Marittima, Porto Sant’Elpidio, Fiumicino, Santa Marinella, Marano di Napoli, Scafati, Pontecagnano Faiano, Molfetta, San Nicandro Garganico.

    Potenziale di rimonta: Ancona, Siena, Viterbo, Bareggio, Brugherio, Gorgonzola, Seveso, Bussolengo, Martellago, Piove di Sacco, Sestri Levante, Salsomaggiore Terme, Sulmona, Qualiano, Somma Vesuviana, Corigliano Calabro.

    Corsa alla rimobilitazione: Brescia, Lodi, Treviso, Iglesias, Villafranca di Verona, Nettuno, Afragola, Boscoreale, Maddaloni, Melito di Napoli, Portici, Carovigno, Corato, Modugno, Noci, Acri.

    Sfida aperta: Avellino, Bresso, Pergine Valsugana, Sona, Anzio, Formia, Pomezia, Sabaudia, Campagna, Castellammare di Stabia, Cercola, Marcianise, Acquaviva delle Fonti, Bisceglie, Manduria, Valenzano, Assemini.

    Nel quadrante in alto a destra figurano invece quei comuni che associano ad un ampio distacco fra i due principali competitors anche un ampio numero di consensi raccolti dai candidati tagliati fuori dal ballottaggio. Rispetto al quadrante in alto a sinistra, in questi comuni i margini di rimonta sono assai maggiori e tutto dipende dalla capacità di conquistare i voti andati al primo turno ai terzi candidati. Qui si collocano casi come quelli di Siena, Ancona e Viterbo. Nel capoluogo laziale, ad esempio, il vantaggio di Michelini (Pd) su Marini (Pdl) è di 10,7 punti, ma l’area del voto “disponibile” è di ben 39 punti.

    Vi sono poi i casi esattamente opposti, di comuni in cui un piccolo scarto fra i due candidati principali si associa a un basso numero di voti raccolti dagli “altri” al primo turno. In questo caso (quadrante in basso a sinistra), sarà decisiva la capacità dei due sfidanti al ballottaggio di rimobilitare i propri elettori al primo turno: dal momento che non ci sono molti altri voti in libera uscita, chi riporta i propri elettori alle urne conquista il comune. E’ il caso di Iglesias, in cui vi è stato un quasi perfetto bipolarismo al primo turno (solo 4,9 punti raccolti da altri candidati) e di altre grandi città del Nord, come Treviso, Lodi e Brescia, dove si profila una lotta all’ultimo voto tra Del Bono (Pd) e Paroli (Pdl), separati da appena 50 voti al primo turno.

    Infine il quadrante in basso a destra è caratterizzato da un basso scarto tra i primi due candidati e un alto numero di voti ottenuti dagli esclusi. In questi comuni la partita è quanto mai aperta e incerta e tutto dipenderà dalla capacità dei sfidanti di mobilitare i propri sostenitori e al contempo conquistarne di nuovi nell’ampio mercato di elettori rimasti senza rappresentanza dopo il primo turno. Il caso di Avellino è emblematico: ad un distacco di appena 2 punti fra primo e secondo si associa la presenza di un enorme potenziale di voti “disponibili”, parti al 58% dei voti validi espressi al primo turno.

    Come vediamo nella Tabella 1, la distribuzione dei comuni nelle quattro categorie della tipologia non è omogenea né per quanto concerne la Zona geopolitica né rispetto alla classe demografica del comune. I 6 comuni della Zona rossa si dispongono equamente fra i due quadranti superiori, poiché in tutti i 6 casi vi è un vantaggio del candidato del Pd superiore ai 10,3 punti (il valore mediano della variabile in ordinata). Anche i comuni del Nord tendono a concentrarsi nella parte superiore della Figura, e in particolare nel quadrante in alto a destra: ben 8 comuni settentrionali su 20 sono del tipo “Potenziale di rimonta”.

    Tab. 1 Tipologia della competizione nei 66 comuni al ballottaggio per Zona geopolitica e classe demografica.

    Al contrario, i comuni del Sud, complice la forza del Pdl, tendono a caratterizzarsi per un maggiore equilibrio tra i due sfidanti al ballottaggio: ben 26 comuni su 40 figurano nella parte bassa della grafico e fra questi ben 14 sono sfide aperte.

    Per quanto riguarda la dimensione demografica, dividendo i 66 comuni in due classi di ampiezza, notiamo la maggiore competitività delle sfide nei comuni più piccoli, quelli inferiori ai 50.000 abitanti. Mentre infatti meno del 20% dei comuni piccoli (9 su 47) ha un ballottaggio dall’esito quasi scontato (il tipo “Partita chiusa”), il 42% delle città con oltre 50.000 abitanti (8 su 19) rientra in questa categoria.

  • Comunali 2013: l’Italia è ancora bipolare

    di Vincenzo Emanuele

    Dall’analisi dei dati delle elezioni amministrative svoltesi domenica e lunedì emerge un elemento chiaro e per certi versi sorprendente: la politica locale, in Italia, è ancora strutturata su una base fondamentalmente bipolare. Questo dato appare in controtendenza rispetto agli ultimi tempi.

    Il sistema partitico italiano vive infatti ormai da anni in uno stato di perenne semi-strutturazione: dopo le politiche del 2006, anno del confronto tra le due maxi-coalizioni dell’Unione e della Casa delle Libertà, i due grandi blocchi politici di centro-sinistra e centro-destra sono stati attraversati da un processo di sfarinamento che ha visto il distacco progressivo di pezzi delle originarie coalizioni che hanno iniziato a correre in autonomia (si pensi all’Udc e a Fli nel centrodestra, alla sinistra radicale e all’Idv nel centrosinistra). Inoltre, il sistema partitico ha visto nascere anche nuovi sfidanti esterni ai due blocchi, su tutti Scelta Civica e il Movimento 5 Stelle. Ed è stata proprio la nascita di queste due nuove forze politiche a stravolgere il paesaggio del nostro sistema partitico all’indomani delle politiche 2013: il sistema bipolare radicatosi dal 1994 in poi non esisteva più, sostituito da un sistema a tre poli e mezzo. L’indice di bipolarismo faceva segnare un misero 58,7% (40 punti in meno del 2006) e quello di bipartitismo scendeva al 51%, dopo aver toccato il 70,6% alle politiche del 2008 [Chiaramonte ed Emanuele 2013, 95-96].

    In questo contesto si collocano le elezioni amministrative di domenica e lunedì.

    La Tabella 1 presenta i dati relativi ai 16 comuni capoluogo al voto. Quando parliamo di indice di Bipolarismo intendiamo la somma dei voti maggioritari raccolti dai due candidati sindaci più votati in città, mentre l’indice di Bipartitismo si riferisce alla somma dei voti ottenuti dalle due liste con i maggiori consensi. Sono due indice utili a misurare la struttura della competizione e il livello di concentrazione dei voti sulle opzioni politiche principali.

    Alle scorse comunali l’indice di bipolarismo aveva fatto segnare, nei 16 capoluoghi al voto, una media dell’ 81,9%. Una cifra alta, ma non altissima. Segno evidente che, tra il 2008 e il 2012 (gli anni delle ultime amministrative per i comuni al voto domenica e lunedì scorso), il trend di destrutturazione del sistema era già in atto, sebbene con proporzioni ancora non eclatanti. Allo stesso tempo l’indice di bipartitismo medio era stato del 50,5%: un livello molto alto se pensiamo che si trattava di elezioni comunali, sempre caratterizzate dalla presenza di numerose liste civiche e locali che riducono i consensi dei grandi partiti nazionali. Una cifra giustificata dal fatto che tutte le elezioni della precedente tornata si erano svolte successivamente alla nascita di Pd e Pdl.

    Nei 16 comuni al voto domenica e lunedì l’indice di bipolarismo ha subito un calo di quasi 10 punti, attestandosi al 72,1%. Si tratta certamente di una diminuzione considerevole, ma, guardando al dato assoluto, il 72% rappresenta una cifra che, in un contesto come quello precedentemente descritto, appare confortante. Il confronto con il 58,7% delle politiche trasforma il dato di queste amministrative, permettendoci di leggerlo nel senso di una sostanziale ripresa del bipolarismo in Italia. Anche un altro dato spinge verso questo tipo di interpretazione: quello delle amministrative dello scorso anno. Nel 2012 si votò in 26 comuni capoluogo (tra cui Palermo, Genova e Parma) e si trattò delle prime elezioni in cui emerse il fenomeno del Movimento 5 Stelle. L’indice di bipolarismo subì un crollo di oltre 18 punti, scendendo al 69% [Emanuele 2012, 53-54]. Erano i primi segnali della rottura del sistema bipolare, poi compiutamente realizzatasi alle politiche di febbraio. Il quadro riassuntivo della Tabella1 chiarisce invece il fatto che, almeno a livello locale, l’Italia del 2013 è ancora bipolare. L’indice risulta complessivamente più alto al Nord (76,5%) e più debole nella Zona rossa (65,1%) che già alle scorse comunali appariva l’area del paese con il livello più basso dell’indice. La spiegazione è facile: mentre al Nord il confronto fra le due coalizioni principali è serrato, nelle regioni rosse la mancanza di competitività del centrodestra si riflette in un cospicuo abbassamento dei valori dell’indice. Al Sud la situazione appare invece estremamente variegata, con alcune città perfettamente bipolari (Isernia e Iglesias) e, all’opposto, il caso estremo di Avellino, in cui, complice la presenza di molti candidati competitivi, i due candidati più forti raccolgono insieme appena il 41,9%. Nel complesso vi sono 13 città in cui l’indice si abbassa mentre altre 3 che registrano un’inversione di tendenza, facendo segnare un incremento del livello di bipolarismo: si tratta di Vicenza, Massa e Isernia (+17,3).

    Tab. 1 Indici di bipolarismo e bipartitismo nei comuni capoluogo (elezioni 2013 e confronto con le precedenti comunali).

    Anche l’indice di bipartitismo è sceso notevolmente in queste elezioni passando dal 50,5% al 39,7% con una perdita di quasi 11 punti. Come nel caso del bipolarismo, anche questa cifra può essere interpretata come un’inversione di tendenza rispetto al recente passato. Alle amministrative dello scorso anno ad esempio il valore dell’indice nei 26 comuni capoluogo al voto era stato ben più basso, pari in media al 34%. Alle elezioni amministrative la proliferazione di liste e il contesto locale della competizione incentivano la frammentazione e la sotto-rappresentazione dei grandi partiti. A maggior ragione nel 2013 in cui l’onda lunga delle politiche avrebbe potuto abbattersi sul voto comunale creando un’atomizzazione del sistema partitico. Non è stato così. Certo, l’indice di bipartitismo non è uguale dappertutto, anche se fra le tre aree del paese è piuttosto omogeneo, con una leggera prevalenza della Zona rossa sulle altre aree (grazie alla forza del Pd). A Iglesias si registra il livello massimo (56,5%), a Sondrio (30,9%) e Barletta (30,4%) il minimo. Rispetto alle ultime comunali vi è un vero e proprio tracollo dell’indice a Viterbo (-30 punti), Imperia (-27,5) e Roma (-25). In generale, sono 11 su 16 le città in cui esso perde valore. In controtendenza Vicenza, Treviso, Sondrio, Isernia e Barletta dove il bipartitismo appare in aumento.

    La Figura 1 incrocia i valori dei due indici per le 16 città, pervenendo così ad una più chiara visione della struttura della competizione che si realizza nei diversi contesti. La Figura è infatti divisa in 4 quadranti sulla base del valore mediano del bipolarismo (73,8%) e del bipartitismo (37%). In tal modo emergono 4 possibili situazioni. Nel quadrante in basso a sinistra troviamo quei comuni in cui il contesto politico è assai frammentato, sia per quanto concerne l’arena maggioritaria che quella proporzionale: si tratta del caso estremo di Avellino, Siena e Barletta. Anche Viterbo e Massa rientrano in questo quadrante, ma si trovano al “confine”: il capoluogo laziale pur avendo un basso bipolarismo presenta un indice di bipartitismo vicinissimo al valore mediano, mentre quello toscano risulta vicinissimo all’incrocio degli assi (valori mediani per entrambi gli indici). Nel quadrante in alto a destra troviamo invece quei comuni in cui la competizione si concentra sui candidati e sulle forze maggiori. Potremmo dire che si tratta delle città in cui il sistema partitico è più “strutturato”. Oltre al caso estremo di Iglesias, che fa da contraltare a quello di Avellino dalla parte opposta del grafico, troviamo 3 città del Nord est: Brescia, Treviso e Vicenza. Qui, complice il calo della Lega, anche l’indice di bipartitismo risulta su livelli comparativamente alti. Anche Imperia ricade in questo quadrante, sebbene vicina all’incrocio degli assi.

    Fig. 1 La struttura della competizione nei comuni capoluogo.

     

    Rimangono poi le due situazione intermedie che per certi versi sono le più interessanti: il caso di alto bipartitismo ma basso bipolarismo, e la situazione esattamente opposta. Il primo caso è rappresentato nel quadrante in alto a sinistra da due città della Zona rossa, Ancona e Pisa. In queste due città il Pd ottiene un ottimo risultato che trascina l’indice di bipartitismo, ma lo stesso non può dirsi della competizione maggioritaria in cui permangono terzi candidati con consensi notevoli. Nel quadrante in basso a destra vi sono infine le città caratterizzate da una competizione maggioritaria ridotta ai due maggiori sfidanti i quali sono però sostenuti da coalizioni ampie e con consensi distribuiti in modo assai omogeneo fra le diverse liste: in questo contesto il caso emblematico è quello di Isernia (oltre 60 punti di scarto tra i due indici), ma anche due città lombarde come Sondrio e Lodi rientrano in tale quadrante. In generale tutte le 6 città del Nord cadono nei due quadranti ad alto bipolarismo, mentre i comuni della Zona rossa sono tutti nella parte opposta del grafico. Con l’eccezione di Iglesias, invece, tutti i comuni del Sud si trovano nei due quadranti a basso bipartitismo, segno evidente di una competizione frammentata e caratterizzata dalla moltiplicazione di liste personali e civiche.

  • Comunali 2013: l’affluenza cala a picco ma il confronto con il 2008 è fuorviante

    di Vincenzo Emanuele

    Si è appena concluso il primo turno delle elezioni amministrative. In attesa di conoscere i risultati definitivi che saranno analizzati in articoli successivi, ci concentriamo qui sull’analisi della partecipazione al voto.

    Nel turno elettorale che si è appena concluso si è registrato un nuovo tracollo della partecipazione. Considerando i 16 comuni capoluogo al voto l’affluenza è stata del 56,2%, con una perdita di 19,2 punti rispetto alla tornata precedente. Anche allargando lo sguardo fino a comprendere l’insieme dei 92 comuni superiori ai 15.000 abitanti la sostanza non cambia: 60,5% di affluenza e un calo di 16,2 punti.

    E’ sulla base di questi primi numeri che giornalisti e addetti ai lavori stanno parlando in queste ore di una diminuzione di affluenza assolutamente senza precedenti. Eppure è necessario guardare attentamente tra le pieghe di questi dati per comprendere che la realtà è più complessa di queste prime frettolose rappresentazioni.

    Innanzitutto è fuorviante il termine del confronto. Nella maggior parte dei comuni al voto (57 su 92, fra i quali soprattutto Roma e altri 7 capoluoghi) lo scorso turno di elezioni amministrative era caduto in concomitanza delle elezioni politiche, il 13 e 14 aprile del 2008, beneficiando così di un fortissimo traino che aveva garantito in tali comuni un surplus di partecipazione rispetto a quella ipotizzabile in assenza del voto politico. I restanti 35 comuni (di cui 8 capoluoghi) avevano invece votato successivamente (tra il 2009 e il 2012) e in occasione di semplici tornate amministrative. Risulta perciò evidente che il confronto con il passato per quanto concerne i comuni al voto nel 2008 è assolutamente fuorviante e falsa il dato aggregato complessivo, mentre il confronto con il voto passato fra i 35 comuni che sono tornati alle urne prima della scadenza naturale della legislatura è appropriato perché riguardante condizioni di partecipazione in contesti simili.

    Tab. 1 Confronto fra partecipazione 2013 e alle ultime comunali nei diversi aggregati.

     

    E infatti, dallo studio di questi dati, emergono differenze nette: come vediamo nella Tabella 1, nei 57 comuni che avevano votato contestualmente alle politiche del 2008 la partecipazione è stata del 58,8%, con un calo di ben 18,3 punti. Guardando poi al solo dato degli 8 capoluoghi il crollo è stato di ben 20,6 punti. Una enormità.

    Osservando invece l’altro insieme, quello dei 35 comuni che avevano votato fra il 2009 e il 2012, i numeri raccontano un’altra storia: la partecipazione diminuisce, è vero, ma “solo” di 8,6 punti raggiungendo il 66,8%. Considerando il solo sottoinsieme degli 8 capoluoghi, l’affluenza cresce leggermente (68,5%) e si registra un calo di 8,2 punti rispetto all’ultima tornata. Intendiamoci, un calo di 8 punti è comunque un dato assolutamente rilevante, ma in continuità con il recente passato. Alle amministrative dell’anno scorso, infatti, nei 26 comuni capoluogo al voto la diminuzione dell’affluenza fu esattamente la stessa (8,2 punti) e la partecipazione complessiva fu del 63,5%[1] . Andando ancora più indietro, nella tornata amministrativa del 2011 (quella che coinvolgeva città come Milano, Napoli e altri 21 capoluoghi) la partecipazione fu del 65,3%.

    Sono numeri simili a quelli registrati in questa tornata. In particolare se consideriamo un secondo elemento che tende a fuorviare il dato. Si tratta del comune di Roma, che da solo comprende il 57,5% degli elettori dell’aggregato includente i 92 comuni e addirittura il 73,3% di quello comprendente i 16 comuni capoluogo. Il peso di Roma sull’aggregato totale è dunque immenso e il dato di partecipazione della Capitale tende inevitabilmente a condizionare quello complessivo. A Roma si è registrata la minore affluenza fra i 16 capoluoghi (52,8%) e una fra le più basse dell’intero insieme dei comuni superiori. Ecco quindi che scorporando Roma dai restanti comuni il dato relativo all’affluenza cambia considerevolmente: nei 15 capoluoghi diventa il 65,6%, praticamente la stessa della tornata 2011 e superiore di 2 punti rispetto al 2012. Nei 91 comuni superiori invece sale al 66,8%. Certo, parliamo sempre di cifre di partecipazione modeste, soprattutto se confrontate con la tradizione italiana, storicamente caratterizzata dalla presenza di tassi di affluenza più alti rispetto a quelli di altre grandi democrazie (fra le quali ad esempio Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Spagna) non solo alle politiche ma anche alle cosiddette “elezioni di secondo ordine” (europee, regionali, comunali). In ogni caso, però, l’enfasi posta da molti commentatori sul tracollo di partecipazione va un po’ ridimensionata.

    Tab. 2 Partecipazione al voto nei 16 comuni capoluogo.

     

    Scendendo nel dettaglio della partecipazione dei comuni capoluogo (Tabella 2), oltre al crollo clamoroso di Roma (-20,9 punti), le perdite maggiori rispetto al passato si registrano a Pisa (-24,2 punti), Sondrio (-20,2) e Brescia (-19,4). In tutti questi casi si trattava però di comuni che avevano votato nel 2008. Fra i capoluoghi che invece avevano votato tra 2009 e 2012 la diminuzione più consistente è quella di Lodi (-11,5 punti), mentre al Sud gli scarti sono più contenuti: vi sono circa 5 punti di scarto ad Avellino e a Isernia, mentre a Barletta si registra addirittura la stessa partecipazione dello scorso turno, che è anche la più alta fra i 16 capoluoghi (77,1%).

    Considerando invece l’intero campione dei 92 comuni superiori ai 15.000 abitanti è possibile fare alcuni confronti relativi alle differenze fra le Zone geopolitiche e le classi di dimensione demografica.

    Alle precedenti comunali la partecipazione a livello nazionale era stata del 76,7%. Questo dato nascondeva una certa differenziazione territoriale, con il Centro-Nord nettamente più partecipe rispetto al Mezzogiorno: mentre infatti l’affluenza media nei comuni meridionali era stata del 75,6%, nella Zona rossa e nel Nord era attorno all’ 80% (Figura 1). In questa tornata le differenze territoriali sembrano appianarsi: il calo della partecipazione al 60,5% nazionale appiattisce la distanza fra il Sud e il resto del paese, tanto che adesso sono i comuni della Zona rossa quelli con la più bassa partecipazione (59,9%), seguiti a breve distanza da quelli meridionali (60,2%), mentre le città settentrionali mantengono un livello leggermente superiore (62,5%).

    Questo dato potrebbe risultare sorprendente, poiché le regioni rosse sono storicamente caratterizzate da alti livelli di civismo e altissimi tassi di partecipazione al voto. Eppure quest’ultima caratteristica sembra essere rimasta intatta solo per quanto concerne le elezioni politiche, mentre negli altri contesti la Zona rossa sembra essere attraversata da un trend di distacco dalle urne: già alle regionali 2010 fu l’area con la minore affluenza, mentre alle amministrative dello scorso anno fece registrare il calo più alto (11,3 punti) fra le tre aree del paese. Di contro, il recupero delle città meridionali non deve stupire: gli elettori del Sud sono infatti tradizionalmente più sensibili quando si tratta di scegliere il sindaco e il consigliere comunale della propria città e attribuire un voto che è decisamente più “personale” (o candidate-oriented) che “politico”.

    Fig. 1 Affluenza nei 92 comuni superiori disaggregati per Zona geopolitica.

    Passando infine alla dimensione demografica, dividendo l’insieme dei 92 comuni in tre categorie (15-50 mila abitanti, 50-500 mila e oltre 500 mila) di cui l’ultima costituita dalla sola città di Roma che per dimensione deve necessariamente essere tenuta separata dagli altri comuni, notiamo una netta tendenza verso un decremento della partecipazione al crescere della grandezza del comune. Tale tendenza era già presente alle scorse comunali, ma molto meno accentuata. Allora nei comuni compresi fra 15 e 50.000 abitanti e in quelli con oltre 50.000 abitanti la partecipazione era sostanzialmente identica (79%), mentre solo a Roma diminuiva di oltre 5 punti (vedi Figura 2). Oggi le distanze fra le tre categorie si approfondiscono: nei comuni fino a 50.000 abitanti, infatti, l’affluenza è stata del 68% a fronte del 65,6% nei comuni superiori ai 50.000, mentre, come abbiamo visto, a Roma ha votato appena il 52,8%.

    Fig. 2 Affluenza nei 92 comuni superiori disaggregati per categorie di dimensione demografica.


    [1] Vedi in particolare l’articolo di Emanuele [2012, 49-50] all’interno del Dossier CISE 1.

  • Comunali 2013: la situazione di partenza nei capoluoghi di provincia

    di Vincenzo Emanuele

    Il 26 e 27 maggio prossimi oltre 6 milioni di elettori italiani saranno chiamati alle urne per il rinnovo delle amministrazioni di 569 comuni di cui 92 superiori ai 15.000 abitanti, dei quali fanno parte 16 capoluoghi di provincia. Successivamente, il 9 e 10 giugno 2013, in concomitanza con il turno di ballottaggi, andranno al voto anche 143 comuni siciliani (fra i quali vi sono 4 capoluoghi e altri 35 comuni superiori).

    Nonostante la scarsa attenzione che i media stanno dedicando alla consultazione, si tratta di un test molto importante in chiave nazionale. E’ infatti la prima tornata elettorale successiva alle politiche del 24 e 25 febbraio e costituisce quindi la prima occasione per valutare lo stato di forma dei partiti ed in particolare delle tre forze politiche principali del nostro sistema partitico “tripolare”. Il Pdl continuerà la risalita che attualmente gli viene attribuita dai sondaggisti o pagherà le vicissitudini giudiziarie del Presidente Berlusconi? Quale sarà la reazione dell’elettorato del Pd dopo i drammatici eventi di questi ultimi tre mesi che hanno portato alle dimissioni di Bersani e all’elezione di Epifani a segretario “traghettatore” in attesa del nuovo Congresso in autunno? Il Movimento 5 Stelle avrà una nuova avanzata elettorale dopo il boom delle politiche o pagherà elettoralmente per la propria intransigenza e l’assoluta indisponibilità ad ogni ipotesi di coalizione? La formazione del governo Letta e la grande coalizione tra Pd e Pdl avrà un impatto sul voto? Questi sono i principali motivi di interesse in chiave nazionale di queste elezioni nei comuni, che però naturalmente verranno influenzate in primo luogo dallo specifico contesto locale e dalle rispettive dinamiche di competizione dei singoli comuni al voto.

    Il 26 e 27 maggio, come detto, si voterà in 16 comuni capoluogo, un numero inferiore a quello della tornata 2011[1] (allora furono 30) e del 2012[2] (26) ma impreziosito dalla presenza del comune di Roma. Prima di approfondire, nei successivi articoli, l’offerta elettorale (liste e candidati) dei diversi comuni, vediamo qual è la situazione di partenza, in termini di colore politico del sindaco e della giunta uscente, nelle 16 città al voto.

    Innanzitutto c’è da notare il fatto che nella metà esatta dei capoluoghi al voto (8 su 16) il rinnovo del Consiglio comunale non avviene alla naturale scadenza della legislatura. E’ molto importante analizzare correttamente questo dato iniziale, poiché da esso discende il suo inquadramento all’interno del ciclo politico nazionale. Così, mentre 8 comuni rivotano dopo 5 anni, 3 (Imperia, Ancona e Avellino) rinnovano l’amministrazione eletta nel 2009, Lodi rivota dopo 3 anni, Siena, Berletta e Iglesias dopo 2 e infine Isernia torna alle urne dopo solo un anno di legislatura. In particolare si nota la tendenza dei comuni del Sud a ritornare di fronte al corpo elettorale in anticipo rispetto alla scadenza naturale: ben 6 comuni meridionali su 8 tornano al voto prima dei 5 anni teoricamente previsti. L’eccezione è rappresentata dai due comuni laziali, Roma e Viterbo. Notiamo inoltre che il ciclo politico nazionale sembra giocare un suo ruolo: quanto più l’anno delle precedenti comunali è ravvicinato, quanto più tende a prevalere il centrosinistra. Fra le 8 amministrazioni che rinnovano a scadenza naturale la situazione di partenza è di 4 sindaci di centrodestra (3 del Pdl e 1 della Lega), 3 del centrosinistra (tutti del Pd) e uno che governa una giunta di sinistra radicale (Il sindaco Pucci di Massa, appartenente a Rifondazione comunista). Le elezioni del 2008, avvenute sull’onda del successo di Berlusconi alle politiche di aprile, rappresentano certamente l’ondata più favorevole al centrodestra rispetto a quelle degli anni successivi, caratterizzati dalla progressiva crescita dei consensi per l’opposizione di centrosinistra e dall’emergere  di crescenti problemi nella coalizione di governo (primo fra tutti la rottura con Fini e l’uscita di Fli dalla coalizione nell’autunno 2010). In effetti, se guardiamo gli 8 comuni nei quali l’elezione precedente è avvenuta dal 2009 al 2012, l’equilibrio tra centrodestra e centrosinistra osservato nel 2008 scompare: in questo gruppo il centrosinistra controlla 6 amministrazioni (tutte con un sindaco del Pd), il centrodestra solo 2 (un sindaco del Pdl e uno dell’Udc).

    Tab. 1 Il quadro dei 16 comuni capoluogo di provincia al voto nel 2013. (https://wbctx.com)

    Scendendo al livello delle singole Zone geopolitiche, notiamo che al Nord come al Sud vi è un perfetto equilibrio per quanto concerne le coalizioni uscenti (in entrambe le aree il risultato di partenza è 3 a 3). Nelle 6 città settentrionali il centrodestra dovrà difendere Brescia, Imperia e la roccaforte leghista di Treviso, tutte città vinte al I turno alle ultime elezioni. Il Pd dovrà invece provare a riconfermarsi a Lodi, Vicenza e Sondrio. La sfida appare particolarmente ardua in quest’ultima città, capoluogo dell’unica provincia in cui la Lega ha conquistato la maggioranza relativa dei consensi alle ultime politiche.

    La Zona rossa si conferma appannaggio del centrosinistra. Delle 4 città al voto, 3 sono controllate dal Pd (Pisa, Siena e Ancona), mentre a Massa governa addirittura una giunta di sinistra radicale. Qui la sfida più interessante riguarda il comune di Siena, città investita dalla crisi del Monte dei Paschi che ha portato alle dimissioni del sindaco Ceccuzzi. Riusciranno i democratici a mantenere il potere nella roccaforte rossa senese o si verificherà l’alternanza per la prima volta dopo oltre 60 anni?.

    La partita più importante di questa tornata di elezioni amministrative si giocherà a Roma, con l’uscente Alemanno, vittorioso 5 anni fa dopo 15 anni di dominio del centrosinistra (con le giunte Rutelli e Veltroni) che cercherà di ottenere la riconferma battendo la concorrenza agguerrita di Pd e Movimento 5 Stelle, in una sfida che si concluderà quasi certamente al ballottaggio del 9 e 10 giugno. Negli altri 5 comuni meridionali al voto il Pd è al governo ad Isernia, Avellino e Barletta, il Pdl a Viterbo e l’Udc (in una coalizione a cui afferiscono anche Pdl e gli autonomisti del Partito sardo d’Azione) nel comune di Iglesias.

    Infine c’è da fare un’ultima considerazione osservando l’ultima colonna della Tabella 1, concernente il turno di elezione del sindaco nelle ultime comunali: in 7 casi si trattò di un’elezione decisa al I turno, in ben 9 fu necessario il ballottaggio per assegnare il vincitore. Ebbene, senza bisogno di spingerci a fare previsioni sul risultato delle amministrative, non sembra difficile ipotizzare che, a causa della destrutturazione del sistema partitico emerso dalle politiche del 24 e 25 febbraio e della configurazione sostanzialmente tripolare del nuovo sistema (con Pd, Pdl e M5S che configurano 3 poli attorno al 25% dei voti), si verificherà un aumento del numero dei ballottaggi in tutto il paese.

     


    [1] Per un’analisi delle elezioni comunali 2011 si veda De Lucia e Maggini [2012].

    [2] Per un’analisi delle elezioni comunali 2012 si veda il Dossier CISE 1 a cura di Lorenzo De Sio e Aldo Paparo.

  • Il voto nelle città: il Movimento 5 Stelle vince in un comune su 3

    di Vincenzo Emanuele e Matteo Cataldi

    Le elezioni del 24 e 25 febbraio hanno prodotto un vero e proprio terremoto del sistema partitico italiano stravolgendo completamente i fragili equilibri emersi nel 2008. Il sistema quasi bipartitico di 5 anni fa è stato spazzato via dal boom del Movimento 5 Stelle e dalla nascita di altre forze politiche che hanno accresciuto il livello di frammentazione; il sistema bipolare che aveva caratterizzato la storia della Seconda Repubblica, è stato rimpiazzato da un sistema a tre poli competitivi e mezzo (dove il mezzo è il centro di Monti); la mobilità elettorale ha raggiunto il livello massimo della storia della Repubblica, come ci suggeriscono sia l’indice di volatilità aggregata che le stime dei flussi elettorali rilevate in diverse città.

    Per comprendere la portata di questi cambiamenti è utile entrare nel dettaglio dei risultati elettorali, scendendo fino al livello comunale attraverso l’utilizzo di un indicatore tanto semplice quanto immediato: il conteggio del primo partito per comune. L’analisi è stata condotta sugli 8.018 comuni italiani (Valle d’Aosta esclusa), disaggregati per Zona geopolitica e dimensione demografica del comune, confrontando i risultati del 2013 con quelli del 2008.

    Come possiamo notare osservando la Tabella, 1 la geografia del primo partito per comune nel 2008 faceva emergere nettamente il dominio di Pdl e Pd. Il partito di Berlusconi vinceva in 4587 comuni, mentre quello di Veltroni in 2.435 su 8.047 (in caso di parità di voti in un comune fra due o più partiti il comune viene assegnato a entrambi, per questo il totale dei comuni è leggermente maggiore del numero di comuni sui quali è stata condotta l’analisi). Complessivamente i due partiti maggiori vincevano in più dell’87% dei comuni italiani. Questo dominio era particolarmente evidente nella Zona rossa, in cui il Pd risultava primo in 3 comuni su 4 e nel restante 25% era davanti il Pdl, tertium non datur; ma anche al Sud, in cui il Pdl conquistava il 70% dei comuni mentre il Pd il 27% e nel Nord ovest, in cui la presenza della Lega si fermava ai microcomuni (0-5.000 abitanti), mentre Pdl e Pd insieme prevalevano in quasi il 96% degli enti. La situazione si presentava più eterogenea nel Nord est, grazie alla presenza degli autonomisti altoatesini della Svp, in grado di conquistare 113 comuni e soprattutto per via del forte radicamento della Lega Nord nei piccoli e piccolissimi centri di quest’area: il Carroccio risultava primo in ben 766 comuni (il 28,5%), tutti concentrati in enti inferiori ai 50.000 abitanti, superando il numero di vittorie del Pd. In generale, nessuna delle altre forze politiche nazionali (Idv, Udc, Sa, La Destra) raggiungeva i 30 comuni vinti, e i pochi enti conquistati si concentravano per lo più all’interno della categoria dei comuni inferiori ai 5.000 abitanti del Sud.

    Tab. 1 Vittorie dei partiti nei comuni, disaggregati per Zone geopolitiche e categorie di dimensione demografica, politiche 2008.

    La Tabella 2 riporta invece i risultati delle politiche 2013. Come vediamo, il quadro risulta radicalmente cambiato. Innanzitutto è ben visibile l’aumento della frammentazione: ben 17 liste sono in grado di vincere in almeno un comune (nel 2008 erano 10). (thesaddleroomrestaurant.com) In secondo luogo il nuovo equilibrio tripolare emerge con chiarezza: il partito che vince in più comuni è il Pd (2.800) che accresce il suo bottino rispetto al 2008 pur avendo perso quasi 8 punti percentuali a livello nazionale (dal 33,2% al 25,4%). Un dato che già di per se rivela il radicale mutamento della struttura della competizione avvenuto tra il 2008 e il 2013. Il Movimento 5 Stelle conquista ben 2697 comuni su 8.097 (il 33,3%), un risultato clamoroso per un partito alla sua prima prova elettorale e privo di radicamento nei piccoli centri del paese. I grillini risultano primi in 2.400 comuni inferiori ai 15.000 abitanti, mostrando una distribuzione assolutamente equilibrata lungo le 5 categorie di dimensione demografica, tipica di un partito compiutamente “nazionale”. Il terzo attore del sistema è il Pdl, il partito più ridimensionato in termini di comuni vinti: ne deteneva il 57%, oggi scende a meno del 25%, con una perdita di oltre 2.500 comuni. La sconfitta del Pdl è ben evidenziata dall’arretramento nelle città: nel 2008 era primo in 26 grandi centri su 46, oggi ne vince appena 4, tutti concentrati al Sud. Nei medi centri urbani il declino è di simile portata: il partito di Berlusconi passa da 65 a 26 vittorie, 23 delle quali riguardanti città meridionali. In pratica considerando tutto il Centro-Nord del paese il Pdl vince in appena 3 enti superiori ai 50.000 abitanti su un totale di 67. Non solo, ma allargando lo sguardo fino a comprendere tutti i comuni superiori ai 15.000 abitanti, l’avvicinamento del principale attore del centrodestra italiano al profilo marcatamente village oriented tipico ad esempio della Lega, si fa più evidente: su 391 comuni superiori del Centro-Nord il Pdl è primo in appena 22 (il 5,6%). Numeri preoccupanti e decisamente opposti al trend registrato al Sud, in cui, nonostante le forti perdite in termini percentuali, il partito di Berlusconi è ancora la forza politica più vincente, dal momento che risulta prima in 1042 comuni (più della metà del suo bottino nazionale). Nelle regioni meridionali, inoltre, l’arretramento urbano visto al Centro-Nord non si nota: il partito è primo in 156 comuni superiori su 333 (il 46,8%), a fronte dei soli 22 conquistati nel Centro-Nord.

    Tab. 2 Vittorie dei partiti nei comuni, disaggregati per Zone geopolitiche e categorie di dimensione demografica, politiche 2013.

    Come detto in precedenza, il Pd cresce in termini di comuni vinti, eppure la distribuzione geografica delle sue vittorie si modifica rispetto al 2008. Il predominio nella Zona rossa rimane inattaccabile, ma gli enti vinti nelle regioni rosse sono 638, 90 in meno rispetto a 5 anni fa. In quest’area il più insidioso competitore dei democratici non è il Pdl, ridotto ad appena 63 comuni (176 in meno rispetto al 2008), ma il Movimento 5 Stelle, che vince nel 27% dei comuni, sfidando la leadership del partito erede del Pci soprattutto nelle 16 città medie (50-100 mila abitanti), in cui il conteggio delle vittore vede il Pd avanti 9-7 sui grillini, mentre le 15 grandi città sono tutte appannaggio del partito di Bersani, proprio come nel 2008. A fronte di una perdita di città nella Zona rossa il Pd compie un grande balzo in avanti nel Nord est. Qui, complice il forte calo della Lega, che perde più di 500 comuni rispetto al 2008 e rimane maggioranza relativa solo in un comune superiore ai 15.000 abitanti (5 anni fa erano 24), il Pd diventa il partito con più comuni vinti nell’area (934, 370 in più rispetto al 2008). In particolare, Bersani fa il pieno nei medi e grandi centri, conquistandone 22 su 26. Anche qui il Movimento 5 Stelle appare come la seconda forza politica più vincente, con 706 comuni ed una notevole concentrazione nei piccoli centri, storica area di consenso della Lega, in cui Grillo supera anche il Pd con 245 vittorie. Il Nord est si presenta come l’area più eterogenea dal punto di vista del colore politico dei comuni, dal momento che questa è l’area di forza relativa della lista Scelta civica di Monti (90 comuni vinti nel  Nord est su 102 complessivamente conquistati in Italia); inoltre qui notiamo la presenza degli autonomisti della Svp (116 comuni vinti).

    Rimanendo sempre al Nord, ma spostandoci verso Ovest (Piemonte e Liguria), la situazione è più omogenea. Qui il Pd perde 42 comuni, mentre il Pdl subisce un tracollo (-929 comuni) pur restando di poco sopra i democratici. A beneficiarne è il Movimento 5 Stelle, che diventa la forza politica dominante dell’area, con ben 824 comuni vinti, il 56% del totale. Più di un comune su due nel Nord ovest ha abbracciato la proposta dell’ex comico genovese. Il dato è ancor più impressionante se pensiamo che quest’area è caratterizzata dalla presenza diffusa di un tessuto di piccolissimi comuni: ebbene, su 1413 enti inferiori ai 15.000 abitanti i grillini ne conquistano 789, una cifra incredibile per un partito privo di radicamento sul territorio, alla sua prima prova elettorale.

    Infine nel Sud, in cui il Pdl nonostante le forti perdite e un dimezzamento in termini di comuni vinti, rimane la forza di maggioranza relativa, il partito di Bersani guadagna 121 comuni (da 800 a 921) e rimane la seconda forza del Mezzogiorno. Si nota tuttavia uno spostamento della forza del partito che, contrariamente al resto del paese, arretra nelle città (è primo solo in 13 comuni superiori ai 15.000, nel 2008 23) e avanza nei piccolissimi centri (con 832 vittorie è la forza dominante nei microcomuni). Il Movimento 5 Stelle, invece, vince in 902 comuni mostrando un profilo marcatamente urbano, a differenza di quanto avveniva nel Nord: qui il partito di Grillo ha la maggioranza relativa in 163 enti superiori ai 15.000 abitanti e soprattutto in 11 grandi città su 17. Infine, come già era accaduto nel 2008, è proprio nel Sud, e in particolare nei microcomuni di quest’area, che si concentrano la quasi totalità delle vittorie di alcuni piccoli partiti (Fratelli d’Italia, La Destra, Grande Sud, Udc, Centro democratico, Sel e Rivoluzione Civile).

  • Il voto alle coalizioni nei comuni: sotto i 50.000 abitanti Berlusconi è davanti, Bersani vince grazie alle città

    di Vincenzo Emanuele

    Dopo aver analizzato, in un precedente articolo, il voto ai partiti nei comuni, ordinati in categorie di dimensione demografica, vediamo adesso quali sono state le performance elettorali delle quattro coalizioni principali negli 8.018 comuni italiani (la Valle d’Aosta è esclusa). Sappiamo che a livello nazionale la coalizione di Bersani ha vinto alla Camera per un soffio (29,5% contro il 29,2% del centrodestra), mentre il Movimento 5 Stelle è giunto terzo con il 25,6% e la coalizione guidata da Mario Monti ha deluso fermandosi appena al 10,6% (vedi Tabella 1). Entrando nel dettaglio delle categorie di dimensione demografica dei comuni, però, questo quadro si arricchisce di particolari interessanti.

    Il centrodestra perde voti all’aumentare della grandezza dei comuni, grazie soprattutto al contributo della Lega Nord, il cui voto è fortemente concentrato nei piccoli centri. Il centrosinistra segue il percorso opposto, anche se la presenza in coalizione degli autonomisti sudtirolesi dell’SVP (fortissimi nei microcomuni della provincia di Bolzano, tanto da raggiungere l’1,4% nazionale in questa categoria) attenua la sottorappresentazione nei comuni fino a 5.000 abitanti. La conseguenza di questa dicotomia città-campagna che si riflette nelle due principali coalizioni è ben evidenziata nella Figura 1: la coalizione di Berlusconi è prima nei comuni fino a 50.000 abitanti, mentre il centrosinistra riesce a sorpassare gli avversari e vincere il premio alla Camera solo grazie al voto dei medi e dei grandi centri urbani. Nelle grandi città la sinistra compie un balzo di oltre 4 punti rispetto ai medi centri, raggiungendo il 33,4%, mentre specularmente il centrodestra crolla al 25% venendo superato anche dal Movimento 5 Stelle.

    Tabella 1 Voto alle coalizioni per categorie di dimensione demografica dei comuni

     

    Figura 1 Andamento delle tre coalizioni nei comuni italiani

     

    Disaggregando i risultati per Zone geopolitiche emergono altre evidenze empiriche degne di rilievo. Nel Nord ovest si registrano le differenze più eclatanti. Qui tra il folto tessuto di microcomuni piemontesi e liguri e le tre grandi città della zona sembrano svilupparsi strutture di competizione nettamente distinte. Fino ai 5.000 abitanti, infatti, il centrodestra è saldamente in vantaggio sul partito di Grillo, mentre il centrosinistra è addirittura terzo staccato di quasi 7 punti. A partire dai piccoli centri però, mentre il centrosinistra inizia la sua risalita, il centrodestra comincia a perdere voti, tanto che in questa categoria è il Movimento 5 Stelle a risultare vincente. Nei comuni con oltre 15.000 abitanti, invece, il centrosinistra recupera portandosi davanti agli altri due rivali, allargando poi la misura del vantaggio nelle due categorie “urbane”, fino ad avere, nelle grandi città, oltre 12,5 punti di vantaggio sul centrodestra, sceso al 21,6%. Anche nel Nord est avviene qualcosa di simile, ma qui, la relativa debolezza di Grillo e soprattutto la forza della Lega trascinano il centrodestra a mantenere il primo posto fino ai medi centri urbani, mentre nelle grandi città Bersani riesce a prendere il sopravvento distanziando Berlusconi di oltre 5 punti. Il Nord est è anche l’area di forza relativa del Polo montiano che raggiunge il 12,2% e il 14,2% nelle grandi città, mentre a Sud del Po rimane confinato su percentuali ad una cifra.

    Nella Zona rossa il dominio del centrosinistra è incontrastato, nonostante la perdita di oltre 10 punti rispetto alla performance di Veltroni del 2008. Il centrodestra, invece, storicamente debole in quest’area, crolla al 21,1% e viene superato dal Movimento 5 Stelle. Nelle grandi città il divario tra progressisti e conservatori è di oltre 22 punti (42,1% a 19,7%). Così, mentre nel Nord est, dopo 15 anni di dominio del centrodestra, la coalizione di Bersani ha accresciuto la sua capacità competitiva, riducendo il distacco complessivo a circa 5 punti, le regioni rosse rimangono completamente off limits e la leadership della sinistra non appare sfidabile.

    L’andamento delle tre coalizioni principali al Sud è assai curioso. Se infatti il dato complessivo del Mezzogiorno vede il centrodestra nettamente davanti a tutti e il centrosinistra addirittura terzo superato da Grillo, disaggregando i comuni in base alla loro dimensione demografica notiamo che Bersani è in vantaggio seppure di un soffio nei microcomuni (30% a 29,9%). Nei piccoli centri però accusa una perdita secca di 4,5 punti, mentre crescono sia Berlusconi che Grillo, i quali diventano rispettivamente primo e secondo nelle tre categorie centrali (i comuni compresi tra i 5 e i 100 mila abitanti). Nelle grandi città avviene la consueta rimonta del centrosinistra che si porta al primo posto, mentre il centrodestra finisce terzo, scavalcato dal Movimento 5 Stelle.

    Nel complesso delle 20 categorie di dimensione demografica dei comuni (5 fasce per 4 Zone geopolitiche) il centrosinistra è primo in 11 (le grandi città di tutte le zone, l’intera Zona rossa, i comuni di cintura e i medi centri del Nord ovest e i microcomuni del Sud), il centrodestra è primo in 8 (i microcomuni del Nord ovest, tutto il Nord est eccetto le grandi città, i piccoli centri, i comuni di cintura e i medi centri del Sud), mentre il partito di Grillo è davanti a tutti nei piccoli centri del Nord est.

    Un altro strumento particolarmente efficace per comprendere i risultati elettorali perseguiti dalla coalizioni nei comuni italiani è l’utilizzo degli indici di posizione, come i quartili. Si tratta di ordinare gli 8.018 comuni italiani sulla base della percentuale di voto raccolta da ciascuna coalizione e successivamente prendere in considerazione il 25% di comuni in cui la coalizione realizza la migliore performance e il 25% di quelli in cui essa riceve meno consensi. La Tabella 2 riporta, per le tre coalizioni principali, il totale dei comuni, per categoria di dimensione demografica, compresi nel migliore e nel peggior quartile. Il centrosinistra conferma la propria connotazione in termini decisamente urbani: include infatti ben 24 grandi città su 45 nel miglior quartile della propria distribuzione, mentre solo 3 figurano nel peggior quartile (Giugliano in Campania, Latina e Catania). Il profilo city oriented della coalizione progressista è lievemente “sporcato” dalla presenza in coalizione della SVP che, come abbiamo detto in precedenza, è molto radicato nei microcomuni dell’Alto-Adige, in cui raccoglie percentuali sempre superiori al 50% dei voti, portando così la categoria di comuni fino a 5.000 abitanti a risultare lievemente sovrarappresentata nel miglior quartile della coalizione di Bersani. Il centrodestra, invece, accentua rispetto al 2008 la propria connotazione rurale: nel suo miglior quartile figura una sola città con oltre 100.000 abitanti (Giugliano in Campania) e appena 7 medi centri. In generale, su 140 enti con oltre 50.000 abitanti, solo 8 (il 5,7%) figurano nel 25% di comuni con le più alte percentuali per il centrodestra, mentre ben 45 (quasi un terzo) compaiono nel suo peggior quartile (e tra questi alcune delle città più importanti del paese, come Venezia, Firenze, Bologna, Genova, Torino e Roma). Volendo allargare ancora di più lo sguardo, considerando l’intero insieme di comuni superiori a 15.000 abitanti, il centrodestra ne include 100 su 722 (il 13,9%) nel suo miglior quartile ed esattamente il doppio (200) nel suo peggior quartile. In questo quadro il risultato del Movimento 5 Stelle sembra assomigliare più a quello del centrosinistra che a quello del centrodestra. Sebbene descritto come un partito sostanzialmente indifferente alla dimensione demografica, il partito di Grillo risulta debole nei microcomuni (solo il 22% di questi figura nel miglior quartile del partito a 5 stelle), mentre è sovrarappresentato nelle altre 4 categorie, in particolare nei comuni di cintura e nei medi centri urbani. Considerando le città con oltre 50.000 abitanti, il partito di Grillo appare più city oriented della coalizione di Bersani, con ben 49 comuni nel miglior 25% e appena 13 nel quartile peggiore. Allargando lo sguardo e includendo tutti i comuni superiori ai 15.000 abitanti il confronto è addirittura schiacciante: il 35% di questi comuni figura nel miglior quartile grillino, mentre quelli inclusi nel peggiore sono meno del 10% (per il centrosinistra il rapporto risulta meno accentuato, rispettivamente 23% a 18%).

    Tabella 2 Comuni compresi nel migliore e nel peggior quartile della distribuzione delle tre coalizioni principali.

  • Il voto ai partiti nei comuni: la Lega è rintanata nei piccoli centri, nelle grandi città vince il Pd

    di Vincenzo Emanuele

    Una delle principali determinanti del voto nel nostro paese è certamente la dimensione demografica del comune di residenza. Come studi recenti hanno sottolineato [Emanuele 2012] la grandezza del comune in cui l’elettore esprime il voto, misurata attraverso il numero dei residenti, è un indicatore della perifericità del comune stesso. E sappiamo quanto la frattura Centro-Periferia, in Italia e non solo, abbia storicamente inciso sulla strutturazione dei sistemi politici e sul consolidamento degli orientamenti di voto.

    Nel corso della Seconda Repubblica la dimensione demografica dei comuni si è rivelata una variabile particolarmente incisiva per alcuni partiti italiani, che hanno mostrato con regolarità alcune precise caratteristiche, mantenute nel tempo al di là delle fluttuazioni elettorali. Il Pd, come i suoi progenitori (Pds-Ds), nonché la maggior parte dei partiti di sinistra (dai postcomunisti come Rifondazione fino alla sinistra laica, come La Rete, la Rosa nel Pugno e i Verdi), ma anche altri, come i Radicali e Alleanza Nazionale hanno mostrato un profilo marcatamente urbano, con consensi in crescita all’aumentare della dimensione demografica dei comuni. Viceversa la Lega Nord e tutti i partiti post-democristiani hanno manifestato l’andamento opposto, di forte radicamento nei piccoli centri e graduale indebolimento procedendo verso le grandi città. Altri partiti infine, sono sembrati poco sensibili alla variabile: fra questi, Forza Italia (e successivamente il Pdl), non a caso definito da Diamanti [2009] un partito “senza territorio”, in grado di raccogliere più o meno gli stessi consensi in ogni categoria di dimensione demografica.

    Suddividendo gli 8.018 comuni italiani (Valle d’Aosta esclusa) in 5 categorie di dimensione demografica, i microcomuni (fino a 5.000 abitanti), i piccoli centri (fra 5 e 15 mila), i comuni di cintura (15-50 mila), i medi centri urbani (50-100 mila) e le grandi città (oltre 100 mila abitanti), vediamo qual è stato l’andamento dei principali partiti alle politiche 2013.

    Come vediamo nella Tabella 1, a livello nazionale il trend  dei partiti tradizionali non si discosta dalle tendenze emerse nel corso della Seconda Repubblica. Il Pd mostra un andamento crescente lungo le 5 categorie di dimensione demografica, sebbene dalla prima alla quarta categoria di comuni inferiori ai 100 mila abitanti la crescita complessiva sia di appena un punto e il partito rimanga, anche nei medi centri urbani, inferiore alla media nazionale (25,4%). E’ infatti nelle grandi città che si verifica un vero e proprio balzo in avanti, con un crescita di quasi 4 punti (28,7%) che lo portano ad essere il primo partito del paese in questa categoria. Anche Sel, Rivoluzione Civile e, in misura minore Fare per fermare il Declino manifestano un trend di crescita verso le grandi città. In particolare il partito di Vendola doppia la Lega (4,2% a 2,1%) la quale, come era prevedibile, segue esattamente l’andamento opposto, mostrando una forza elettorale più che tripla nei microcomuni (6,5%) rispetto alle grandi città. Proprio come nel 2008, il Pdl non sembra particolarmente sensibile alla dimensione demografica, sebbene in queste elezioni si ravvisi un deciso calo nelle grandi città (19,4%), mentre la categoria di maggior forza relativa sono i comuni di cintura (22,9%). Comunque in tutte e 5 le fasce di dimensione demografica, il partito di Berlusconi è terzo dopo M5S e Pd (nel 2008 invece risultava il primo partito ovunque tranne che nelle grandi città). E’ poi interessante osservare l’andamento delle due principali novità di queste elezioni, il Movimento 5 Stelle e la Lista Monti. Dal partito di Grillo, vista l’enfasi posta sulla rete e la campagna condotta attraverso comizi di piazza nei soli capoluoghi di provincia, ci saremmo aspettati un deciso orientamento urbano. Invece la lista a 5 stelle ottiene un risultato inferiore alla media solo nei microcomuni (23,6%), mentre già a partire dai piccoli centri è il primo partito ed è in linea con la propria media nazionale. Il suo risultato migliore risulta quello dei medi centri urbani (27,2%), mentre, un po’ a sorpresa, nelle grandi città, forse per la concorrenza del Pd, il partito di Grillo cala di due punti, scendendo al 25,2%. In generale il Movimento sembra possedere tutte le caratteristiche di un partito “all around” [Emanuele 2012], capace di raccogliere consensi in tutte le città e in tutte le aree del paese (lo vedremo fra poco), proprio come un tempo faceva Forza Italia. Infine all’interno della coalizione montiana, mentre l’Udc, ridotto all’1,8% nazionale (-3,8 punti rispetto al 2008) accentua le proprie caratteristiche di partito “village oriented” [ibidem] (vale il 2,4% nei comuni inferiori ai 5 mila abitanti e appena l’1,2% nella città sopra i 100 mila), Scelta Civica sviluppa un andamento differente. La lista guidata dal premier uscente è infatti attorno all’8% nelle prima 4 categorie di dimensione demografica, mentre nelle grandi città vale un punto in più.

    Tabella 1 Voto ai partiti per categorie di dimensione demografica dei comuni

    Vediamo adesso come questi andamenti registrati a livello nazionale si declinano nelle diverse zone del paese, adottando una suddivisione dell’Italia in 4 Zone geopolitiche, con ritaglio regionale.

    Nel Nord ovest (Piemonte e Liguria) si assiste al dominio del Movimento 5 Stelle, che è il primo partito nelle 4 categorie di comuni inferiori ai 100 mila abitanti, mostrando un ottimo radicamento perfino fra i 1.257 microcomuni (28,3%) che costituiscono il tessuto portante di quest’area del paese. Nei piccoli centri (5-15 mila abitanti) sfiora il 30%, ma in generale le oscillazioni intercategoriali del partito sono molto contenute. Lo stesso non può dirsi del Pd che cresce di oltre 7 punti fra i microcomuni e le tre grandi città del Nord ovest (Torino, Genova e Novara): qui Bersani raggiunge il 29,6% superando il Movimento 5 Stelle e staccando di ben 13 punti il Pdl che in questa parte del paese sviluppa un andamento somigliante a quello della Lega (perde infatti oltre 5 punti tra microcomuni e grandi città).

    Il Nord est (Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia e Trentino Alto Adige) costituisce invece l’area di maggior forza di Monti (10,7%, con un trend di crescita verso le grandi città) nonché di relativa debolezza del partito di Grillo (21,9%), che comunque si piazza primo nei piccoli centri ed è secondo dietro il Pd nelle restanti categorie. Il partito di Bersani è ben 7 punti più forte nelle grandi città (in cui già nel 2008 era risultato il primo partito) rispetto ai microcomuni,  mentre il Pdl rimane ovunque sotto il 20%. Il Nord est rappresenta la zona di forza della Lega (11,2% a fronte di una media nazionale del 4,1%). Sono in particolare i piccoli e piccolissimi comuni di quest’area a costituire la roccaforte del Carroccio: nei microcomuni il partito di Maroni è al 14% e nei piccoli centri è al 12,9% superando in entrambi i casi la Lista Monti (che invece nelle grandi città vale il doppio della Lega) e divenendo il quarto partito italiano (niente a che vedere comunque con il risultato del 2008, in cui, con oltre il 25%, risultava il secondo partito alle spalle del Pdl nei comuni fino a 15.000 abitanti). Queste due categorie rappresentano la cassaforte del partito, dal momento che qui la Lega conquista il 52% dei suoi voti totali.

    Nonostante perda 10 punti rispetto al 2008 e non sia più la forza di maggioranza relativa nelle Marche, il Pd continua a rimanere inattaccabile nelle regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche). Qui il principale partito della sinistra è ancora una volta il partito più votato in tutte le categorie e nelle grandi città raggiunge il 37,6%, la sua massima percentuale fra le 20 unità considerate (5 categorie di dimensione demografica per 4 Zone geopolitiche). Si osserva inoltre una riduzione del gap fra le due categorie di storica forza della subcultura rossa (i comuni fra ai 5 e i 50 mila abitanti), oggi in linea con la media della zona, e le due categorie di debolezza relativa (i microcomuni e i medi centri urbani), cosicché l’andamento del partito in quest’area del paese si avvicina sempre più a quello osservato nel Nord, con una tendenziale crescita verso le grandi città (queste ultime invece ai tempi del Pci registravano percentuali inferiori a quelle di piccoli centri e comuni di cintura della Zona rossa). In queste regioni, inoltre, la Lega diventa insignificante (1,5%, era la 4,4% nel 2008) e ciò certifica la definitiva sconfitta del progetto di espansione del partito sotto il Po, mentre il Pdl è circa 4,5 punti sotto la media nazionale e nelle grandi città raggiunge il suo punto più basso fra le 20 categorie considerate (appena il 15,6% dei voti).

    Infine, nella macroarea del Sud (comprendente tutte le regioni dal Lazio in giù) si assiste al crollo del Pdl, che perde quasi 20 punti rispetto a 5 anni fa (era al 45%, oggi è al 25,6%) che viene superato dal Movimento 5 Stelle (27,3%). Il Pd è solo terzo con il 22%. Questa è inoltre la zone di forza relativa sia di Sel (3,9%) che dell’Udc (che nei microcomuni meridionali raggiunge il 4,1%) nonché di Rivoluzione Civile che ottiene la sua massima percentuale nazionale nelle grandi città (3,3%), mentre la Lista Monti (6,5%) e Fare (0,5) realizzano al Sud la propria peggiore performance. A differenza del Centro-Nord, i tre principali partiti assumono al Sud un andamento del tutto diverso lungo le 5 categorie di dimensione demografica. Come possiamo notare osservando la Figura 1, nei microcomuni meridionali il primo partito è il Pd con il 25,1%. Una caratteristica già osservata in altre elezioni della Seconda Repubblica, ma che nel 2013 si accentua, tanto che il partito di Bersani riceve qui una più alta percentuale anche rispetto alle grandi città (24,9%), categoria che in tutto il resto del paese rappresenta la sua area di forza relativa. Nei piccoli centri e nei comuni di cintura, invece, mentre il Pd perde terreno scendendo fino al 19,3%, sia Pdl che M5S crescono fino a superare il 28%, con il Pdl sempre leggermente davanti ai grillini. Nei medi centri urbani avviene il sorpasso del Movimento 5 Stelle (che, a differenza che nel resto del paese, nel Sud mostra un andamento crescente all’aumentare della dimensione demografica dei comuni), mentre il Pdl accusa una perdita di quasi tre punti rispetto alla categoria precedente, a cui si aggiungono altri 3,3 punti persi nelle grandi città, che fanno precipitare il partito di Berlusconi al 22,4%, terzo alle spalle del Pd, il quale invece risale di oltre 4 punti rispetto ai medi centri, ma non tanto da insidiare il consolidato primato del M5S (27,9%).

    Figura 1 Andamento di Pdl, Pd e M5S nei comuni del Sud.

    In conclusione, nelle 20 categorie di dimensione demografica dei comuni, il Pd è primo in 11 (l’intera Zona rossa, le grandi città del Nord ovest, tutto il Nord est ad eccezione dei piccoli centri e i microcomuni del Sud), il Movimento 5 Stelle è primo in 7 categorie (tutto il Nord ovest tranne le grandi città, i piccoli centri del Nord est, medi e grandi centri del Sud), mentre il Pdl è primo solo in 2 categorie, piccoli centri e comuni di cintura del Mezzogiorno (nel 2008 era  primo in ben 13 categorie su 20).