Autore: Vincenzo Emanuele

  • Crisi Pdl, il giudizio su Berlusconi e il potenziale elettorale del partito tra eredità e nuovo corso

    di Vincenzo Emanuele

    Nell’ultimo sondaggio Cise – Osservatorio politico (aprile 2012; 2.500 casi con metodologia CATI) era presente anche una domanda che chiedeva agli intervistati di dare un giudizio sul ruolo che Berlusconi ha avuto nella politica italiana. I risultati sono rappresentati negli istogrammi della Figura 1. A circa sei mesi dalla caduta del suo ultimo governo, l’ex Presidente del Consiglio riscuote un giudizio abbastanza o molto positivo sul ruolo ricoperto in circa 18 anni di vita politica da parte del 30% degli intervistati, mentre 7 italiani su 10 ritengono l’esperienza berlusconiana come abbastanza (28,1) o molto negativa (41,8%).

    Fig. 1 Giudizio sul ruolo di Berlusconi nella politica italiana

    Approfondendo il tema della crisi del Pdl abbiamo visto negli articoli precedenti che le intenzioni di voto al partito di Alfano sono crollate al 21,8% nell’ultima ondata, mentre il potenziale elettorale del partito è sceso al 24,5% (Ptv > 5). Ecco dunque il primo dato sorprendente: nonostante la perdita di popolarità, gli scandali privati e la caduta del suo governo, Berlusconi continua ad essere più apprezzato del suo partito. Ma cosa accade incrociando il giudizio su Berlusconi con il potenziale elettorale del Pdl? C’è una perfetta coincidenza tra i due segmenti del campione, ossia tra coloro che danno un giudizio positivo su Berlusconi e coloro che dichiarano un’alta probabilità di votare Pdl in futuro? Oppure i due segmenti differiscono in qualche modo, segno che non c’è più l’identificazione di un tempo tra il partito e il suo vecchio leader?

    Le risposte sono raffigurate nelle Figure 2 e 3 in basso. Come vediamo nella Figura 2 esiste una correlazione molto forte tra le due variabili: chi da un giudizio positivo su Berlusconi tende parallelamente ad avere un’alta propensione al voto per il Pdl. Eppure notiamo come esiste quasi un quarto degli italiani che pur giudicando particolarmente bene l’esperienza di Berlusconi in politica non prende in considerazione l’idea di votare Pdl, e questa cifra cresce oltre il 50% fra coloro che giudicano come abbastanza positivo il ruolo del Cavaliere. E’ possibile quindi individuare un gruppo di elettori, corrispondente a circa il 16% del campione totale e al 47% del sotto-campione di “berlusconiani” che sono lontani dal Pdl pur apprezzando il suo leader storico. Fra loro potrebbero esserci alcuni elettori di centrodestra leghisti o comunque non pidiellini che considerano positivo il ruolo svolto da Berlusconi nel federare il centrodestra italiano, ma sicuramente sono presenti anche molti ex elettori di Forza Italia e An affascinati dalla sua leadership ma molto meno dal partito da lui creato. Così il Pdl finisce per pagare in termini di elettorali l’incapacità storica del suo leader di trasferire nel suo partito l’enorme mole di consensi che negli anni si sono incanalati verso di lui, non permettendo così al partito di rendersi autonomo dalla sua leadership e di sopravvivere alla sua uscita di scena.

    Fig. 2 Giudizio su Berlusconi e potenziale elettorale del Pdl

    Osservando la Figura 3 guardiamo lo stesso incrocio analizzato in precedenza da un’altra prospettiva. Questa volta gli istogrammi ci mostrano la distribuzione dei giudizi su Berlusconi per ciascuna delle tre categorie in cui è stata suddivisa la risposta sul potenziale elettorale. Nel bacino potenziale del Pdl (Ptv > 5) il 73,5% degli elettori esprime un giudizio positivo sull’esperienza di Berlusconi, ma anche in questo caso notiamo che esiste una quota significativa di elettori che devia dalla correlazione attesa. Il 26,5% degli elettori potenziali del Pdl (poco meno del 7% del campione totale), infatti, esprime un giudizio molto o abbastanza negativo su Berlusconi. Questo gruppo di intervistati può essere considerato come il segmento degli elettori “pidiellini post-berlusconiani”, pronti a votare quello che rimane il maggior partito conservatore del paese pur criticando l’operato del leader storico. E’ il segnale che il Pdl potrà forse esistere anche dopo la fine di Berlusconi. Fra tanti dati negativi, ecco finalmente una nota positiva per il partito di Alfano e per la nuova classe dirigente del Pdl.

    Fig. 3 Potenziale elettorale del Pdl e giudizio su Berlusconi

     

     

  • Crisi Pdl, fra i suoi elettori 2008 solo uno su 3 lo rivota

    di Vincenzo Emanuele

    Per comprendere la natura della crisi del Pdl un altro tema di particolare interesse consiste nel cercare di capire dove è finita la sua enorme area di consenso. In un altro articolo su questo sito sono stati analizzati i flussi elettorali tra ricordo del voto alle ultime elezioni politiche e intenzione di voto attuale nelle tre ondate del sondaggio Cise – Osservatorio politico. E’ utile riprendere qui i dati riguardanti il Pdl.

    Alle elezioni politiche del 2008 il Pdl era risultato il primo partito italiano con il 37,4% dei consensi. Dopo tre anni di governo la situazione fotografata dal sondaggio Cise era quella descritta dalla prima colonna della Tabella 1: fatti 100 i voti al Pdl nel 2008, 61 sarebbero tornati al partito di Berlusconi in caso di nuove elezioni politiche e 3 a Fli (del resto facente parte del Pdl nel 2008). Una piccola quota si sarebbe mossa in direzione di altri partiti, della maggioranza (Lega Nord, 4%), o dell’opposizione (Udc, 3%, Pd e Sel, 2% a testa). Una quota significativa, infine, circa il 23% dei voti 2008, si sarebbe spostata in direzione della cosiddetta “area grigia”, ossia coloro che dichiarano di volersi astenere o sono incerti se andare a votare (18%) o che andranno a votare ma non sanno o non dichiarano per chi (5%). La situazione cambia radicalmente alcuni mesi dopo, nel sondaggio realizzato a dicembre 2011, dopo la caduta del governo Berlusconi e la nascita dell’esecutivo guidato da Mario Monti. Il senso di smarrimento provocato dalla fine dell’era Berlusconi colpisce a fondo l’elettorato del Cavaliere che abbandona in massa la sua creatura: fra gli elettori Pdl 2008 solo il 39% rivoterebbe il partito in caso di elezioni, ben 22 punti in meno rispetto alla primavera precedente. Questa enorme massa di consensi però non tradisce Berlusconi con un’altra forza politica ma si rifugia nell’area grigia che raddoppia la sua consistenza, raggiungendo il 47% (vedi la Figura 1), mentre la quota che sceglie altri partiti si riduce lievemente (dal 16 al 14%) e solo la Lega cresce di un punto, forse beneficiando della scelta di fare opposizione al governo Monti.

    Tab. 1 Flussi di voto tra ricordo 2008 e intenzioni di voto attuali. Andamento nel corso delle tre ondate

    Fig. 1 Andamento delle intenzioni di voto fra gli elettori Pdl 2008

    La situazione per il Pdl si fa ancora più grave nella rilevazione dell’aprile 2012. In quest’ultimo sondaggio la quota di elettori Pdl 2008 che tornerebbe a rivotare il partito di Alfano si riduce ulteriormente, al 33%, mentre l’area grigia raggiunge la quota massima del 48%. Oggi dunque quasi un elettore su 2 del Pdl 2008 dichiara di non  sapere per chi votare o di volersi astenere. Rispetto all’autunno, la novità più significativa di questa terza ondata riguarda la crescita di coloro che dichiarano di voler votare per un partito diverso dal Pdl. Questo gruppo di intervistati rappresenta oggi il 19% degli elettori Pdl 2008 (a dicembre era il 14%). Il dato appare sorprendente se pensiamo che avviene parallelamente al ridimensionamento del principale competitor del Pdl per i voti dell’area di centrodestra, la Lega Nord, falcidiata dagli scandali interni e crollata nelle intenzioni di voto (gli elettori Pdl verso la Lega scendono da 5 a 2 nell’ultima ondata). Il partito che più di ogni altro beneficia della fuga degli elettori Pdl dal proprio partito è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che passa dall’1 al 5% dei voti fra gli elettori berlusconiani 2008. Quella grillina è una minaccia che il Pdl farebbe bene a non sottovalutare: le indiscutibili doti carismatiche e la costante critica dei politici di professione dell’ex comico genovese potrebbero attrarre una quota significativa di elettori del Pdl sensibili al richiamo populista e in passato già stregati da Berlusconi, che faceva di questi elementi la cifra del suo agire in politica.

    Dopo aver esaminato i flussi elettorali tra il ricordo del voto passato e le intenzioni di voto abbiamo deciso di incrociare lo stesso voto 2008 con la propensione al voto (Ptv). Come abbiamo già visto negli articoli precedenti, la domanda sul Ptv ci permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a questa domanda (mentre sulle intenzioni di voto ai partiti risponde solo una minoranza, circa il 43% nell’ultima ondata); in secondo luogo il Ptv ci permette di identificare – selezionando chi dà a un partito un punteggio alto  – il potenziale elettorale del partito. Un dato particolarmente utile in una fase di transizione come quella attuale. In questo modo possiamo scoprire quali sono le conseguenze della crisi del Pdl sulla sua base potenziale di voto. Se la crisi del partito fosse passeggera potrebbe infatti accadere che ad un crollo delle intenzioni di voto quale quello visto in precedenza non faccia seguito una diminuzione del potenziale elettorale del partito, che potrebbe restare più o meno invariato, con i suoi elettori potenziali che, temporaneamente delusi, indirizzano verso altre forze politiche le proprie intenzioni di voto. Ma la Figura 3 ci dice che non è affatto così. La crisi del Pdl è tutt’altro che passeggera. E, oltre alle intenzioni di voto, anche il potenziale elettorale del partito è in forte ribasso fra coloro che hanno scelto il Pdl nel 2008. Come vediamo nel grafico in basso, gli elettori del Pdl alle ultime elezioni politiche che assegnano al partito di Alfano un potenziale elettorale superiore a 5 sono scesi nel corso dell’ultimo anno dal 77 al 55,5%, con una caduta repentina a dicembre 2011 (-19 punti) e un ulteriore assestamento al ribasso ad aprile 2012 (-2,5 punti). Isolando esclusivamente gli elettori Pdl che assegnano un potenziale elettorale molto alto (tra 8 e 10 nella scala 0-10) scopriamo che ad abbandonare il partito fra il 2011 e il 2012 sono stati proprio gli elettori facenti parte del suo zoccolo duro: questo gruppo di elettori si è ridotto di ben 22 punti, la stessa diminuzione registrata fra coloro che esprimevano un Ptv tra 6 e 10: il risultato è che oggi il 44,5 % degli elettori Pdl 2008 non prende in considerazione l’idea di votare nuovamente per il Pdl e solo il 36,9% (contro il 58,6% di un anno fa) conferma al suo vecchio partito un alto potenziale di voto.

    Fig. 2 Andamento del potenziale elettorale del Pdl fra i votanti Pdl del 2008

  • L’area di centrodestra è intatta, è il Pdl a non attrarla più

    di Vincenzo Emanuele

    Dopo aver esposto, in un precedente articolo, i dati che mostravano in modo inequivocabile lo stato di crisi del Pdl, proviamo, in questo e nei successivi articoli, a scendere nel dettaglio di questa crisi. In questo articolo cerchiamo di capire se e come è cambiata, nel corso dell’ultimo anno, l’area di centrodestra e lo facciamo tramite il ricorso alla domanda relativa all’autocollocazione politica degli intervistati presente nelle tre ondate di sondaggio dell’Osservatorio politico del Cise. In pratica veniva chiesto al nostro campione (1.500 casi nelle prime due ondate, 2.500 nell’ultima) di posizionarsi su una scala da 0 a 10 dove 0 significa “sinistra” e 10 significa “destra”.

    Fig. 1 Andamento dell’autocollocazione politica degli intervistati.

    Come vediamo nella Figura 1, l’andamento della collocazione politica degli intervistati è rimasta piuttosto stabile nel corso del tempo. In particolare notiamo come nelle tre ondate l’area di quanti si collocano nel centrodestra (cioè coloro che si posizionano fra 6 e 10 nella scala sinistra-destra) è pressoché immutata nel corso dell’ultimo anno e corrisponde a poco meno di un terzo del campione. Notiamo invece una lieve diminuzione dell’area di centrosinistra (coloro che si posizionano fra 0 e 4 nella scala sinistra-destra) che passa dal 32,1% della primavera 2011 al 29,4% dell’anno dopo, cui fa da contraltare la crescita dei non collocati (dal 13,9 al 16,7%), ossia coloro che non riconoscono la posizione sinistra-destra o che non dichiarano la propria collocazione. Come vediamo dunque l’area dei moderati e dei conservatori italiani mostra caratteristiche di perdurante stabilità. Gli italiani non sono diventati maggiormente “di sinistra” nel corso dell’ultimo anno, eppure il Pdl è in crisi. Cosa succede dunque in quest’area politica?

    Per capire meglio la situazione abbiamo incrociato l’autocollocazione politica con la Propensione al voto (Ptv) del Pdl. Sono due i motivi che ci spingono ad utilizzare la domanda sul Ptv in luogo di quella sulle intenzioni di voto: innanzitutto ci permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a queste domande (mentre sulle intenzioni di voto ai partiti risponde solo una minoranza, circa il 43% nell’ultima ondata); in secondo luogo il Ptv ci permette di identificare – selezionando chi dà a un partito un punteggio alto (fra 6 e 10 in una scala da 0 a 10) – il potenziale elettorale del partito. Un dato particolarmente utile in una fase di transizione come quella attuale.

    Fig 2 Andamento del potenziale elettorale Pdl per autocollocazione politica nelle tre ondate del sondaggio Cise – OP.

    La Figura 2 mostra, suddividendo il campione per area politica, la percentuale degli intervistati, che, nelle tre ondate successive, assegna una probabilità di voto al Pdl superiore a 5. Come vediamo, fra coloro che si autocollocano nel centrodestra (asse sinistra-destra > 5) la propensione al voto per il Pdl (Ptv Pdl > 5) diminuisce fortemente nel corso del tempo, passando dal 68% di aprile 2011 al 53% di aprile 2012. Un calo di 15 punti complessivi scontato in gran parte negli ultimi mesi dell’anno scorso    (-11 punti già nella rilevazione di dicembre).

    Fig. 3 Andamento del potenziale elettorale del Pdl fra i collocati nel centrodestra. (https://allproshadeconcepts.com/)

    Il crollo del potenziale elettorale al partito nella sua area politica di riferimento conferma la natura strutturale della crisi del Pdl: oggi quasi metà degli italiani che si considerano di centrodestra non prendono in considerazione il voto per il principale partito di centrodestra (Figura 3).

    Per il resto si assiste ad una diminuzione del potenziale elettorale del partito di Berlusconi e Alfano in tutte le altre categorie, sebbene fra gli elettori di centrosinistra e fra i non collocati il calo appaia meno pronunciato, mentre una quota significativa di elettorato centrista (che cioè si posiziona nel punto 5 dell’asse sinistra-destra), corrispondente a ben 6 punti percentuali è uscita dal potenziale elettorale del Pdl.

  • Pdl, ecco i numeri della crisi

    di Vincenzo Emanuele

    Uno dei temi di maggiore attualità sotto il cielo della politica italiana riguarda la crisi di quello che fino a poco tempo fa era considerato il principale partito politico del paese: il Popolo della Libertà. Dopo la clamorosa sconfitta elettorale delle comunali la crisi del partito di Berlusconi e Alfano è ormai sotto gli occhi di tutti, ma le difficoltà del Pdl non nascono nelle ultime settimane, hanno origini più lontane: i problemi del governo Berlusconi legati alle difficoltà economiche (la recessione e gli attacchi speculativi sul nostro debito) e politiche (l’uscita di Fli dalla maggioranza), oltre che agli scandali legati alla vita privata del Presidente del Consiglio hanno incrinato il rapporto di fiducia fra gli elettori e il Pdl. I primi segni della crisi sono rintracciabili nell’inattesa perdita, alle amministrative del 2011, del comune di Milano, una storica roccaforte del centrodestra berlusconiano. La caduta dello stesso governo Berlusconi a novembre e il forzato sostegno al governo Monti, poco apprezzato dall’elettorato pidiellino, hanno contribuito a deteriorare ulteriormente il rapporto fra il maggior partito del centrodestra italiano e i suoi elettori, fino alla débâcle elettorale del maggio scorso.

    L’Osservatorio politico CISE ha effettuato, nel corso dell’ultimo anno, tre rilevazioni (aprile 2011, 1500 casi; dicembre 2011, 1500 casi; aprile 2012, 2500 casi) relativi alla politica italiana e al rapporto tra i cittadini e i partiti. Risulta pertanto di particolare interesse esaminare i vari aspetti della crisi del Pdl attraverso l’analisi dei dati dei sondaggi Cise.

    Cominciamo dal dato più semplice, ma forse anche più importante: le intenzioni di voto. Il calo del Pdl nei sondaggi è rilevato unanimemente da tutti gli istituti di ricerca  e il dato medio che gli viene attribuito ad oggi (fine giugno 2012) è assai meno generoso del 21,8% della nostra rilevazione di aprile, precedente al tracollo elettorale e quindi già rivedibile al ribasso. Ciò che invece sorprende è l’andamento complessivo del partito di Berlusconi nel corso dell’ultimo anno, rappresentato nella Figura 1: nell’aprile 2011 il Pdl era ancora il primo partito italiano con quasi il 30% dei consensi. In un anno vede dilapidarsi oltre 8 punti percentuali, ossia più di un quarto dei propri voti e viene nettamente scalzato dal Pd nelle intenzioni di voto (il partito di Bersani è al 30%). Il grafico mostra chiaramente che la perdita maggiore di consensi è avvenuta tra aprile e dicembre 2011, ossia nei mesi coincidenti con la fase terminale del governo Berlusconi e l’avvento di Mario Monti e del suo “governo dei tecnici”.

    Fig. 1 Andamento delle intenzioni di voto al Pdl

    In questa fase il Pdl ha perso oltre 6 punti, per poi assestarsi nei mesi successivi con un ulteriore leggero calo fino all’odierno 21,8%.

    L’andamento declinante del partito nel corso degli ultimi dodici mesi è sottolineato anche da altri indicatori. Uno di questi è l’identificazione di partito, che quantifica gli intervistati che dichiarano di sentirsi “vicini” ad un partito politico. Come vediamo nella Figura 2, la maggioranza assoluta degli italiani non si sente vicina ad alcun partito. Non  solo, ma si assiste ad un netto aumento nel corso del tempo di questa categoria: se ad aprile 2011 coloro che non si identificavano in alcun partito erano il 51,5% oggi questi sono cresciuti fino al 60,8[1]%. Da questi dati si comprende come vi sia certamente una crisi che investe l’intero sistema partitico italiano. Se però confrontiamo i dati relativi alla seconda e alla terza categoria dei grafici della Figura 2 notiamo che il numero degli identificati negli altri partiti italiani diminuisce di circa tre punti, mentre il numero di coloro che si sentono vicini al Pdl crolla drammaticamente, passando dal 14,8% di aprile 2011 all’8,6% dello scorso aprile. In altri termini, se è vero che esiste una crisi generale dei partiti, per quanto concerne l’identificazione di partito il Pdl contribuisce per oltre i 2/3 (6,2 punti di calo nel numero di identificati su una diminuzione totale di 9,2 punti) mentre tutti gli altri partiti insieme concorrono per poco meno di 1/3 al calo di questo indicatore.

    Fig. 2 Andamento dell’identificazione di partito

    Per avere una misura ancora più precisa della crisi del Pdl un’altra variabile di particolare interesse è la cosiddetta propensione al voto per un partito (Ptv, propensity to vote). La Ptv viene misurata chiedendo all’intervistato quanto è probabile in futuro che possa mai votare per un partito (vengono testati tutti i principali partiti), su una scala da0 a 10 – dove 0 significa “per niente probabile” e 10 significa “molto probabile”. Si tratta di una domanda utile per due motivi: innanzitutto ci permette di intercettare gli orientamenti dell’intero campione, dal momento che la quasi totalità degli intervistati accetta di rispondere a queste domande (mentre sulle intenzioni di voto ai partiti risponde solo una minoranza, circa il 43%); in secondo luogo la Ptv ci permette di identificare – selezionando chi dà a un partito un punteggio particolarmente alto – il potenziale elettorale del partito. Un dato particolarmente utile in una fase di transizione come quella attuale.

    Se si utilizza questo indicatore, si vede che nel corso dell’ultimo anno il potenziale elettorale del Pdl si è drasticamente ridotto. Nella Figura 3 abbiamo considerato l’andamento delle risposte che danno al partito di Berlusconi e Alfano un Ptv superiore a 5, risposte che ci permettono di identificare l’elettorato potenziale del Pdl. Quest’area costituiva quasi un terzo del campione degli intervistati ad aprile 2011, mentre oggi si è ridotta a meno di un quarto. L’elettorato potenziale del Pdl si è dunque ridotto di oltre 8 punti, tanto che oggi più del 75% degli intervistati non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di votare Pdl in futuro.

    Fig 3 Andamento delle probabilità di voto al Pdl

    Questi dati sembrerebbero inoltre confermare che la crisi del Pdl non è un fenomeno delle ultime settimane: già nel dicembre 2011, all’epoca della caduta del governo Berlusconi l’area di coloro che davano al Pdl un Ptv compreso fra 6 e 10 aveva già subito un calo di 5,5 punti percentuali rispetto alla prima ondata.

    La fascia di elettori compresa tra un Ptv di 6 e di 10 è però assai eterogenea dal punto di vista delle future intenzioni di voto: è infatti ipotizzabile che coloro che assegnano una probabilità compresa tra 8 e 10 siano fortemente intenzionati a votare per il Pdl, mentre coloro che si collocano fra 6 e 7 si limitino a prenderlo in considerazione. Per capire se il calo del Pdl è avvenuto anche nel suo “zoccolo duro” abbiamo provato a restringere l’analisi solo a chi dà Ptv maggiori di 7. La dimensione di quest’area, come vediamo nella Figura 3, registra un calo ancora più consistente, passando dal 28,2 di aprile 2011 al 20,2 di novembre 2011 al 15,7% di aprile 2012. In un anno quindi il Pdl ha subito un vero e proprio tracollo della quota di elettorato che mostra la maggiore propensione a votarlo. A fuggire dal partito di Berlusconi non sono dunque tanto i semplici simpatizzanti quanto coloro che erano più propensi a votarlo e questo dato sembra confermare l’ipotesi che la crisi del partito non sia passeggera ma contenga degli elementi strutturali.


    [1] La categoria “Non si sentono vicini ad alcun partito” comprende anche gli intervistati che non si sono espressi sulla domanda, optando per le opzioni “Non sa” e “Non risponde”. Questi intervistati comunque non superano il 3% del campione in nessuna delle tre ondate.

  • Se il centrodestra non vota il sindaco. I flussi elettorali a Palermo

    di Vincenzo Emanuele e Matteo Cataldi

     

    Il risultato delle elezioni comunali a Palermo desta particolare sorpresa per due ragioni principali: da un lato la clamorosa sconfitta del centrodestra, da sempre largamente maggioritario in città e al governo da 10 anni, che non riesce neppure ad accedere al ballottaggio, disputato da due candidati entrambi appartenenti all’area di centrosinistra. Dall’altro lato lo stratosferico successo “personale” di Leoluca Orlando che, dopo aver mancato di un soffio la vittoria al primo turno, ha vinto il ballottaggio con un consenso plebiscitario (72,4% dei voti), seppure in presenza di un’astensione senza precedenti (60,2%).

    Al di là delle speculazioni giornalistiche, per comprendere, utilizzando criteri scientifici, cosa è successo veramente in queste elezioni e soprattutto in che modo si sono comportati gli elettori che in passato avevano scelto il centrodestra in città, il mezzo più efficace è l’analisi dei flussi elettorali.

    Le stime dei coefficienti di flusso sono state calcolate a partire dal risultato rilevato nelle 600 sezioni cittadine tramite il modello di Goodman (1953). Per garantire il rispetto del fondamentale assunto di omogeneità dei coefficienti il campione originale di 600 sezioni è stato “splittato” in 4 Zone politicamente omogenee (ci siamo basati sulle percentuali del Centro-sinistra ottenute alle elezioni 2006 e 2008) così da minimizzare la varianza interna a ciascuna zona e massimizzare quella esterna (inter-zona), rispettando anche l’altro assunto che prevede comportamenti diversi da parte degli elettori fra le diverse zone.

    In questo modo abbiamo stimato i coefficienti di flusso tra le politiche del 2008 e il voto ai candidati sindaci nel 2012 (Tabella 1), nonché tra primo e secondo turno di queste elezioni comunali (Tabelle 2 e 3). Rispetto ai flussi riguardanti altre città al voto quest’anno, come Genova e Parma, ciò che sorprende sono i massicci spostamenti di voto che si sono verificati, da interpretare con cautela, sempre necessaria quando vengono trattati i risultati di stime statistiche.

    Tabella 1  Destinazioni del voto ai partiti alle politiche 2008 verso i candidati sindaci al 1° turno

    Osservandola Tabella1 si comprende che fine hanno fatto i voti di centrodestra a Palermo. Il 70% degli elettori del Pdl 2008 (che ottenne il 45% del totale dei voti validi) quest’anno non ha votato alcun candidato: il 31% si è astenuto, il 39% ha votato soltanto per una lista (in Sicilia, a differenza del resto d’Italia, non esiste più l’ “effetto trascinamento”, ossia l’automatica attribuzione al sindaco del voto alle liste collegate). Del 30% che vota per un candidato sindaco, solo una netta minoranza sceglie Costa (appena 8 elettori Pdl su 100), più o meno la stessa cifra che invece si orienta da tutt’altra parte, verso Orlando. Leggermente superiore l’appoggio che gli elettori Udc forniscono al proprio candidato: il 10% dei voti del partito di Casini del 2008 vanno a Costa, contro un 21% di astensione e un 38% di voti alla sola lista. Ancor più eclatante ciò che avviene all’interno dell’elettorato dell’Mpa: il proprio candidato ufficiale (Aricò di Fli) è evidentemente assai sgradito, tanto che appena 1 elettore su 20 del partito di Lombardo lo sceglie, preferendogli di gran lunga altri candidati: su tutti Orlando (19%), ma anchela Caronia(11%), Costa (10%) e perfino Ferrandelli (7%). Anche a sinistra si registrano forti movimenti di voto. Mentre l’elettorato dell’ex Sinistra arcobaleno si divide in parti uguali tra Orlando e Ferrandelli  (d’altra parte in queste elezioni Rifondazione appoggiava il primo mentre Sel il secondo), quello dell’Idv tende a premiare Orlando, anche se meno di quanto ci saremmo aspettati. Il dato più importante è però senz’altro il fatto che circa metà dell’elettorato Pd 2008 sceglie l’ex sindaco della Primavera e solo un quinto il vincitore delle primarie Ferrandelli.

    C’è da notare poi la nettissima differenza di comportamento tra gli elettori di centrosinistra e quelli di centrodestra: questi ultimi, non solo si astengono molto di più (e ciò è perfettamente in linea con il trend registrato in questa tornata elettorale a livello nazionale), ma tendono a votare solo per la lista (cioè solo per un consigliere) in percentuali ampiamente superiori a quelle degli elettori progressisti: se a sinistra infatti la percentuale di voti “solo lista” oscilla tra 3 (Pd) e 12 (Idv), nel centro-destra varia tra 28 (Mpa) e 39% (Pdl). Da questo semplice dato emerge un’attitudine radicalmente opposta tra i due elettorati: se a sinistra si vota per scegliere il sindaco, a destra si vota soprattutto per scegliere il proprio consigliere comunale di fiducia.

    Tabella 2 Destinazioni del voto ai candidati sindaci al 1° turno verso i candidati al 2° turno

    Passando al commento della seconda tabella, quella che riassume i flussi di voto tra primo turno e ballottaggio, scopriamo da dove proviene il plebiscitario risultato di Orlando. Il candidato dell’Idv è il più bravo a rimobilitare il proprio elettorato: l’89% dei suoi elettori al primo turno tornano a votarlo, contro il 79% degli elettori di Ferrandelli che sconta un 14% di defezione verso il suo rivale. Ma il successo di Orlando non si spiega solo così. L’ex sindaco è infatti capace di recuperare parte dell’astensione del primo turno (9%) ma soprattutto ottiene circa un quarto dei voti “solo lista” (il 29% del totale dei voti espressi al primo turno) che, come abbiamo visto in precedenza, sono per la stragrande maggioranza voti di centro-destra. Tra coloro che avevano votato espressamente per uno dei tre candidati di centrodestra, Ferrandelli prevale nell’elettorato della Caronia e in quello di Aricò, mentre Orlando rimobilita parte dei voti di Costa e dei candidati minori (fra i quali il grosso apparteneva a Nuti del Movimento 5 Stelle).

    Tabella 3 Matrice di flusso dei voti ai candidati sindaci,  1°-2° turno

    La terza tabella rappresenta infine la matrice di flusso dei voti ai candidati sindaci tra primo e secondo turno calcolata sul totale degli elettori. Come possiamo vedere, il successo di Orlando, straordinario in termini relativi, è di molto ridimensionato se guardiamo i dati assoluti. Su 100 elettori, solo 28 scelgono il nuovo sindaco di Palermo, mentre 61 si astengono. Sommando i voti di Orlando e Ferrandelli si ottiene un 39%, una cifra che più o meno corrisponde all’area di consenso che tradizionalmente il centrosinistra ottiene in città (38% nel 2006, 35% nel 2008). Palermo dunque non si è spostata a sinistra, è semplicemente accaduto che il centrodestra ha “scelto di non scegliere” il sindaco, astenendosi o votando solo per le liste. Ma in democrazia conta solo chi vota.

  • Ballottaggi 2012: storico crollo dell’affluenza, più di 1 su 2 resta a casa

    di Vincenzo Emanuele

    A poche ore dalla chiusura dei seggi il dato più rilevante che emerge, prima ancora del conteggio di vittorie e sconfitte delle varie forze politiche, è il crollo storico della partecipazione. Non c’era mai stata in Italia un’affluenza così bassa alle elezioni amministrative. Il dato finale parla di una partecipazione del 51,4% nel totale dei comuni in cui si è votato, ma appena del 45,1% nei 19 capoluoghi. Nelle principali città dunque più di un elettore su due resta a casa, con un calo di oltre 17 punti rispetto ad appena due settimane fa. Sono numeri impressionanti, che rivelano un malessere generale nei confronti dell’attuale politica e che si traduce soprattutto in una crescente indifferenza e apatia verso la cosa pubblica e solo in minima parte nel voto a forze politiche nuove (come il Movimento 5 Stelle).

    Se confrontiamo questi dati con quelli delle comunali dell’anno scorso la differenza è netta: nel 2011 si tennero i ballottaggi in 13 comuni capoluogo ed anche in quel caso si notò una diminuzione dell’affluenza rispetto al primo turno: si passò infatti dal 65,3% al 59,3%, con un calo di 6 punti (vedi Tabella 2), certamente significativo ma tuttavia considerabile come fisiologico dal momento che ai ballottaggi si vota solo per la scelta del sindaco e dunque manca il traino delle liste che, soprattutto al Sud, esercitano una spinta decisiva al primo turno.

    Quello di oggi non è certamente un calo fisiologico, anzi sembra proprio un sintomo grave del precario stato di salute in cui versa la democrazia italiana.

    Scendendo nel dettaglio delle singole zone (Tabella 1), si nota un’inversione significativa rispetto a quanto accaduto al primo turno. Le città meridionali, che due settimane fa erano state quelle con la maggiore partecipazione, vedono crollare l’affluenza di 21,1 punti (al 44,8%), seguite dal Nord, già maglia nera della partecipazione al primo turno (58,2 % nelle 19 città considerate), che oggi tocca il punto più basso fra le tre aree del paese (42,1%). La Zona rossa è invece l’area in cui si assiste al calo più contenuto di votanti (-7,2 punti), dato che riporta le tre città della zona sensibilmente sopra la media nazionale (55,2%), soprattutto grazie al risultato di Parma (61,2%), la città in cui vi è la diminuzione più bassa di votanti (-3,4 punti).

    Quali sono le variabili che incidono sulla maggiore o minore affluenza alle urne? Nonostante il calo generale, infatti, troviamo un’ampia variabilità di risultati fra le 19 città: si passa da un minimo del 39,1% di Genova ad un massimo del 63,5% a Isernia. Abbiamo testato la partecipazione nelle 19 città considerate con due variabili, legate ai risultati del primo turno: i punti percentuali di distacco fra i primi due candidati classificati e il totale percentuale raccolto dagli stessi. L’ipotesi è che un maggior distacco al primo turno disincentivi la partecipazione alle urne (il primo candidato è già dato per vincente), mentre una maggior percentuale dei primi due classificati tenda ad essere correlata con una più alta affluenza (il totale dei cittadini “coinvolti” dal ballottaggio è infatti maggiore). I risultati confermano l’ipotesi appena esposta. Come vediamo nella Tabella 1, assistiamo ad una correlazione negativa (r= -.366) tra distacco al primo turno e affluenza. I casi di Genova, Palermo, Taranto e Lucca confermano questo dato: in tutti questi casi la distanza fra i due candidati al ballottaggio si attestava fra i 30 e i 33 punti percentuali e in questi quattro comuni registriamo una partecipazione sempre inferiore alla media nazionale, oscillante fra il 39 e il 45%. Per quanto concerne la seconda variabile, il totale percentuale di voti raccolti al primo turno dai due candidati al ballottaggio incide positivamente sulla partecipazione: la correlazione è infatti piuttosto forte (.505). I casi di Isernia, Piacenza, Trani e L’Aquila rendono bene l’idea: in queste quattro città i due candidati sommavano oltre il 70% dei voti espressi al primo turno e la partecipazione oggi risulta sensibilmente sopra la media nazionale (fra il 54,2 e il 63,5%). Altre variabili, come ad esempio il tipo di duello che caratterizzava il ballottaggio nelle singole città (centrosinistra contro centrodestra, o terzo polo, o sinistra radicale) non sembrano incidere sulla partecipazione in modo significativo.

  • Comunali 2012, c’era una volta il bipolarismo

    di Vincenzo Emanuele

     

    Uno dei dati che emerge con maggiore chiarezza dalle prime analisi del voto amministrativo di domenica e lunedì è lo sfarinamento del sistema partitico italiano. Nella Tabella e nei grafici seguenti abbiamo calcolato gli indici di bipartitismo e bipolarismo nei 26 comuni capoluogo in cui si è votato e li abbiamo messi a confronto con gli stessi valori degli indici nelle precedenti comunali. Per indice di bipolarismo intendiamo la somma dei voti maggioritari dei due candidati sindaci che hanno ottenuto più voti in ogni città, mentre l’indice di bipartitismo si riferisce alla somma dei voti ottenuti dalle due liste con i maggiori consensi. I valori di questi indicatori ci forniscono alcuni dati precisi per valutare la tenuta dei blocchi e delle principali opzioni partitiche nel nostro paese. Il boom di Grillo, l’enorme numero di liste civiche, la presenza di candidati del Terzo Polo e il crollo del Pdl hanno differenziano fortemente questa elezione dalla precedente tornata comunale che, per la stragrande maggioranza dei comuni (24 su 26, con le uniche eccezioni di Brindisi e Catanzaro che votarono rispettivamente nel 2009 e nel 2011) si è svolta nel 2007, cioè in una situazione di grande stabilità e quasi perfetto bipolarismo (si trattava dell’anno successivo alle politiche 2006, quelle del confronto tra le due maxi-coalizioni dell’Unione della Casa delle Libertà). I numeri sono eloquenti: i primi due candidati sindaco sommavano l’87,6% dei voti nel 2007 mentre oggi totalizzano appena il 69,3%. Si tratta di una perdita di oltre 18 punti percentuali che, disaggregata per zona geografica, rivela ulteriori elementi interessanti. Mentre al Sud la maggiore tenuta del centrodestra e la più ridotta consistenza dei grillini (la lista del Movimento 5 Stelle è presente solo in metà dei comuni meridionali) attenuano il calo rispetto al 2007 limitandolo a 11,5 punti (con perdite minime a Catanzaro e a Lecce, che si attestano entrambe su valori di bipolarismo superiori al 90%), nella Zona rossa (-19 punti) e soprattutto al Nord (-26,2 punti) il dato è eclatante. Nelle 10 città settentrionali cinque anni fa oltre 9 elettori su 10 convergevano sui due maggiori candidati sindaco, oggi meno di due su tre si comportano allo stesso modo, mentre oltre un terzo sceglie di rivolgersi a candidati “minori”. A Como e a Belluno l’indice è addirittura inferiore al 50%. (bottomlineequipment.com) Su questo dato eccezionale incide certamente anche la divisione tra Pdl e Lega che ovunque tranne che a Gorizia si sono presentate separatamente.

    Sebbene con differenze meno marcate, anche l’indice di bipartitismo testimonia lo stato di crescente polverizzazione dei partiti italiani. La somma delle prime due liste nei 26 comuni capoluogo è in media del 34%, in calo di 6,3 punti rispetto alle ultime comunali. Questo dato, già di per sé significativo, acquisisce ancor più importanza se pensiamo che nel 2007 Pd e Pdl non esistevano ancora e al loro posto c’erano Forza Italia, An, i Ds e la Margherita, tutti partiti di medie dimensioni. Ebbene, oggi siamo tornati ad un livello di concentrazione del voto verso i due maggiori partiti molto più basso perfino rispetto all’epoca precedente alla formazione di Pd e Pdl. Non solo, ma se aggiungiamo il fatto che molto spesso le due liste che arrivano prime non sono quelle di Bersani e Alfano ecco che il quadro di vorticosa atomizzazione si fa sempre più chiaro. Come per l’indice di bipolarismo, si conferma la maggiore tenuta del bipartitismo in termini relativi al Sud (-4,2, ma con crescite rispetto al 2007 a Taranto, Trani, Lecce, e l’Aquila) rispetto al Nord (-9 punti, con il picco di -21 punti a Genova). In termini assoluti però è la Zona rossa l’area del paese che fa segnare i valori di bipartitismo più alti, grazie alla sostanziale tenuta del Pd nella sua storica area di forza: nelle quattro città tosco-emiliane le due liste più votate considerate insieme cumulano il 45,1% dei voti, con la crescita di Piacenza (+7 punti) che controbilancia il crollo dell’indice a Parma (-23 punti). Il Nord con il 35,9% è di poco superiore alla media nazionale, ma al suo interno presenta un’ampia variabilità (si passa dal 52,2% di Verona al 18,5% di Cuneo) mentre il Sud (28,6%) si conferma l’area con la più alta frammentazione del paese: con l’eccezione di Trani, tutte le altre 11 città mostrano valori dell’indice inferiori al 30% con Palermo addirittura al 18,5% ( e il primo partito appena al 10,3%, dato ancor più clamoroso se pensiamo che si tratta di poco più del doppio della soglia di sbarramento del 5% vigente in Sicilia per tutte le liste).


     

  • Comunali 2012, crolla l’affluenza, si vota di più al Sud

    di Vincenzo Emanuele

    Il voto amministrativo di domenica e lunedì ha riservato molte sorprese. In questo primo articolo ci concentriamo sulla partecipazione, mentre nei successivi saranno analizzati anche i dai relativi alle performance delle forze politiche. Nel turno elettorale che si è appena concluso l’affluenza ha subito un brusco crollo: nei 26 comuni capoluogo è stata del 63,5%, in calo di oltre 8 punti rispetto alle precedenti comunali (vedi Tabella 1 e Figura 1 in basso). Questo dato riflette lo stato di crisi del sistema politico italiano e la sempre maggiore disaffezione degli elettori nei confronti delle attuali forze in campo, già ampiamente documentato anche dalle analisi dell’Osservatorio politico del Cise. Un tale crollo della partecipazione è un dato tanto più allarmante se pensiamo che si è trattato non di elezioni politiche bensì amministrative: la competizione per la scelta del sindaco e la corposa presenza, un po’ in tutti i comuni, di liste e candidati consiglieri, avrebbe potuto tenere il tasso di affluenza ad un livello non molto inferiore al passato, ma non è stato così. Anche le elezioni comunali scontano il clima di antipolitica dilagante nel paese. Non solo, ma il crollo dell’affluenza è stato più consistente al Centro-Nord rispetto al Sud. Nei 10 capoluoghi settentrionali al voto la partecipazione è stata appena del 60% con un calo di 8,1 punti rispetto alla precedente tornata. In particolare la maglia nera di queste elezioni è andata a Genova (55,5%), ma in generale solo Verona (69,6%) e Cuneo (68,8%) risultano sopra la media nazionale, con perdite rispetto alle ultime comunali in doppia cifra percentuale ad Alessandria (-13,2 punti), Monza (-13,9) e Belluno (-10,5). Nelle quattro città della Zona rossa al voto si registrano le maggiori diminuzioni nei tassi di affluenza alle urne: la partecipazione è scesa di oltre 11 punti crollando al 61,4%, un dato bassissimo per questa parte del paese, che alle elezioni politiche è storicamente la zona italiana che vota di più (82,4% alle politiche 2008 contro una media nazionale nei 26 comuni del 76,7%).  Come già accaduto alle corse comunali gli elettori delle regioni meridionali mostrano una maggiore sensibilità quando si tratta di scegliere il sindaco e il consiglio comunale della propria città. Così il Sud, che alle politiche tende a partecipare meno del resto del paese (-4,1 punti rispetto alla media nel 2008), alle amministrative è l’area con la maggiore affluenza (67,3%), anche se pure qui si risente del generale calo rispetto a 5 anni fa (-7,5 punti). Sul sottoinsieme meridionale pesano molto negativamente le basse affluenze dei due comuni più grandi, Palermo (63,2%) e Taranto (63,4%). Per il resto, con la sola eccezione di Trapani, gli altri 9 comuni del Sud si attestano tutti sopra il 70% di affluenza, con addirittura quattro comuni sopra il 75% (Catanzaro, Trani, Isernia e Frosinone).

    Da questi dati sull’affluenza emergono quindi due elementi di discontinuità e uno di continuità: i primi sono il crollo repentino e generalizzato (i votanti calano in tutti i comuni senza eccezioni) dell’ affluenza e la tendenza (già in parte emersa alle regionali 2010) sempre più marcata della Zona rossa ad avvicinarsi al resto del Nord perdendo il proprio tratto distintivo di alta partecipazione. La continuità è invece rappresentata dalle regioni meridionali che rispondono più volentieri alla chiamata alle urne quando si tratta di attribuire un voto che è molto più “personale” (al sindaco e al consigliere) che “politico”.

    Fig. 1 Affluenza nei 26 capoluoghi e confronto con le precedenti comunali, dati percentuali

    Tab. 1 Affluenza nei 26 capoluoghi e confronto con le precedenti comunali, dati percentuali 

     

     

  • Elezioni in Francia, i socialisti riconquistano l’Eliseo

     

    di Vincenzo Emanuele e Matteo Cataldi

    Dopo due settimane di serrata campagna elettorale, condite dal dibattito televisivo di mercoledì scorso, si è conclusa la lunga corsa verso la conquista della Presidenza della Quinta Repubblica francese. Ha vinto Hollande, come pronosticato da tutti i sondaggi in queste ultime settimane, con il 51,6% dei voti contro il 48,4% di Sarkozy. Il cambio della guardia all’Eliseo è un fatto storico: erano 17 anni che i socialisti non occupavano la massima carica dello stato, 24 che non vincevano un’elezione presidenziale (l’ultima volta era stato Mitterand nel 1988, rieletto per il secondo mandato contro Chirac).

    Come quasi sempre è accaduto dal 1958  in poi la partecipazione al voto tra primo e secondo turno è cresciuta: rispetto a due settimane fasi sono recati a votare ben 567.000 elettori in più (l’80,3% del corpo elettorale), dato che testimonia la vitalità della democrazia francese e che rappresenta un’ulteriore conferma del buon funzionamento del sistema elettorale a doppio turno. Questo sistema fa sì che le forze politiche misurino la propria consistenza elettorale al primo turno, che serve quindi a fotografare i rapporti di forza esistenti nel paese, mentre il ballottaggio, due settimane dopo, diviene la partita decisiva per la Presidenza e ciò spiega la rimobilitazione di elettori tra primo e secondo turno: i francesi hanno particolarmente a cuore l’istituzione della Presidenza e sentono l’importanza della ricorrenza elettorale, e quindi si recano in massa alle urne anche quando il proprio candidato preferito è già uscito di scena al primo turno.

    Un confronto con i risultati del primo turno mostra, ben al di là del semplice scarto tra Hollande e Sarkozy, l’eccezionalità del risultato ottenuto dal nuovo Presidente. Due settimane fa l’area di destra, costituita dalla somma dei voti a Sarkozy, Le Pen e Dupont-Aignan rappresentava ancora la maggioranza relativa dell’elettorato francese: i tre sommavano infatti il 46,9% dei voti, contro il 43,7% del’area di sinistra (Hollande, Mélenchon, Joly, Poutou, Arthaud). Oggi la situazione si è ribaltata, il che significa che Hollande è riuscito ad andare oltre i consensi della gauche tradizionale, sfondando nel centro di Bayrou che non a caso aveva dichiarato il proprio voto al candidato del Ps. Non solo, ma è probabile che Hollande sia riuscito a recuperare anche una porzione di elettorato di Marine Le Pen, dal momento che la regione di Nord-Pas de Calais, caratterizzata da un forte insediamento operaio, in cui il Front National aveva raggiunto il 23,3% dei voti al primo turno, è tornata socialista. Per il resto le differenze territoriali emerse al primo turno si confermano: Hollande prevale nelle regioni del Sud-ovest e del Centro, oltre che in Bretagna, mentre Sarkozy, esattamente come due settimane fa, risulta vincente nelle regioni orientali, dal Nord est (Ardenne, Lorena, Alsazia e Franche-Comte) al Sud est (Provenza, Costa azzurra e Corsica), dove sembra che i voti di Marine Le Pen siano confluiti in massima parte sull’ex Presidente.

  • Il governo Monti perde appeal, piace solo la lotta all’evasione

    Il sondaggio Cise Economia di aprile 2012 (1500 interviste telefoniche condotte tra il 5 e il 12 aprile) ci dice che la luna di miele degli italiani con il “governo dei professori” si è conclusa. Dopo aver beneficiato, nei primi mesi di attività, di un altissimo livello di fiducia, oggi il nuovo esecutivo non ha più il favore della maggioranza degli italiani. Come vediamo nella figura in basso, la percentuale di coloro che esprimono un giudizio molto o abbastanza positivo è del 43,8%, contro un 56,2% che invece giudica il nuovo governo molto o abbastanza negativamente.

    In particolare, ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente Mario Monti e i suoi colleghi di governo è la rilevante discrepanza tra le due opzioni di risposta estreme: quasi un rispondente su quattro ritiene questa esperienza di governo come “molto negativa” contro solo un 3% di giudizi “molto positivi”. Incrociando il giudizio sull’operato del governo con l’autocollocazione politica dei rispondenti, emerge che l’unico gruppo in cui l’esecutivo gode al momento di una maggioranza è quello degli elettori che si definiscono di sinistra o di centrosinistra: la somma di giudizi molto positivi e abbastanza positivi si attesta infatti al 50,9%. Fra gli elettori del centro, di centrodestra e di destra non ci sono grosse divergenze, con il 42-43% di favorevoli. Particolarmente critici del governo Monti si dimostrano invece quanti rifiutano di collocarsi sull’asse destra-sinistra: in questa categoria appena uno su tre ne approva l’operato fin qui.

    Abbiamo anche chiesto ai nostri intervistati di collocare il governo lungo l’asse destra-sinistra a partire dall’operato di questi primi mesi. Una porzione pari circa ad un quarto del campione non ha risposto a tale domanda; la figura qui sotto riporta invece i dati percentuali di quanti hanno fornito una risposta. La maggioranza degli intervistati colloca il governo dei tecnici al centro (29%), ma sommando destra con centrodestra e sinistra con centrosinistra, si osserva come il 49% del campione lo percepisca alla destra del centro, mentre solo il 22% lo collochi alla sua sinistra.

    Alla luce di questo dato appare paradossale come siano proprio gli elettori di sinistra gli unici ad approvarne l’operato, anche perchè dall’incrocio fra collocazione del governo ed autocollocazione si osserva come questi siano anche il gruppo che maggiormente percepisce il governo Monti e il suo operato come di destra (54%). Parallelamente si verifica la stessa cosa negli elettori di centrodestra che collocano il governo a sinistra assai di più della media (25%); bisogna comunque sottolineare come il fenomeno sia più ridotto e come in realtà siano i non collocati a percepire Monti più a sinistra (31%). Resta però comune a elettori di centrodestra e centrosinistra il fenomeno del contrasto, per cui ciascun gruppo tende a collocare l’oggetto lontano da sè. Molto interessante, in questo senso, è il dato degli elettori centristi che appare in controtendenza: infatti si registra il massimo delle collocazioni al centro del governo, con quasi il 40%. Per questo gruppo si ha dunque un meccanismo opposto: non contrasto, ma assimilazione.

    Scendendo nel dettaglio delle singole misure adottate dal governo Monti, gli intervistati confermano questo atteggiamento di criticità: come vediamo dalle figure in basso, chiamati a dare un voto da 0 a 10 su 6 temi di cui si è occupato il governo, solo la lotta all’evasione fiscale riceve l’approvazione dell’opinione pubblica, con un punteggio medio di 6,7 e il 77% dei rispondenti che gli assegna una valutazione dal 6 in su.

    Tutte le altre 5 misure risultano sotto la sufficienza: alcune, come il miglioramento dei conti pubblici (media 5,6), le semplificazioni burocratiche (5,5) e le liberalizzazioni (5,2) ricevono un giudizio mediocre, mentre sulla riforma del mercato del lavoro (media 4,6) e soprattutto sulle pensioni (4,1) la bocciatura degli italiani è più netta.

    Proprio sui provvedimenti in materia pensionistica, è interessante notare che oltre un quinto del campione (il 21,3%) assegna un punteggio “estremo” di 0. Sulle altre quattro misure giudicate negativamente, invece, prevale la moderazione, con la maggior parte degli intervistati che si colloca sulle opzioni di risposta intermedie (5 e 6) con la parziale eccezione della domanda sulla riforma del mercato del lavoro, altro punto debole del governo (coloro che rispondono “0” sono il 16,7%).